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i cìconi
D’Ilio partito mi spinse alla terra dei Cìconi il vento,
Ismaro: quivi predai la città, feci scempio di loro.
Dalla città le lor donne e le molte ricchezze prendemmo
e dividemmo tra noi, che ciascuno n’andasse contento.
Quivi esortavo che noi si fuggisse con rapidi piedi:
ben li esortavo, ma quelli non diedero, stolidi, retta:
molto bevendo vin pretto, scannavano pecore molte
lungo la spiaggia con buoi di pel lustro e di passi incrociati;
fin che partiti gettavano i Cìconi ai Cìconi gli urli,
loro finitimi, ch’erano piú ad un tempo e piú forti,
dentro la terra abitando; e sapevano bene da’ carri
contro guerrieri combattere, e quando occorresse, pedoni.
Vennero — tanto le foglie ed i fiori non sono a suo tempo —
di buon mattino. Allor sì che da Giove ci venne sventura,
gli sventurati, perchè sopportassimo molti dolori!
E la battaglia s’accese e durava alle rapide navi,
e si scagliavano contro le lancie guarnite di bronzo.
Fin che durava il mattino e cresceva il mirabile giorno,
ci difendemmo a piè fermo, sebbene noi fossimo in meno:
poi quando il sole svoltò, in quell’ora che staccano i bovi,
ecco, domati dai Cìconi, in dietro rivolti gli Achei.
Sei d’ogni nave, compagni vestiti di belle gambiere,
morti vi furono: noi e la morte e la sorte fuggimmo.