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SCENA SECONDA

GALEALTO, CONSIGLIERO


Galealto Ahi! qual Tana, qual Istro, e qual Eusino,

Qual profondo Ocean con tutte l’acque
Lavar potrà la scellerata colpa,
Ond’ho l’alma, e le membra immoade, e sozze?
Vivo anco dunque, e spiro, e veggio il Sole?
Nella luce degli uomini dimoro?
Son detto Cavalier, son Re chiamato?
E chi mi serve, e chi mi onora, e cole?
E forse ancor, chi m’ama? Ah certo m’ama
Colui, che del mio amor tai frutti coglie.
Ma che mi giova, oimè? s’esser mi pare
Di vita immeritevole, e se stimo
Che indegnamente a me quest’aria spiri,
E ’ndegnamente a me risplenda il Sole?
Se l’aspetto degli uomini m’è grave,
Se ’l titolo regal, se ’l nome illustre
Di Cavalier m’offende? s’ugualmente
I servigj, e gli onor disdegno, e schivo,
E s’in guisa me stesso odio, ed aborro,
Che nell’esser amato offesa i’ sento?
Lasso! io ben me n’andrei per l’erme arene
e Solingo, errante, e nell'Ercinia folta,
O nella Negra selva, o in quale speco
Ha più profondo il Caucaso gelato,
Mi asconderei dagli uomini, e dal Cielo.
Ma che rileva ciò, se a me medesmo
Non mi nascondo, oimè? Son io, son io
Consapevole a me d’empio misfatto.
Di me stesso ho vergogna, ed a me stesso
Son vile, e grave, ed odioso pondo.
Che pro, misero me! che non paventi
I detti, e ’l morinorar del volgo errante,
O l’accuse de’ saggi, se la voce
Della mia propria coscienza immonda
Mi rimbomba altamente in mezzo il core;
S’ella a vespro mi sgrida, ed alle squille?
Se mi turba le notti, e se mi scuote
Dagl’infelici miei torbidi sogni?

Misero me! non Cerbero, nè Scilla

Latrò così giammai, com’io nell’ ìalma
Sento i latrati tuoi: non can, non angue
Dell’arenosa Libia, nè di Lerna
Idra, nè delle Furie empia cerasta,
Morse giammai, com’ella morde, e rode.
Consigl. Signor mio, se la fè, che già più volte
Ti fu dimostra a manifeste prove
Nelle liete fortune, e nell’avverse,
Porger può tanto ardire ad umil servo,
Ch’egli osi di pregare il suo Signore,
Che de’ secreti suoi parte li faccia;
Io prego te, che la cagion mi scopra
Di questi nuovi tuoi duri lamenti:
E qual fallo comesso abbi sì grave,
Che contra te medesmo ora ti renda
Accusatore, e giudice sì fiero.
Non mel negar, Signor; perchè ogni doglia
S’inasprisce tacendo, e ragionando
Si mitiga, o consola: ed uom, che il peso
De’ suoi pensier deponga in fide orecchie,
Molto si sente alleggerito ’l core.
Galeal. O mio fedel, a cui già ’l padre mio
La fanciullezza mia diede in governo,
Perchè informassi tu l’animo molle,
E l’ancor rozza mia tenera mente
Di bei costumi onesti, e del sapere,
Ch’è richiesto a color, ch’il Ciel destina
A grandezza di scettri, e di corone,
Et ad esser de’ popoli Pastore;
Ben mi sovvien di quai prudenti e saggi
Detti m’ammaestravi, e quai sovente
Mi proponevi tu dinanzi agli occhi
D’onestà, di virtà mirabil forme;
E quai di regi esempj, e di guerrieri,
Che nell’arte di pace, e di battaglia
Furon lodati: e con quai forti sproni
Di generosa invidia il cor pungevi:
E con quali d’onor dolci lusigghe
L’allettavi a virtù; lasso! m’accresce
Quest’acerba memoria il mio dolore,
Che quant’io dal sentier, che mi segnasti,
Mi veggio traviato esser più lunge,

Tanto più contra me di sdegno avvampo:

E s’ad alcuno
Asconder per rossor dovessi il fallo,
Che la vita mi fa spiacente, e grave,
Esser tu quel dovresti, i cui ricordi
Così male da me fur posti in opra;
Ma l’amor tuo, la conosciuta fede,
L’avvedimento, e ’l senno, e quella speme,
Che del consiglio tuo sola mi avanza,
( Benchè speme assai debole, ed incerta )
Mi confortano a dir quel, che paventa,
E inorridisce a ricordarsi il core,
E per duol ne rifugge, e che la lingua
Tremante, e schiva a palesar s’induce:
E per questo in disparte io t’ho qui tratto.
Ben rammentar ti dei, ch’appena io fui
Di fanciullezza uscito, e da quel freno
Sciolto, col qual tu mi reggesti un tempo,
Che vago di mercar fama, ed onore,
Lasciai la patria, il caro padre, e gli agi
Delle case regali, e peregrino
Vidi varj costumi, e varie genti;
E sconosciuto io mi trovai sovente,
Ove il ferro si tratta, e sparge il sangue.
In quegli errori miei ( come al Ciel piacque )
Mi strinsi d’amicizia in dolce nodo
Col buon Torindo, Principe de’ Goti,
Che giovinetto anch’egli, e dal medesmo
Desio spronato d’onorata fama,
Peregrinava per li regni estranj.
Seco i Tartari erranti, e i Moschi i’ vidi,
Abitator de’ paludosi campi,
Gli uni Sarmati, e gli altri, ei Rossi, e gli Unni,
E della gran Germania i monti, ei lidi,
E insomma ogni paese, che si giaccia
Soggetto ai sette gelidi Trioni.
Della milizia i gravi affanni seco
Soffersi: e sempre seco ebbi comune
I perigli non meno, e le fatiche,
Che le palme, e le prede. Assai sovente
Ei del suo proprio petto a me fè scudo,
E mi sottrasse a morte: ed io talora
La vita mia per la sua vita esposi.

Nè dopo, che moriro i padri nostri,

E ch’alla cura de’ paterni regni
Richiamati ambo fummo, i dolci officj
Cessàr dell’amicizia: ma disgiunti
Di luogo, più che mai di core uniti,
Cogliemmo anco di lei frutti soavi.
Misero! or vengo a quel, che mi tormenta.
Questo mio caro, e valoroso amico,
Pria che a lui fesse elezione, e sorte,
Me dell’armi compagno, e degli errori,
Mentre ei sol giva sconosciuto attorno,
Trasse in Suezia all’onorata fama
D’un torneamento, ond’ebbe poscia il pregio.
Ivi in sì forte punto agli occhi suoi
Si dimostrò la fanciulletta Alvida,
Che nella prima vista egli sentissi
L’alma avvampar d’inestinguibil fiamma.
E bench’egli potesse far, ch’in guisa
Favilla del suo ardor fuor tralucesse,
Che dagli occhi di lei fosse veduta,
Perch’essa più del tempo in casta cella
Era guardata dalla madre allora,
Quasi in chiuso giardin vergine rosa;
Nondimen pur nudrì nel core il foco
Di memoria viepiù, che di speranza:
Nè lunghezza di tempo, o di cammino,
Nè rischio, nè disagio, nè fatica,
Nè il veder nuovi regni, e nuove genti,
Piagge, monti, foreste, e fiumi, e mari,
Nè di nuova beltà nuova vaghezza,
Nè, s’altro è, che d’Amor la face estingua,
Intepidiro i suo’ amorosi incendj;
Ma qual prima gli corse ardente al core
L’immagine di lei, tal vi rimase.
Delle fatiche sue solo ristoro
Era il parlar di lei meco talvolta;
Talor tra sè medesmo: ed involava
Le dolci ore del sonno alla quíete,
Per darle a’ suoi pensier, che sempre desti
Tenea nell’alma il vigilante Amore.
Così de’ suoi pensieri, e de’ suoi detti
Esca facendo al suo gradito foco,
Che quasi face allo spirar de’ venti

S’avvivava, commosso a’ suoi sospiri

Secretamente amò tutto quel tempo,
Che peregrino andò; e del suo core
Fummo sol secretarj Amore, ed io.
Ma poichè richiamato al patrio Regno
Nel gran soglio degli avi egli s’assise,
E ch’alle nozze l’animo rivolse,
Tentò con destri ed opportuni mezzi
Se indur potea d’Alvida il vecchio padre
Che la figliuola sua li desse in moglie.
Ma indurato il trovò d’alma, e di core;
Perocchè il vecchio Re, crudo d’ingegno,
Di natura implacabile, e tenace
D’ogni proposto, e di vendetta ingordo,
Ricusò di voler pace co’ Goti,
Non ch’amicizia, o parentado alcuno:
Da cui sì spesso depredato, ed arso
Vide il suo regno, violati i tempj,
Profanati gli altari, e dalle cune
Tratti i teneri figli, e da’ sepolcri
Le ceneri degli avi, e sparse al vento;
Da cui, non ch’altro, un suo figliuol sul fiore
Fu dell’età miseramente estinto.
Poichè sprezzar, ed aborrir si vide
Il buon Torindo, ancorchè giusto sdegno
Concetto avesse contra il fiero veglio,
Che fatto avea di lui aspro rifiuto;
Non però per repulsa, ovver per l’ira,
Che l’ardea contra il padre, ei scemò dramma
Di quell’amor, onde la figlia in moglie
Così cupidamente aver bramava.
E ben è ver, che negli umani ingegni,
E più ne’ più magnanimi, ed alteri,
Per le difficoltà cresce il desio:
E ch’a quel, ch’è negato, uom s’affatica
Con isforzo maggior di pervenire;
Perocchè la repulsa, e ’l nuovo sdegno
Al vecchio amor del Principe de’ Goti
Fur quasi sferza, e sproni, e confermaro
L’ostinato voler nell’alta mente.
Dunque ei fermato di voler, mal grado
Del padre, aver la figlia: e di volere
Viver con lei, e di morir per lei:

D’acquistarla per furto, o per rapina

Pensava, e varj in sè modi volgea,
Ora d’accorgimento, ora di forza:
Alfin, come più agevole, e più breve
AI pensier s’appigliò, ch’ora udirai.
Per un secreto suo messo fedele,
E per lettere sue, con forti preghi
Mi strinse, ch’io la bella Alvida al padre
Per consorte del letto, e della vita
Chieder dovessi: e che dapoi ch’avuta
L’avessi in mio poter, la conducessi
A lui, che sì n’ardeva, e che non era
Del pertinace Re genero indegno.
Io, sebben conescea, che quest’inganno
lrritati gli sdegni, e forse l’armi
Incontra me della Suezia avrebbe:
E sebben conoscea, che tutto quello,
Ch’è in fraude, o c’ha di fraude almen sembianza,
Brutta il candido onor, più ch’altra macchia;
Perchè la fraude è non pur vizio infame,
Mal più sozzo de’vizj, e ’l più nocivo;
Nondimen giudicai, ch’ove interviene
Della sacra amicizia il sacro nome,
Quel, che meno per sè sarebbe onesto,
Acquisti d’onestà sembianti, e forme:
E se ragion mai violar si deve,
Sol per amico violàr si deve:
Nell’altre cose poi giustizia serba.
Questa credenza dunque; e ’l creder anco,
Che ’l beneficio allor, a chi ’l riceve,
Più grato sia, quando colui, che il face
Con suo periglio il fa, furon cagione,
Ch’io preposi al piacer del caro amico
La mia pace; e del regno: e mi compiacqui
Divenir disleal per troppa fede.
Questo fisso tra me, non per messaggi,
Nè con quell’arti, che tr’ Regi usate
Sono, tentai del suocero la mente;
Ma per troncar gl’indugi, io stesso a lui
Della mia volontà fui messaggiero.
Ei gradì la venuta, e le proposte,
E per oste, e per genero m’accolse,
E congiunse alla mia la real destra:

Ed a me diede, e ricevè la fede,

Ch’io di non osservar prefissò avea.
Indi, siccome a sposo, a me concesse
La figlia sua, che vergine matura
Fioria, cresciuta di bellezza, e d’anni.
Ed io, tolto congedo, in sulle navi
Posta la preda mia, spiegai le vele,
E per l’alto Ocean drizzai le prore.
Noi solcavamo il mare; e la credente
Mia sposa, al fianco mi sedeva assisa
Sempre, e pendea dalla mia bocca intenta:
E da’ suoi dolci sguardi, e da’ sospiri
Ben comprendea ch’ella nel molle core
Ricevuto m’avea sì fattamente,
Che si struggea d’amore, e di desio.
Io, che con puro e con fraterno affetto
Rimirata l’avea, come sorella,
Prima che del suo amor mi fossi accorto,
Quando vidi, ch’amando, ella ad amare
Mi provocava, mi commossi alquanto:
Pur ripresi dell’alma i moti audaci,
E posi freno ai guardi, e le parole
Ritenni, e tutto mi raccolsi, e strinsi.
Ma ’l luogo angusto, il qual seco congiunto
Mi tenea, mal mio grado; e l’ozio lungo,
E i suoi d’amor reiterati inviti,
Tanto efficaci più, quanto temprati
Eran più di modestia, e di vergogna,
Vinsero alfin la combattuta fede.
Ahi! ben è ver, che risospinto amore
Dopo mille repulse, assai più fiero
Torna all’assalto: ed è sua legge antica,
Ch’egli a nessun amato amar perdoni.
Già con gli sguardi ai guardi, e co’ sospiri
Rispondeva ai sospiri: e le mie voglie
Alle voglie di lei si feano incontra,
Sulla fronte venendo, e ’n sulla lingua ì;
Ma pur anco di me signore intauto
Era, ch’io contenea le mani, e i detti.
Quando ecco la Fortuna, e ’l Ciel avverso,
Con Amor congiurati, un fiero turbo
Mosser repente, il qual grandine, e pioggia
Portando, e cieche tenebre, sol miste

D’incerta luce, e di baleni orrendi,

Volser sossopra l’onde: e per l’immense
Grembo del mar le navi mie disperse,
E quella, ov’era la donzella, ed io,
Scevra da tutte l’altre, a terra spinse.
Sicch’a gran pena il buon nocchiero accorto
La salvò dal naufragio, e si ritrasse
Dove si curva il lido, e fra due corna,
e Che scende in mar, rinchiude un cheto seno,
Che porto è fatto dagli opposti fianchi
D’un’isola vicina, in cui si frange
L’onda, che vien dall’alto, e si divide,
Quivi ricoverammo, e desiosi
Ponemmo il piè nelle bramate arene.
Mentre altri cerca i fonti, altri le selve,
Altri rasciuga le bagnate vesti,
Altri appresta la mensa; io con Alvida
Solo lasciato fui sotto il coperto
D’una picciola tenda: e già sorgeva
La notte amica de’ furtivi amori;
Già crescea per le tenebre l’ardire,
E fuggía la vergogna; allor mi strinse
La vergine la man tutta tremante:
Questo quel punto fu.
Alloramor, furor, impeto, e forza
Di fatta cupidigia al cieco furto
Sforzàr le membra temerarie, e ingorde;
Ma la mente non già, che si ritrasse
Tutta in sè stessa schiva e disdegnosa;
E dal contagio de’ diletti immondi
Pura si conservò, quanto poteva.
Ma com’esser può pura in corpo infetto?
Allor ruppi la fede; allor d’onore,
E d’amicizia víolai le leggi:
Allor, di scelleraggine me stesso
Contaminando, traditor mi feci:
Allor di Cavalier, di Rege, e d’uomo
Perdei l’essere, e ’l nome: allor divenni
Fero mostro odioso, esempio infame
Di mancamento, e di vergogna eterna.
Da indi in qua son agitato, ahi lasso!
Da mille interni stimoli: e da mille
Vermi di pentimento, oimè! son roso:

Nè dalle furie mie pace, nè tregua

Giammai ritrovo: o furie, od ire, o mie
Debite pene, e de’ mie ingiusti falli
Giuste vendicatrici! ove ch’io giri
Gli occhi, o volga il pensiero, ivi dinanzi
L’atto, che ricoprì l’oscura notte
Mi s’appresenta; e parmi in chiara luce
A tutti gli occhi de’ mortali esposto.
Ivi mi s’offre in spaventosa faccia
Il mio tradito amico; odo l’accuse,
E i rimproveri giusti: odo da lui
Rinfacciarmi il suo amore, e ad uno ad uno
Tutti i suoi beneficj, e tante prove,
Che fatto egli ha d’inviolabil fede.
Misero me! fra tanti artigli, e tanti
Morsi di coscienza, e di dolore,
Gli amorosi martir trovan pur loco:
E di lasciar la male amata donna
( Che è pur forza lasciar ) m’incresce in guisa,
Che di lasciar la vita anco dispongo.
Questo il modo più facile, e più breve
Mi par d’uscir d’impaccio: e poichè il nodo,
Onde Amor, e Fortuna involto m’hanno,
Scior non si può, si tronchi, e si recida;
Ch’avrò, morendo, almen questo contenuto,
Ch’in me giudice giusto, avrò punito
Io medesmo la colpa, onde son reo.
Consigl. Signor, tanto ogni mal sempre è più grave,
Quanto in parte più nobile, e più cara
Addivien, ch’egli caggia: e dal soggetto
Natura, e qualità prende l’offesa.
Quinci vediam, che quel, che leggier colpo
Forse parrebbe, ed insensibil male
Nella spalla, e nel braccio, e ’n quelle membra,
Che natura formò robuste, e dure;
Quel medesmo è negli occhi grave, e reca
Di cecità pericolo di morte.
Però quest’error tuo, che per sè stesso
Non saria di gran pondo, e lieve fora
Negli uomini volgari, o ’n quelle usate
Cittadine amicizie, che congiunge
L’utile, o in quelle, che diletto unisce;
Grave divien ( nol nego ) oltre misura

Tra grandezza di scettri, e di corone:

E tra il rigor di quelle sante leggi,
Che la vera amistà prescrisse altrui.
Error di Cavalier, di Re, d’amico,
Contra sì nobil Cavaliero, e Rege,
Contra amico sì caro, e sì leale,
Che virtude, ed onor ha per oggetto,
Fu questo tuo; ma pur chiamisi errore,
Abbia nome di colpa, e di peccato,
Di sfrenato desio, di cieca e folle
Cupidigia; si dica indegno fallo:
Nome di scelleraggine non merta.
Lunge, per Dio, Signor, per Dio sia lunge
Da ciascun’opra tua titol sì brutto.
Non sostentar a non dovuto carco;
Che s’uom non dee di falsa laude ornarsi,
Non dee gravarsi ancor di falso biasmo.
Non sei tu no ( la passion t’accieca )
Scellerato, Signor, nè traditore.
Scellerato è colui, che la ragione,
Ch’è dal Ciel caro, e prezioso dono
Data, perch’ella al ben oprar sia duce,
Torce di sua natura, e piega al male:
E contraria al voler di chi la diede
Guida all’opre, e le fa malvagie, ed empie,
E mostra nell’insidie, e nelle fraudi.
Ma quel, che senza alcun fermo consiglio
Di perversa ragion trascorre a forza,
Ove il rapisce impetuoso affetto;
Scellerato non è, quantunque grave
Sia il fallo, ove il trasporta ira, od amore.
D’ira, e d’amor ( potenti, e fieri affetti )
La nostra umanitade ivi più abbonda,
Ov’è più di vigore: e rado avviene,
Che cor feroce, e generoso, e pieno
D’ardimento, e di spirito guerriero,
Concitato non sia da’ suoi duo moti,
Quasi da vento procelloso mare.
Ora a memoria richiamar ti piaccia
Ciò, che fanciullo udir da me solevi.
Mira de’ prischi Greci i duo più cari:
E vedrai l’un, che per concetto sdegno
Siede fra l’armi neghittoso, e niega,

Feroce, inesorabile, e superbo,

Soccorso a’ vinti, e quasi, oppressi amici:
L’altro, ammollito da pensier lascivi,
Vedi spogliarsi il duro cuojo, e involto
In gonna femminil torcerere il fuso.
Mira Alessandro ancor, che da’ conviti
Corre sovente al ferro, e talor mesce
Col vino il sangue, e sulle liete mense
I suoi più cari furioso uccide.
In questi esempj ti consola, o figlio.
Vedesti bella, e giovinetta donna,
E ’n tua balia l’avesti; e non ti mosse
La bellezza ad amare: ed invitato
Non rispondesti agli amorosi inviti:
Desti ad Amor quattro repulse, e sei:
Raffrenasti il desio, gli sguardi, e i detti:
Alfin Amor, Fortuna, il tempo, e ’l loco
Vinser la tua costanza, e la tua fede.
Errasti; e gravemente, in vero, errasti:
Ma però senza esempj, e senza scusa
Non è il tuo fallo, nè di morte degno.
Nè morte, ch’uom di propria man si dia,
Scema commesso error, anzi l’accresce.
Galeal. Se morte esser non può pena, od emenda
Giusta del fallo, almen de’ miei martirj
Sarà rimedio, e fine.
Consigl.  Anzi principio,
E cagion fora di maggior tormento.
Galeal. Come viver debb’io? sposo d’Alvida?
O pur di lei privarmi? io ritenerla
Non posso, che non scopra insieme aperta
La mia perfidia: e s’io da me la parto,
Come l’anima mia restar può meco?
Il duol farà quel, che non fece il ferro.
Non è, questo, non è fuggir la morte,
Ma sceglier di morir modo più acerbo.
Consigl. Non è duol così acerbo, e così grave,
Che mitigato alfin non sia dal tempo,
Consolator degli animi dolenti,
Medicina, ed obblio di tutti i mali.
Benchè aspettar a te non si conviene
Quel conforto, ch’al volgo anco è comune;
Ma prevenirlo devi, e da te stesso

Prenderlo, e dalla tua virtute interna.

Galeal. Tarda incontra al dolor sarà l’aita,
Se dee il tempo portarla: e debol fia,
Se dalla vinta mia virtù l’attendo.
Consigl. Virtù non è mai vinta, e ’l tempo vola.
Gateal. Vola quando egli è apportator de’ mali;
Ma nel recarci i beni è lento e zoppo.
Consigl. Ei con questa misura il volo move;
Ma nel moto inegual de’ nostri affetti
È quella dismisura, che rechiamo
Pur suso al Ciel noi miseri mortali.
Galeal. Or, posto pur che ’l tempo, e la ragione,
( Ragion, misero me! frale, ed inerme )
Mi difenda dal duolo; essere Alvida
Può moglie insieme di Torindo, e mia?
Se la fe, ch’io le die’ fu stabilita
Coll’atto, oimè! del matrimonio ingiusto,
Fatta è mia moglie: or s’io la cedo altrui,
La cederò qual concubina a drudo.
A guisa adunque di lasciva amante
Si giacerà nel letto altrui la moglie
Del Re Norvegio, ed ei soffrir potrallo?
Vergognosa union, divorzio infame!
Se da me la disgiungo in questa guisa,
E l’unisco a Torindo, ei non per questo
Donzella goderà pura ed intatta.
Tal aver non la può; ch’il furor mio
Contaminolla, e ’l primo fior ne colsi.
Abbia l’avanzo almen de’ miei furori;
Ma legittimamente: ed a lui passi
Alle seconde nozze, onesta almanco,
Se non vergine donna. Ah! non sia vero,
Che per mia colpa d’impudichi amori
Illegittima prole al fido amico
Nasca, e che porti la corona in fronte
Bastardo successor del regno Goto.
Questo, questo è quel nodo, oh me dolente!
Che scioglier non si può, se non si tronca,
E non si tronca insieme
Il nodo, ond’è la vita
A queste membra unita.
Consigl. Veramente or, Signor, ragion adduci,
Per le quai non mi par, che in alcun modo,

Rimanendo tu vivo, Alvida possa

Unirsi in compagnia del Re de’ Goti;
Ma non rechi tu già dritta ragione,
Per la qual debba tu contra te stesso
Armar la destra violenta, e l’alma
A forza discacciar dal nobil corpo,
Ove quasi custode Iddio la pose;
Onde partir non dee, pria che fornita
La sua custodia, al Cielo ei la richiami.
Nulla dritta ragion, ch’a ciò ti spinga,
Ritrovar si potria; chè non si trova
D’ingiusto fatto mai giusta cagione.
Ma poichè tu senzala vita, o deve
Senza l’amata rimáner Torindo;
Senza l’amata sua Torindo resti.
Galeal. Egli privo d’amata , ed io d’amico,
Ed insieme d’onor privo, e di vita,
Come vivremo? oimè, duro partito!
Consigl. Duro ( nol nego ); ma soffrir conviene
Ciò, che necessità dura comanda:
Necessità degli uomini tiranna,
Se non quanto è ’l voler libero e sciolto;
A cui non solo i miseri morta li
Soggetti son, ma i cieli anco, e le stelle,
Che le leggi di lei ne’ moti loro
Serbano invíolabili, ed eterne.
Ma pur consiglio io vedo, onde d’onore
Privo non rimarrai, perchè, s’è vero,
Che nel petto d’Alvida abbia sì fisso
L’amor tuo le radici, ella giammai
Consentir non vorrà, che ignoto amante,
Nemico amante, ed odioso, e tinto
Del sangue del fratel, sposo le sia.
Ella negando di voler Torindo,
Non piegandosi a’ preghi, pertinace,
Ti porgerà legittimo pretesto
Di ritenerla; e dir potrai: Non lece
A Cavalier far violenza a donna,
A vergine, e Regina, a chi creduta
Ha nella fede mia la vita sua.
Pregherò teco, amico, e teco insieme
Coi preghi mischierò sospiri, e pianto,
Ed userò ’n persuaderla ogn’arte;

Ma sforzar non la voglio. Il buon Torindo

S’egli è di cor magnanimo, e gentile,
Farà ch’amor alla ragion dia loco.
Così la sposa tua, così l’amico,
Così l’onor non perderai.
Galeal.  L’onore
Seguita il ben oprar com’ombra il corpo;
Ed io, s’in ciò non lealmente adopro,
Privo non rimarrò?
Consigl.  L’onor riposto
È nelle opinioni, e nelle lingue;
Esterno ben, ch’in noi deriva altronde;
Nè mancamento occulto infamia reca,
Nè gloria vien d’alcun bel fatto ignoto.
Ma perchè coll’onore anco l’amico
Conservi, e strettamente a te l’unisca,
Darai d’Alvida in vece a lui Rosmonda,
Sorella tua, che, se l’età canuta
Può giudicar di femminil bellezza,
Viepiù d’Alvida è bella.
Galeal.  Amor non vuole
Cambio: nè trova ricompensa alcuna
Donna cara perduta.
Consigl.  Amor d’un core,
Per novello piacer, così si tragge,
Come d’asse si trae chiodo con chiodo.
Galeal. Ma che? se mia sorella è così schiva
Degli amori non sol, ma delle nozze,
Come mai fusse nell’antiche selve
Rigida Ninfa, o ne’ rinchiusi chiostri
Vergine sacra?
Consigl.  È casta ella, ma saggia
Non men, che casta; e della madre i preghi,
E i soavi conforti, e i dolci detti,
Ei tuoi consigli, e le preghiere oneste,
Soppor faranle al nuovo giogo il collo.
Galeal. O mio fedel, nel disperato caso
Quel consiglio, che sol dar si poteva,
Da te m’è dato; io seguirollo: e quando
Vano ei pur fia, per l’ultimo refugio
Ricovrerò nell’ampio sen di morte,
Ch’ad alcun non è chiuso, e tutti coglie
I faticosi abitator del mondo,
E li sopisce in sempiterno sonno.

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