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SCENA PRIMA
ROSMONDA
Vita nostra mortale in guisa passa,
Che non s’asperga delle sue brutture!
Ma chi non se n’asperge? e chi nel limo
Suo non si volge, e tuffa? ahi! non son altro
Diletti, onor mondani, agi, e ricchezze,
Ch’atro fango tenace, onde si rende
Sordida l’alma, e ’n suo cammin s’arresta.
Però, chi men di cotai cose abbonda,
Men nel mondo s’immerge, e più spedito,
E più candido al Ciel si riconduce.
Io, che dalla Fortuna alzata fui
A quella altezza, che più il mondo ammira,
E son detta di Re figlia, e sorella,
Quanto ho d’intorno, oimè, di quel, che macchia
Ed impedisce un’alma! oh! come lieta
Dagli agi miei, dal lusso, e da’ diporti,
Da questo regal fasto, e dalle pompe
De’ sublimi palagi, io fuggirei
All’umil povertà di casta cella!
Or tra lascive danze, e tra’ conviti
Spendo pur, mal mio grado, assai sovente
I lunghi giorni interi: e aggiungo a’ giorni
Delle notti gran parte: e neghittosa
Abbandono a gran dì le piume, e ’l letto,
Ond’ho talor di me stessa vergogna:
E gran vergogna è pur, che gli augelletti
Sorgano vigilanti ai primi albori
A salutare il Sole; e ch’io sì tarda
Sorga a lodare il Creator del Sole.
La monacella al suon di sacre squille
Desta previen l’Aurora, ed umilmente
Poscia in onesti studj, e ’n bei diporti
Colle vergini sue sacre compagne
Trapassa l’ore, insin che ‘l suon divoto
La richiami di nuovo a’ sacri officj.
Oh quanto invidio lor sì dolce vita!
Ma ecco la Regina a me sen viene.