< Tragedie di Euripide
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Euripide - Tragedie (V secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Felice Bellotti (1844)
Nota del traduttore
Frontespizio Medea (Euripide)


IL TRADUTTORE


P
oichè mi venne compiuta, come seppi il meglio, la italiana versione di tutti i drami a noi rimasti di Euripide, imprendo di publicarla, compresa pur quella di cinque di essi che già mandai per le stampe, e che poi, al lume di più accurati studii novamente fatti da me, ho ricorretta per modo che in questa sola edizione per mia cosa la riconosco. E perchè taluno potrebbe desiderare di aver qui la ragione del presente lavoro, dirò brevemente che non mi sottrassi nè a cure nè a fatica per giungere, consultando il sapere de’più accreditati illustratori di questi componimenti, alla vera o almeno alla più probabile interpretazione de tanti luoghi ove il concetto del poeta o fu da lui stesso non chiaramente alla intelligenza depposteli significato, o le ingiuriose vicende de i tempi e la misera ignoranza degli scrivani l’hanno sì guasto e oscurato, che senza l’opera della critica non è possibile di redimerlo dalle sofferte alterazioni; e nè pur essa la critica non sa le tante volte riuscire onorevolmente al suo fine. Di che renderò conto, quale estimo di dover rendere, in alcune note poste nell’estrema parte di ciascun volume, diverse affatto di nome e di officio da quelle che sotto titolo di Dichiarazioni vengono dopo ciascuna tragedia, e non intendono che ad avvertire o a ricordare, per le cose istoriche o mitologiche, ciò che può essere o dal più de’ lettori tuttavia ignorato, o caduto loro della memoria. L’ordine, in che ho disposti questi dicianove drami, è il più verisimilmente cronologico, desunto dalle ricerche e congetture degli eruditi; posto per ultimo il Reso, siccome quello che da’ critici più perspicaci non è voluto esser opera del nostro poeta, se bene venga quasi sempre fra le proprie di lui riprodotto; ed ho collocato il Ciclopc dopo le altre diciasette tragedie, per esser questo il solo drama satirico pervenutoci intero del greco teatro, e che, di costume e di genio tutto diverso, non piacevami di mandar confuso in mezzo di quelle.

Ben comprendo come il rimettere in luce nella lingua d’Italia opere di antica letteratura, sia cosa al presente fuori di tutta lode presso un molto numero di leggitori, a’ quali fu rivelato che, figlia essendo la civiltà nostra della barbarie de 9 tempi di mezzo, da questi soltanto, o da quelli che susseguirono, sono per noi da dedurre le fonti ad irrigare e fecondare i campi della prosa e della poesia. Tanto io non so; ma parmi sapere che se que’ tempi in gran parte innovarono opinioni ed usi e costumi, non perciò rifecero d’altro limo e d’ai tr anima questa nostra natura; e so che mentre il Bello sta fermo nell’armonia del concetto col sentimento, le scuole si mutano, e un’età di ciò talvolta vergognasi, di che prima si facea pregio, e torna a vergognarsi poi della propria vergogna. Nè io propongo queste tragedie ad esemplari per noi di arte dramatica; poichè, oltre a ciò che in esse per P intervallo di tanti secoli ha preso al senso nostro sembianza e qualità viziosa, non poche mende vi furono pur dagli antichi, non che da’ moderni, con buona ragione notate. Ma se pili volte l’autore peccò di giudizio, non gli fallì però quasi mai la eloquente scienza del cuore, la quale in tutte le forme della poesia, ma in questa primissimamente è signora. Nè i difetti tolgono l’esser grandi alle opere de’ grandi ingegni; nè tanti poi qui ce n’ha, quanti di recente credettero alcuni critici della Germania, da’ loro stessi connazionali e da altri in ciò contradetti e ripresi; nè sì risibili sono, come già fra i Greci Aristofane ingegnavasi di farli apparire su la comica scena. Della quale ingiustizia e allora e poi filosofi e popoli e re consolarono con testimonianze di solenne stima il poeta; e Socrate gli facea publico onore della propria amicizia, e i Siciliani vincitori francavano di servitù que’ vinti A teniesi che sapevano a memoria recitar versi di lui.

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