< Trattato de' governi < Libro ottavo
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Aristotele - Trattato de' governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro ottavo
Capitolo XII:
Che le tirannidi sono di corta vita
Libro ottavo - XI


Infra tutti gli stati sono di meno vita la tirannide, e lo stato dei pochi potenti. Che la tirannide dei figliuoli d’Ortagora, e d’esso Ortagora durò in Sicione lungo tempo, avendo avuto cento anni di vita, di che ne fu cagione che essi principi usarono la signorìa modestamente, e nella più parte ancora essi erano ubbidienti alle leggi, e ancora perchè Clistene fu uomo armigero, però non era ei sottoposto al dispregio, e perchè nella più parte delle sue imprese e’ le tirava con osservare il popolo. Dicesi, che Clistene incoronò un giudice, che aveva contradetto alla sua vittoria; e alcuni dicono la statua di questo giudice essere quella, che si vede in sulla piazza. E dicesi ancora che Pisistrato, essendo stato chiamato in giudizio, sopportò d’essere sentenziato dal senato dello Ariopago.

Nel secondo luogo di vita fu la tirannide de’ figliuoli di Cisselo in Corinto, che essa ancora durò settantatrè anni e sei mesi, conciossiachè Cisselo tenesse lo stato trenta anni, e Periandro quarantaquattro. Sammetico figliuolo di Gordio regnò ancora egli anni tre, e la lunghezza della vita di questa tirannide ancora fu, che Cisselo, essendo capo popolare, stette nello imperio da prima senza guardia del corpo. E Periandro sebbene fu uomo tirannico, ei fu uomo armigero.

Nel terzo luogo fu in Atene quella dei figliuoli di Pisistrato, la quale non fu continua, per essere stato due volte Pisistrato cacciato, onde di trentacinque anni della sua signorìa e’ ne regnò diciassette, e li figliuoli ne regnarono diciotto, di maniera che tutto il tempo della loro signorìa fu trentacinque anni. Delle altre tirannidi quella di Ierone e di Gelone, che fu in Siracusa, non durò molto tempo; ma amendue durarono anni diciotto: chè Gelone tenne lo stato sette anni e l’ottavo morì, e dieci lo tenne Ierone, e Trasibulo rovinò nell’undicesimo mese. Molte altre tirannidi tutte sono state di cortissima vita. Ho io quasi detto infino a qui ciò che rovini, e ciò che conservi gli altri stati, e le monarchie.

Ma nella republica di Platone è parlato da Socrate delle mutazioni degli stati, e non però bene, perchè e’ non mette la cagione propia che fa mutare la sua republica ottima, e prima, affermando esserne cagione il non stare ferma alcuna cosa nello universo, ma in certo circuito di tempo ogni cosa alterarsi. E di ciò esser principio, che il sopra terzo cubo, congiunto al numero quinario, fa due armonie; affermando che quando il numero di questa figura diventa solido, allora la natura produce uomini di migliore, e di più cattiva qualità che non fa l’erudizione1. E questo adunche forse non disse ei male, perchè egli è possibile, che ei naschino certi uomini, che non sieno atti a ricevere instruzione alcuna, nè virtù. Ma tale cagione, perchè verrà ella ad essere più propia della mutazione della republica ottima da lui formata, che dell’altre tutte republiche? E d’ogni altra cosa?

Ancora nel tempo, mediante il quale egli afferma ogni cosa mutarsi, si mutano insieme ancora quelle cose, che insieme non sono cominciate; come è se elle sono un dì innanzi, ch’elle non si mutino, non è per questo, ch’elle non si mutino insieme. Ancora per quale cagione si muta ella nella republica spartana, conciossiachè la più parte degli stati si mutino più spesso nei loro contrarî, che ne’ loro simili. E questo medesimo si dice d’ogn’altra sorte di mutazione, perchè egli afferma dalla spartana lei mutarsi nello stato dei pochi potenti; e da questo nel popolare, e dal popolare nella tirannide. Anzi io, dico, che elle si mutano nel modo a rovescio, verbigrazia dal popolo nello stato dei pochi potenti, e piuttosto in questo, che nella monarchia.

Più oltre della tirannide ei non assegna alcuna ragione, s’ella non ha mutazione; e s’ella l’ha, e’ non la dice; nè in che stato ella si muti. E di ciò è cagione, che e’ non si poteva dire agevolmente, essendo ciò indeterminato; perchè secondo lui e’ bisogna ch’ella si muti nella sua prima republica e ottima; che in tal modo si viene a fare il cerchio continuo. Ma la tirannide si muta ancora in tirannide, siccome fu in Sicione di quella di Mirone, che si mutò in quella di Clistene. E mutasi ancora nello stato dei pochi potenti, siccome fu in Calcide quella di Antileonte. E mutasi nello stato popolare, siccome fu in Siracusa quella di Gelone. E mutasi nello stato degli ottimati, come fu in Sparta e in Cartagine quella di Carilao.

E mutansi ancora gli stati dei pochi potenti in tirannidi, siccome furono in Sicilia quasi la più parte anticamente di quei governi, che appresso i Leontini si mutò egli in quella di Panezio, e in Gela in quella di Cleandro e in Reggio in quella di Anassilao. E in molte altre città similmente. Chè egli è pur cosa disconvenevole a credersi, che gli stati si mutino in quel dei pochi potenti, perchè li cittadini sieno avari, e intenti ai guadagni ne’ magistrati, e non piuttosto perchè e’ vi sieno assai, che nella roba avanzino gli altri, e non stimino cosa giusta che chi ha più roba abbia nello stato a partecipare quanto chi n’ha meno. Che e’ si vede ancora in molti stati di pochi non esser lecito l’arricchirvi, anzi vi sono leggi che lo proibiscono. E all’incontro in Cartagine dove è uno stato popolare, vi si può far roba assai, e non però si muta.

È ancora cosa disconvenevole a porsi, che e’ sieno due città sotto lo stato de’ pochi, cioè una di ricchi, e l’altra di poveri, perchè che verrà ad avere più questo stato di quel di Sparta, o di qualunche altro, dove tutti li cittadini non partecipino nel governo? O dove tutti li cittadini non sieno ugualmente buoni? Perchè, ancorchè nessuno cittadino vi diventi più povero, che e’ si fusse in prima, contuttociò gli stati de’ pochi potenti si mutano in popolari; in caso che li poveri vi sieno più. E dal popolo si mutano in quel dei pochi, in caso che li ricchi vi sieno più potenti del popolo, e che il popolo sia negligente, e che li ricchi tenghino l’occhio a mutarlo. Ma essendo assai le cagioni, onde si mutino gli stati, e’ non n’adduce altra, che una sola, e questa è, che vivendo essi prodigamente e’ diventano poveri per l’usare, che e’ sopportano, come se da principio e’ fussino stati tutti ricchi, o la più parte, ma ciò è falso. Ma e’ si fa innovazione negli stati, quando egli hanno perduto le facultà alcuni di quei che sono capi; ma quando ciò interviene, negli altri perciò non segue cosa alcuna acerba nelle città, né per questo si mutano piuttosto nel popolare stato, che in alcuno altro. Oltra di questo e’ si mutano gli stati, se li cittadini non partecipano degli onori, se e’ sono ingiuriati, se e’ sono dalle contumelie incitati, se e’ contendono insieme; e benchè e’ non abbino consumato le facultà loro, mutano nondimanco gli stati per cagione di poter fare ciò che e’ vogliono, della qual cosa n’appongono essi la cagione alla libertà. E essendo ancora di più sorti gli stati dei pochi potenti, e li popolari, Socrate dice le mutazioni d’essi, come se l’uno, e l’altro fusse d’una sola specie composto.


FINE DEL LIBRO

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OTTAVO
E DEL VOLUME.


Note

  1. «Et il ajoute que ces perturbations dont la racine augmentée d’un tiers plus cinq donne deux harmonies, ne commecient que lorsque le nombre a été géometriquement élevé au cube, attendu que le nature crée alors des êtres vicieux et radicalement incorrigibles.»

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