< Trattato de' governi < Libro quinto
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Aristotele - Trattato de' governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro quinto
Capitolo II:
Che instituzione si debba dare a' giovani
Libro quinto - I Libro quinto - III


Ma ei non debbe essere ignorato, che instituzione debba farsi, nè qualmente ella debba farsi, che oggi tal cosa è dubbia; che esercizî, dico, ei debba mettere in atto; non consentendo tutti gli uomini nelle medesime, che si debbino imparare da’ giovani nè per fine di conseguire la virtù, nè per fine di conseguire vita felice. Nè è chiaro se piuttosto sia da torre quelle che servono alla parte intellettiva, o è meglio tor quelle che servono alla parte dello appetito.

Il rispetto ancora degli impedimenti, che sono nella vita, tale considerazione molto ci confonde, e niente ci è di manifesto se e’ si debba, dico, esercitare li giovani nelle cose utili alla vita, o in quelle che tendono alla virtù, o in quelle che tendono alla superfluità. Chè tutte queste hanno dei fautori. E in quanto a quelle che tendono alla virtù non ci è cosa alcuna concordante, conciossiachè da ognuno non sia onorata la virtù medesima, e perciò ragionevolmente si discorda nello esercizio di essa.

Non è dubbio adunche, risolvendo questa materia, che delle cose utili si debba esercitare le necessarie, ma non già tutte, e usando la divisione fatta delle opere da liberi, e di quelle, che sono da servi, è manifesto che e’ si debbono infra l’utili esercitare tutte quelle, che non faccino vile chi l’esercita. E vile opera, e da artefici si debbe dire che sia quella, e così ogni altra disciplina e arte, che fa il corpo libero di chi l’esercita disutile alle azioni virtuose, ovvero la mente o il discorso. Onde tutte quelle arti si debbono chiamar vili che fanno il corpo peggio disposto, e debbonsi chiamare opere meccaniche, imperocchè elle tengono occupato, e basso il discorso.

Ma il participare di certe scienze da liberi insino a un certo che non si disconviene, ma bene si disconviene il volerle avere in perfezione, imperocchè il fine, onde si esercita, o s’impara una simile facoltà, fa in esse gran differenza; per essere, dico, onesta cosa esercitarla per fine di sè stesso, degli amici, e della stessa virtù. Ma chi l’esercita, perchè altri se ne possa servire, molte volte apparirà s’ei le fa di basso, e di meschino animo. Le discipline adunche notate, siccome io ho detto innanzi, partecipano dell’una e dell’altranatura.

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