< Trattato de' governi < Libro terzo
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Aristotele - Trattato de' governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro terzo
Capitolo VIII:
Del fine della republica
Libro terzo - VII Libro terzo - IX


Ma perchè in tutte le scienze e arti il fine è cosa buona e ottima, però infra tutte l’arti e scienze è ottimo il fine dell’arte principalissima: e questa è la civil facoltà. E il bene civile è tenuto cosa giusta. E giusto non è altro, che l’utile publico; e a ognuno pare, che il giusto sia un certo eguale. E insino a un certo che s’acconsente alle ragioni filosofiche; dove è di tai materie determinatosi nell’Etica, cioè, che cosa e’ sia, e a chi: e confessasi, che e’ si debbe dare il pari alli pari. Ma qui non bisogna ignorare infra quai cose sia il pari e il non pari; perchè tale materia ha dei dubbi, e appartiensene la considerazione alla civile filosofia.

Chè forse qui direbbe uno ch’e’ si dovessino distribuire li magistrati disugualmente secondo la eccellenza di qualsivoglia bene, ancorchè negli altri casi quegli uomini non fussin differenti, ma avessino similitudine; perchè il giusto, e quel che si conviene, è diverso infra quegli che sono diversi. Ma se questo è vero, cotale disuguaglianza nel distribuire li magistrati civili sarà ancora per via del colore e della grandezza o di qual altro si voglia bene a chi v’avanza gli altri per simili conti; anzi tale detto non è ei bugia apparentemente? Che egli è chiaro nell’altre scienze e facoltà, che alli sonatori di flauto, che sieno simili per via dell’arte, non si debbe dare l’eccellenza dei flauti a quei che di loro sieno più nobili, conciossiachè per tale conto e’ non suonino nulla di meglio; anzi si debbon dare i più eccellenti a chi v’avanza l’altro per via di tal arte.

E se il mio detto non è ben chiaro io l’andrò dimostrando meglio, usando più alquanto l’induzione. Se e’ fusse dico uno, che avanzasse l’altro nell’arte del sonare il flauto, ma contuttociò che li fusse inferiore per nobiltà e per bellezza (posto ancora che ciascuno di questi beni fusse più eccellente dell’arte del sonare i flauti, io dico la nobiltà, e la bellezza, e posto che tali beni a proporzione avanzino più l’arte del ben sonare i flauti, che non avanza esso sonatore gli altri nella sua arte) nondimanco a costui sarebbe da dare i flauti; a costui, dico, che fusse più eccellente nel sonargli. Imperocchè l’eccellenza si debbe paragonare con l’opera, e la ricchezza e la nobiltà qui non ci fan nulla.

Oltra di questo s’ei fusse vero il detto di sopra, ne seguirebbe, che ogni bene si potesse con ogni sorte di bene paragonare; perchè se ei fusse da più un certo che di grandezza, egli avverrebbe in somma, che la grandezza potesse gareggiare con la ricchezza, e con la libertà. Onde se uno avanzasse più l’altro in grandezza, che colui non l’avanzasse in virtù, e se insomma la grandezza avanzasse in virtù, e’ verrebbono ad essere tutti i beni paragonabili. Imperocchè se tanto di grandezza avanzasse l’altro bene di tanto, tanto di grandezza è manifesto, che gli sarebbe pari.

Ma perchè ciò è impossibile, però è manifesto che ne’ casi civili non si disputa giustamente del dare i magistrati per via d’ogni disuguaglianza; imperocchè se questi son tardi nell’andare, e quei presti, non perciò debbono quei meno, e questi più ricevere degli onori publici; ma ben si stima tale eccellenza nei giuochi gimnici. Ma le contese per necessità cascano in quelle cose, delle quali la città è composta. Laonde con gran ragione si vogliono attribuire i primi gradi li nobili, li liberi e li ricchi; perchè egli è di necessità, che e’ sieno liberi i cittadini, e che eglino abbino il censo: per non si compor la città solamente di poveri, così come ancora ella non si compone di servi.

Ora se tai cose vi si ricercano, e’ vi si ricerca ancora di giustizia, e di virtù militare, conciossiachè senza queste due cose la città non possa essere abitata; eccetto che senza le prime ella non può essere città, e senza le seconde ella non può essere abitata bene. E in quanto allo esser della città pare, che e’ si possa dubitare rettamente, che tutte le cose dette, o certe di esse voglino gli onori; ma in quanto al suo ben vivere si può dubitare ragionevolmente della erudizione e della virtù; che e’ s’aspettino loro i primi gradi, siccome disopra ho detto.

Ma perchè di tutte le cose pari non debbono avere il pari quei che sono in solo una cosa pari, e così l’inequale non debbono aver quei che sono inequali in un conto solo, però di necessità, dove questo s’usa, interviene ch’ei vi siano stati cattivi. E innanzi ho io detto, che in certa modo tutti gli stati disputano del giusto con qualche ragione; ma non tutti disputano del giusto vero. Li ricchi, per aver essi più terreno, e il terreno di più per essere cosa comune, però nelle convenzioni, e ne’ patti è loro maggiormente creduto il più delle volte. Li liberi e li nobili fanno questo medesimo, per essere tali quasi che simili infra di loro; imperocchè più cittadini si debbono chiamare i nobili, che gli ignobili. E la nobiltà appresso ad ogni uomo è tenuta in pregio. E inoltre perchè egli è verisimile, che de’ migliori ne naschino migliori; e la nobiltà è una virtù di stiatta.

Similmente voglio io affermare, che la virtù ancora ragionevolmente litighi dei primi gradi; perchè la giustizia si dice esser virtù comune, alla quale conseguitano per necessità tutte l’altre. Ma li più ancora di tai gradì contendono contro li meno, conciossiachè li più sieno e più possenti, e più ricchi, e migliori de’ manco; presi dico tutti li più in comparazione dei manco.

Ora adunche se tutti questi s’accozzassino ad essere in una città, io dico verbigrazia li virtuosi, li ricchi e li nobili, e oltre di questo vi s’accozzasse un buon numero di popolo civilmente composto, qui dico sarebbeci controversia di chi dovesse governare, o non ci sarebbe? In ciascuno stato de’ detti certamente non vi sarebbe dubbio alcuno di chi dovesse avere in mano il governo; perchè tali stati sono differenti pei modi de’ reggimenti. Verbigrazia questo è per via della ricchezza, e l’altro è per via delle virtù, e così discorrendo per ciascun altro modo detto. Ma il dubbio è dove tutte queste qualità s’accozzano in un tempo medesimo, qualmente e’ ci si abbia a farne determinazione.

Se adunche li cittadini virtuosi sono troppo pochi di numero, in che modo s’ha ella ad acconciare? Hass’egli dico a considerare questo poco numero in quanto alla operazione; cioè, s’e’ son bastanti a governare la città? o veramente s’ha da considerare se e’ son tanti, che la città possa di loro essere composta? Ma egli è un certo dubbio infra tutti li litiganti degli onori civili, che e’ potrebbe parere, che ’l detto di chi si stimasse degno del governo per essere ricco, non avesse del giusto; e così quello di chi se lo volesse attribuire per essere nobile. Che per tale verso è manifesto, che se uno diventasse più ricco di tutti gli altri, e’ conseguiterebbe per via di simile giustizia, che un tale dovesse essere principe solo di tutto il popolo; e così che chi avanzasse per nobiltà fusse padrone di tutti quegli, che vorrebbono il governo per essere liberi.

Questo medesimo forse accadrebbe ancora dalla parte de’ virtuosi negli stati ottimati, perchè se in tali surgesse un cittadino migliore di tutti gli altri coloro, che sono in quel governo de’ buoni, costui doverrebbe essere fatto signore per via di tale giustizia. Ora s’e’ si debbe fare padrone il popolo, perchè li più sono più possenti de’ pochi; e se uno solo, o più d’un solo (ma bene manco de’ più) fusse più possente degli altri, a questi piuttosto si doverrebbe dare l’imperio, che al popolo o no?

Questi dubbi adunche fan chiaro, che nessuno di questi termini è buono, mediante il quale gli uomini stimino essere ben fatto, che e’ si dia loro il governo, e che gli altri stieno loro sottoposti. Imperocchè il popolo potrebbe rispondere con ragione a quei che vogliono lo stato in mano per essere virtuosi, e a quei similmente, che lo vogliono per essere ricchi. Chè niente proibisce, che un popolo non potesse essere in qualche luogo migliore dei pochi, e dei più ricchi; non consideratovi, dico, ciascuno dispersè, ma tutto il popolo insieme. Onde a quel dubbio, che molti ricercano, e vanno opponendo, si può in questo modo rispondere. Chè certi invero dubitano a chi doverrebbe il legislatore, che volesse fare buone leggi, indirizzare il favore d’esse; o all’utile dico de’ migliori cittadini, o all’utile dei più, quando il caso detto avvenisse. E la determinazione è, che ’l retto debbe essere da lui preso ugualmente. E il retto ugualmente è quello, che risguarda allo utile publico, e allo universale dei cittadini. E cittadino comunemente è colui, che può comandare; e che può ubbidire; ma e’ non è già così fatto in ciascuna specie di stato particolare, ma nello ottimo stato è ei quegli, che può, e che vuole ubbidire, e medesimamente comandare per fine ch’e’ si viva convirtù.

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