< Trattato dei governi < Libro primo
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Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro primo - Capitolo VI: Che l'acquisto che si fa col danaro è fuor di natura
Libro primo - V Libro primo - VII


Ma a questa specie di possedere ne conseguita un’altra, che è solita di chiamarsi (e con ragione) specie ragunatrice di danari; mediante la quale non si scorge mai il fine, nè il termine alla ricchezza, nè al possedere. E questa tale specie molti hanno tenuto, che sia la stessa con la disopra racconta, per la vicinità che ambedue hanno insieme. Ma ella non è la medesima, sebbene ella non è ancora dalla prima molto lontana; ma l’una è per natura, e l’altra no: ma fassi questa più per via di esperienza e per via d’arte. Della quale pigliamo qui il principio di ragionarne.

Di qualunche cosa, che si possiede, l’uso se ne ha in due modi; e l’uno e l’altro modo è per sè, ma non già similmente per sè; ma l’uno è proprio, e l’altro è improprio alla cosa usata. Com’è, verbigrazia, della scarpetta, l’uso di lei uno è il calzarsene, e l’altro è il barattarla: che invero e’ se ne può l’uomo servire all’uno e all’altro uffizio. Imperocchè chi la baratta, e dàlla a chi n’ha bisogno pei danari, o altra cosa da mangiare, usa quella scarpetta come scarpetta; ma non già l’usa al suo proprio ufficio perchè ella non fu fatta per fine d’esser barattata. E questo medesimo si può considerare in ciascuna altra cosa che si possiede; perchè la permutazione in ciascuna cosa fu cominciata ad usarsi bene dapprima naturalmente per aver gli uomini chi più e chi meno delle cose necessarie.

Per il quale verso manifestamente si vede, che l’arte che baratta, ed esercita i danari, chiamata usuraria, è contro a natura; perchè la permutazione, o il baratto si debbe fare infino a tanto, che e’ serva ai bisogni. Onde nella prima compagnia (e tale è la casa) di tal baratto non fu alcun mestieri; ma bene ne fu di bisogno, cresciute che furono le compagnie: perchè certe comunicarono in tutte le cose. E certe altre comunicarono in molte, e diverse tra loro. Per i bisogni delle quali fu necessario il farsi le retribuzioni, così, come ancora oggi si usa, di fare la permuta infra molte nazioni barbare; scambiando l’una con l’altra le cose, che sono loro utili: e non trapassano questo termine, com’è dire: dando il vino in cambio del grano; e pigliandone scambievolmente. E così facendo nelle altre cose necessarie alla vita.

Cotale permuta adunque non è contro a natura, nè ha da fare nulla con l’arte dell’acquistare danari, conciossiachè tal permuta serve solamente per adempiere il bisogno della natura mancante. E da questa arte da barattare l’uno con l’altro ne nacque quest’altra, che baratta i danari ragionevolmente; conciossiachè l’uso del danaro fosse ritrovato per essere gli aiuti, di che si ha bisogno, molte volte lontani per venire d’altronde, e per mandarsi fuori il superfluo. Perchè e’ non è, a dire il vero, agevole a trasportarsi qualunque cosa, che è necessaria alla vita. Perciò fu fermo un patto infra gli uomini di dare, e di ricevere una tal cosa, la quale essendo utile, fosse atta ad essere agevolmente trasportata per i bisogni del vivere. Nel qual genere fu il ferro e l’argento, o altro metallo somigliante; da prima segnato grossamente con peso e misura: e in ultimo con l’impressione del carattere per liberare gli uomini dalla briga del pesarlo. Conciossiachè il carattere non serva ad altro, che a dimostrare il peso.

Poi adunque che ei fu introdotto il nummo per i necessarî baratti, surse di subito un’altra specie di guadagno per via del nummo fatto da prima, forse ancora questo semplicemente: ma dappoi ridotto ha maggiore artifizio per via dell’esperienza, cioè, in qual modo, e donde cambiato ei potesse far danari maggiormente. E di qui pare, che l’arte del guadagnare sia grandemente intorno ai danari; e che l’ufficio suo non sia altro che il poter vedere, donde si acquistino assai denari: per essere ella generatrice di ricchezza e di danari, che invero la ricchezza si piglia per lo più per moltitudine di danari. E la ragione è, che l’arte da far denari, e l’usuraria è tutta intorno ai danari. Ma se tal guadagno si considera per un altro verso, ei pare che sia molto debole; e solamente per legge, e non per natura: perchè, rivoltate le voglie degli uomini, ei diventerebbe di nessun pregio, e disutile a tutti i bisogni. E sovente potrebbe avvenire, che chi fosse ricco di danari, mancasse contuttociò del nutrimento da vivere. Ma egli è pure disconvenevole a chiamare ricchezza una cosa, della quale uno che ne abbondasse potrebbe morirsi di fame; siccome si favoleggia di Mida, al quale, per la sciocchezza del prego, ogni cosa messagli innanzi diventava oro.

Perciò gli uomini saggi cercano d’altra ricchezza e d’altri modi di guadagnare, e ciò fan rettamente, perchè e’ si dà un altro modo di guadagnare, e un’altra sorte di ricchezze, che sono per via di natura. E tali servono al governo di casa. E l’altro modo è usurario, che è generatore di danari, non per ogni verso; ma solamente per via di barattare il danaro. E al danaro pare che sia solamente intento: perchè il danaro, o il nummo è principio, e fine della permuta. E la ricchezza adunque, che da tale modo di guadagno dipende, è infinita; perchè (così come la medicina ha il fine della sanità senza termine, e il medesimo interviene del fine di ciascuna arte, che elle, cioè, lo vogliono quanto si puote il più, ma i mezzi per andare al fine non sono interminati, conciossiachè il fine sia termine a tutti) parimenti interviene in questa arte da far danari, che il suo fine non ha termine.

Anzi una simile ricchezza, e un simil modo da guadagnare è senza fine, e terminato è il modo da guadagnare, che tiene il governo della casa e non questo. E la ragione è, che il fine del governo di casa non è il guadagnare. Onde in lui apparisce per necessità il termine alle ricchezze. Ma e’ si vede il contrario effetto per tutto usato dai padri di famiglia, conciossiachè tali cerchino il danaro in infinito; di che è cagione la parentela, che ha insieme l’una e l’altra sorte di guadagno, che l’uso di loro si scambia: di loro, dico, che sono ambedue arti comprese sotto il guadagno de’ danari. Imperocchè l’uso dell’una e dell’altra è il possedere, ma non già nel medesimo modo; ma nell’una il fine è un’altra cosa, e nell’altra il fine è l’accrescere sè stessa. E di qui è, che molti s’ingannano, tenendo che l’accrescere la facoltà sia il fine del governo di casa; e così vanno perseverando nell’opinione o di mantener la roba, o di aumentarla in infinito.

Di questa simil disposizione è cagione la troppa affezione, che si ha al vivere, e non al ben vivere.

Laonde avendo gli uomini questa affezione in infinito, perciò desiderano eglino ancora infinitamente le cose, che tale affezione vanno generando. Ma chi sta solamente nel desiderio di ben vivere, ricerca tanto di facoltà, che serva ai bisogni del corpo. Ma perchè tali entrano sotto la possessione appartenente alla casa, però si mette ogni diligenza per acquistar danari. E perciò è venuta in campo questa altra sorte di guadagnare, cioè, perchè, volendosi eccessivamente dagli uomini i bisogni e i diletti del corpo, ei vanno ricercando di quelle cose onde e’ possino eccessivamente fruirgli. E quando ei non possono ciò conseguire per mezzo del danaro, e’ si sforzano contuttociò d’avergli per altri mezzi; usando contro l’ordine naturale tutte le potenze dell’anima.

Conciossiachè l’intento della fortezza non sia l’acquisto dei denari, ma bene il mostrare l’ardire; nè sia ancora l’intento medesimo quello dell’arte militare, nè quel della medicina; ma dell’una sia la vittoria, e dell’altra la sanità. Ma questi tali l’hanno tutte ridotte ad arti, che abbiano per oggetto danari; come se questo fosse il fine d’ogni cosa; e che a tale si dovessero indirizzare, tutti i mezzi. Che sia adunque l’arte non necessaria, che è intorno ai guadagni; e per che cagione s’abbia di lei bisogno, e della necessaria siasene detto infino a qui, e dimostrato abbastanza la diversità di esse; e che l’arte appartenente al governo della famiglia è naturale, ed è intorno al nutrimento; e non è, come le dette, infinita, ma che ella ha termine.

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