< Trattato dei governi < Libro primo
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Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro primo - Capitolo VIII: Delle parti che compongono la casa famigliare
Libro primo - VII Libro secondo


Ma perchè tre cose si ritrovano nel governo di casa, il principato signorile, di che si è parlato innanzi, il paterno, e quello che è infra il marito e la moglie. Perchè egli è vero, che si comanda alla moglie e ai figliuoli, che ambedue son liberi: ma non già in un medesimo modo di comandamento. Anzi alla moglie si comanda civilmente, e ai figliuoli con l’imperio regale; conciossiachè il maschio da natura sia fatto sopra la femmina (se già in qualche luogo non interviene altrimenti fuori dell’ordine naturale). E il più antico, e il più perfetto debbe per natura comandare al più giovane, e al più imperfetto.

Dico però, che nei principati civili nella più parte di essi si tramuta scambievolmente chi comanda e chi ubbidisce; perchè tali vogliono essere in tai principati uguali per natura, e in nulla differenti. Contuttociò ancora in questi governi, quando uno è principe e quando uno ubbidisce, vi si ricerca differenza negli abiti, nel parlare, e nelle onoranze: siccome fu l’apologo d’Amasi re circa il bacino da lavarsi i piedi. Ma il maschio in verso la femmina ha sempre un medesimo modo d’imperio; e l’imperio, che si ha verso i figliuoli è il regio: imperocchè il generante è principe, ed è per via di benevolenza e per via d’età. Le quai condizioni fanno la specie dell’imperio regale; onde Omero bene disse di Giove chiamando il re universale,

Degli uomini gran padre, e degli Dei.

Imperocchè il re per natura debbe avanzare quei, che sono sotto il regno: e debbe essere con loro di una medesima stirpe. La quale cosa interviene al più vecchio con il più giovane, e al padre col figliuolo.

E di qui manifestamente si può conoscere, che maggior diligenza è usata dal governo di casa intorno agli uomini, che intorno alle possessioni delle cose, che non hanno anima, e intorno alla bontà degli uomini, che dell’altre cose, che si posseggono: le quali tutte sono comprese sotto il nome della ricchezza. E più intorno alla bontà degli uomini liberi, che intorno a quella dei servi. Dei quali servi primieramente è a dubitare se egli hanno virtù alcuna propria fuori delle servili, e di esse più onorata, com’è dire, se in loro si trova temperanza, fortezza, giustizia, o alcuna altra virtù morale; ovvero non hanno alcuna fuori delle virtù corporali, ed atte a servire. E tale determinazione nell’uno, o nell’altro modo ha dei dubbî. Imperocchè se e’ si dà ai servi virtù morale, in che saranno essi mai differenti dai liberi? E se ella non si dà loro, ne conseguita un disconvenevole, che è l’affermare una tale cosa di chi è uomo, e che partecipa di ragione.

Questo medesimo dubbio occorre ancora nella moglie e nel fanciullo; se l’una, e l’altro, dico, di loro sieno di virtù partecipi, e debbasi dire della moglie, ch’ella abbia ad essere o temperata, o forte, o giusta; o se il fanciullo si debba dir temperato o no. E questo medesimo si debbe considerare universalmente nel suddito, e nel principe per natura; se amendue dico, hanno la virtù medesima, o pur diversa. Che se e’ si porrà, che amendue ne debbino partecipare, onde fia mai di necessità, che l’uno sempre comandi: e l’altro sempre obbidisca? Che qui non si può mettere la differenza col più, e col meno; conciossiachè l’essere suddito, e il comandare sieno differenti di specie: e che il più e il meno faccino differenza specifica.

E se e’ si pone, che l’uno debba avere la virtù, e l’altro no, questa supposizione avrà del maraviglioso: imperocchè come fia mai, che e’ possa comandare rettamente chi non sarà nè temperato, nè giusto? Oh come fia mai, che il suddito possa eseguir bene il suo ufficio, che di virtù sia privato? Conciossiachè essendo egli intemperato, e timido e’ non farà mai cosa che e’ debba. È pertanto manifesto, ch’egli è di necessità all’uno e all’altro il parteciparne; ma che bene tai virtù sieno differenti infra loro, siccome elle sono in quelle cose, che per natura son serve. E questo si scorge subito nell’anima nostra, perchè in essa è una parte, che per natura comanda; e l’altra, che per natura ubbidisce. Le quali parti, diciamo noi, aver la virtù diversamente: io dico della parte ragionevole, e di quella che non ha la ragione.

È manifesto adunque, che questo medesimo modo si osserva nelle altre cose; onde conseguita, che per natura si dan più modi di comandare, e più modi di star sottoposto. Chè, a dire il vero, altro modo d’imperio è quel del libero uomo inverso del servo, che non è quello del maschio inverso la femmina; e che non è quel del padre inverso i figliuoli. E tutti i detti ancora hanno le parti dell’anima, ma e’ l’hanno differentemente. Imperocchè il servo interamente ha estinta la parte discursiva: e la femmina l’ha, ma debole: e il fanciullo l’ha, ma imperfetta.

Similmente è adunque di necessità, che elle abbino delle virtù morali. E si debbe, cioè, stimare, che tutti ben ne partecipino; ma non già nel medesimo modo: ma tanto, quanto serve a ciascuno per il suo esercizio. Onde al principe fa di necessità della virtù morale in perfezione; perchè l’esercizio suo è strettamente da architettonico, e la ragione è principessa. E negli altri fa di necessità, che ne sia tanta, che basti loro.

Onde si conchiude, che in tutti i sopraracconti è della virtù morale. E ancora è manifesto, che la temperanza dell’uomo, e della donna non è la medesima; nè similmente la fortezza, nè la giustizia, siccome si stimò Socrate: ma l’una è fortezza da principi, e l’altra è da servi. E così discorrendo per l’altre virtù. Questo medesimo si manifesta ancor meglio a chi più andrà tal materia considerandola particolarmente; perchè chi parla di tai cose in universale, inganna sè stesso; cioè, dicendo, che la virtù s’ha quando l’anima sta bene, e che virtù non è altro, che operar rettamente, o altra simile cosa. E molto meglio fa in tal caso, chi va le virtù raccontando, siccome fa Gorgia, che chi le determina nel modo detto disopra. Onde sta bene, avendo a parlare delle donne, fare come fece Euripide poeta che disse:

Alle donne il silenzio onore apporta,
Ma non già all’uomo.

E perchè il fanciullo è imperfetto, però ha egli la virtù non come virtù, che sia a lui stesso, ma come quella, che sia al più perfetto di lui, e a chi lo guida. E così sta ben dire della virtù del servo, cioè, ch’ella è virtù al padrone, posto che il servo sia utile ai bisogni del padrone; e però viene egli di poca averne bisogno: e solamente di tanta, che nè la intemperanza, nè la timidità l’abbiano a ritrarre dai suoi ministeri.

Puossi ancora dubitare se egli è vero, quel che si è detto: se gli artefici hanno, dico, bisogno di virtù: perchè e’ lasciano molte volte indietro i loro esercizî per essere intemperanti. Ovvero questo dubbio non ha simiglianza col primo, conciossiachè il servo viva con noi, e che l’artefice ci sia più lontano; e tanto gli faccia mestieri di virtù, quanto e’ partecipa di servitù; che invero l’artefice vile ha una certa servitù determinata. Oltra di questo il servo è così per natura; ma nè il cojajo, nè nessuno altro artefice è così per natura. È manifesto adunque che della virtù che ha il servo, ne debbe essere cagione il padrone, e non chi ha la podestà signorile in insegnare gli esercizî servili. Onde non bene afferman coloro, che vogliono privare i servi di ragione; dicendo, ch’egli hanno ad eseguire solamente il comandamento. Anzi, dico io, che maggiormente si debbono ammonire i servi, che i fanciulli. E di tali cose basti la data determinazione. Ma del marito e della moglie, e del padre, e dei figliuoli, qual debba essere la vita di ciascuno; e quello, che stia o non stia bene nella conversazione da farsi infra loro; e qualmente e’ si debba seguire il bene, e fuggire il male; di tutte queste cose, dico, è di necessità discorrerne dove si tratterà degli Stati. Imperocchè essendo la casa tutta parte della città, e le cose dette essendo parte della casa; e la virtù della casa dovendo riguardare alla virtù del tutto: però è di necessità d’istruire i fanciulli e le mogli, avendo l’occhio alla repubblica se egli è vero, che a fare la città virtuosa, importi che i fanciulli, e le mogli sieno virtuosi. E che egli importi è certissimo, conciossiachè le mogli sieno la metà degli uomini liberi; e che dei fanciulli si tragghino i governatori degli Stati. Laonde essendosi qui determinato di loro, e del resto altrove dovendosi determinare, lasciato qui, come finito questo ragionamento, parliamo ormai con un altro principio: e innanzi tratto facciamo considerazione di quello, che è stato detto dai savî della republica ottima.


FINE DEL LIBRO PRIMO

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