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(Politica) (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
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Ma Ippodamo d’Eurifonte da Meleto, quel che trovò la divisione della città, e che tagliò il Pireo, essendo per tutta la vita sua stato tenuto fastidioso per un’ambizione, che in lui si scorgeva; di tal sorte che e’ pareva a molti, che e’ fusse troppo intento a comarsi, e ad adornarsi superfluamente, e ancora che e’ fosse straordinario dagli altri per usare vestimenti vili, ma da tener caldo non solamente nel verno, ma ancora nella state e per voler egli intorno a tutta la natura apparir da qualcosa; fu il primo di quegli, che senza esperienza di civile azione, tentasse di parlare dell’ottimo stato della republica.
Costui adunque ordinò una republica di diecimila uomini, i quali, divise in tre parti: in artefici l’una; l’altra in contadini; la terza in difensori, e in quei che avessin l’armi. Divise ancora costui la provincia in tre parti: in sacra, cioè, in publica e in privata. Sacra chiamò quella, onde avessin a trarsi le cose, che per leggi sono appartenenti agli Dei: comune quella, onde i difensori dovessin trarre il vitto, e privata chiamò quella dei contadini. Stimò costui medesimamente, che le leggi dovessin essere di tre fatte; e questa ragione lo mosse, cioè perchè tre sono le cagioni, onde si va in giudicio. E tali sono la contumelia, il danno e la morte.
Statuì ancora per legge un giudicio, che fosse il padrone universale, dove tutte le sentenze date non rettamente, dovessin avere l’appello; e tal giudicio fu composto di certi uomini vecchi elettivi. Non stimò, che nei giudici fosse ben fatto il sentenziare per via di calcoli, o, vogliamo dire, con le fave; anzichè ciascuno dovesse portare in su una carta scritto se e’ condannasse semplicemente la sentenza; e se egli assolvesse semplicemente, non vi lasciasse scritto. E in caso che e’ paresse al giudice di parte condannare, e parte assolvere, ch’e’ lo determinasse in su quello scritto; giudicando il modo che si usa oggidì nel sentenziare, non essere buono per esser gli uomini costretti a giurare il falso; dando giudicio o in un modo o nell’altro.
Fece ancora una legge in favore di chi avesse trovato qualche cosa utile per la città; perchè e’ fusse onorato dal publico; e perchè ai figliuoli di quei, che erano stati ammazzati nella guerra, fosse dato le spese dal publico. Come se un tale ordine da altri non fosse stato messo per legge. Ma tal legge dura ancora oggidì in Atene, e in molte altre città. Volse ancora che i magistrati fossero eletti da tutto il popolo; e il popolo intendeva per le tre parti dette di sopra, e che gli eletti nei magistrati dovessin aver cura delle cose del publico; e di quelle dei forestieri: e di quelle dei pupilli. E questi sono la più parte degli ordini d’Ippodamo, e i più degni d’esser considerati.
E qui primieramente si può dubitare nella divisione del popolo della sua città; perchè, secondo i suoi ordini, nel governo convengono gli artefici, i contadini, e quei che hanno le armi. Dei quali tre membri, quel dei contadini, non ha l’arme; e quel degli artefici non ha arme nè terreni, onde l’un membro, e l’altro verrà quasi ad esser soggetto di chi ha l’arme. È adunque impossibile, che tutt’a tre questi ordini partecipino di tutti gli onori; conciossiachè i capitani degli eserciti, i guardiani delle città, e insomma i magistrati importanti siano in mano di chi possiede l’arme. Ora come fia mai possibile che i non partecipanti di tali onori stiano amichevolmente disposti inverso di quel governo?
Ma e’ si potrebbe dire, che chi ha l’arme in mano, abbia ad essere più potente d’amendue l’altre parti. E questo come fia agevole, se e’ non siano più di numero? E quando ciò pur si conseguisse, a che fine fare gli altri partecipi nel governo? E padroni della creazione dei magistrati? Oltre di questo i contadini a che vi fieno utili in quella città? Che degli artefici taccio, per esserne in ogni città di bisogno, e per potere essi vivere del guadagno dell’arti; siccome s’usa in molte città. Che invero i contadini, che dessino il vitto a quei che hanno l’arme, sarebbon ragionevolmente parte della città. Ma qui egli hanno i frutti per loro. E la terra che essi lavorano è di lor propria.
Ancora se quella parte del terreno della publica detta da lui, onde chi ha l’arme dee trarne il vitto, sarà, dico, lavorata da loro stessi, che differenza fia da chi avrà l’arme, e dai contadini? E pur vuole, che ella ci sia il legislatore. E se diversi contadini fien quei, che lavorano il terreno privato, da quei che lavorano il publico, ne conseguiterà, che un quarto membro ci sia aggiunto, che di nulla sarà partecipe; ma fia un membro spiccato dalla republica. E se un vorrà porgli i medesimi, quei, dico, che lavorano i campi publici, e quei che lavorano i privati, ne conseguiterà, che i frutti saranno insufficienti dappoi ch’egli hanno a dar le spese a due case. E per che cagione di subito dai medesimi terreni proprî, non si pigliano eglino il vitto per la porzione loro; e così non la danno a chi ha l’arme? Queste cose tutte generano assai difficoltà.
Non sta ancora bene la legge, che è intorno ai giudizî, che stima ben fatto, che il giudice sia forzato a dividere la sentenza semplicemente con lo scritto; e di giudice a diventare arbitro. Che tal cosa è ben fatta in uno arbitrato, e fra più, perchè e’ ragionano insieme l’un con l’altro delle sentenze. Ma nei giudizî non si può far questo, anzi incontro a tal ordine la più parte dei legislatori ha ordinato, che i giudici non possin parlare insieme.
Ma oltre di questo come non fia un tal giudizio pieno di confusione quando un giudice pensi che un sia debitore, ma non di tanto quanto chiede la parte? Perchè ella chiede, verbigrazia, venti scudi, ed il giudice ne le aggiudica dieci; o questi più, e quei meno: e quel cinque, o quel quattro. E così, verbigrazia, vanno dividendo i pareri. Altri lo fan debitore della intera somma. Altri incontro l’assolvono. Che modo adunque ci fia di raccôr tai pareri? Oltre di questo nessuno costringe a giurare il falso colui che semplicemente condanna, o che semplicemente assolve; in caso che la querela semplicemente sia scritta secondo il giusto; imperocchè chi assolve non dice che e’ non sia debitore; ma dice che e’ non è debitore di venti scudi. Ma ben fa spergiuro chi gli dà la sentenza contro; e non stima che egli abbia ad esser debitore di venti scudi.
E quanto all’onore, che si debbe fare agli inventori di qualche cosa utile alla città, di’ cotal legge non esser sicura: ma solamente essere bella in aspetto, perchè e’ ci è sotto del male, e potrebbe esser cagione ancora di far mutare il governo. E tal cosa casca in un’altra considerazione, ed in un altro dubbio, perché e’ sono che dubitano, s’egli è utile o dannoso il non mutare le leggi antiche della republica, ancora che un’altra migliore di quelle si discoprisse. Per il quale dubbio non è agevole così al primo a risolversi al detto di sopra: se egli è vero che e’ non giovi alle città il rimutare le leggi, conciossiachè potrebbe avvenire che certi sotto questo pretesto inducessin la dissoluzione delle leggi, e del governo, e facessinlo sotto ombra di ben comune.
Ma poi che di tal materia si è fatto menzione, non fia però male alquanto brevemente restringere di questa cosa il ragionamento, che invero tal cosa è dubbia, come ho detto. Ed è chi afferma, ch’egli è bene rimutarle; veggendosi che e’ giova nelle altre scienze, come apparisce nella medicina, che dagli antichi modi è cangiata, e nell’arte ginnastica, e insomma, in tutte le arti, e potenze. Onde dovendosi mettere infra queste ancora la civil facultà, però conseguita di necessità, che in lei intervenga il medesimo.
E di ciò si potrebbe dire che e’ se ne vedesse segno nella stessa cosa, conciossiachè le antiche leggi fussin molto rozze e barbare. Perchè i Greci allora andavano tutti armati di ferro; e comperavansi l’un dall’altro le mogli. E tutte le altre usanze, che in luogo alcuno si trovano dagli antichi ordinate per leggi, hanno molto del semplice, come è quella che si trovava in Cuma circa le uccisioni, che se l’accusatore d’un omicidio lo provava con tanto numero di testimoni del suo parentado, che il reo vi restasse colpevole. Ricercasi insomma da ogni uomo non quello, che è antico, ma quello che è buono. E è ragionevol cosa, che quei primi, o fossero eglino figliuoli della terra, o pure rimasti salvi da qualche mortalità, che e’ fossero nondimanco ignoranti, e simili agli stolti, come si dice ancora dei figliuoli della terra: onde essere disconvenevol cosa a stare ai loro placiti. Oltre di questo le leggi scritte non dover essere nulla di meglio, se elle stessero immobili; e avvenire nella civil facoltà non altrimenti, che nelle altre arti; dove è impossibile che tutti gli ordini vi siano esattamente scritti. Anzi la universale per necessità doversi mettere in iscritto; ma l’azione essere intorno ai particolari, onde per tal verso manifestarsi, ch’egli è bene rimutare certe leggi, e in certi tempi.
Ma considerando tal materia per un altro verso, parrà, che il rimutarle sia cosa da esser molto avvertita; perchè quando ciò sia e’ ne seguirà un picciolo bene, e l’avvezzarsi a rompere le leggi di leggieri sia cosa perniciosa. Ed è manifesto esser meglio sopportare qualche difetto, che sia nelle leggi poste, e nei magistrati; imperocchè chi le vorrà tôr via, non farà tanto giovamento, quanto e’ farà danno ad avvezzarsi a non ubbidire alle leggi.
E falso è qui l’esempio addotto nelle arti, non essendo simiglianza alcuna nel rimutar le arti, e nel rimutare le leggi; e la ragione è, che la legge non ha forza alcuna da farsi ubbidire altra che la consuetudine, la quale non si può acquistare, se non con lunghezza di tempo. Laonde il rimutare agevolmente le antiche leggi e metterne su delle nuove è un far debole la virtù della legge. Ancora è da vedere (in caso che e’ si dovessin pure le leggi mutare) se ad ogni uomo s’appartiene di farlo, e se in ogni republica o no, e se egli è ufficio di qualsivoglia uomo, o di certi. Perchè in tutti questi casi è gran differenza. Onde lascisi al presente tal considerazione, perchè ella non è da questo tempo.