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Parte Prima
Viaggi, specialmente negli ultimi vent’anni della mia vita, ne feci parecchi tanto in Italia che all’estero, ma nessuno fu romantico e pittoresco come il primo, che compii a mia insaputa sotto il tabarro di mio zio Bona, attraverso i muricciuoli di due o tre giardini, intanto che le palle dei fucili austriaci fischiavano intorno alla mia culla.
Erano le famose Cinque Giornate del quarantotto. Mio padre e mia madre abitavano in via Monte di Pietà la casa segnata ora col numero 9 di rimpetto al palazzo della attuale Cassa di Risparmio sulla cui area sorgeva allora il palazzo del Genio militare, al quale i cittadini avevano dato l’assalto, terminato felicemente coll’atto audace di Pasquale Sottocorno che diede fuoco alla porta, come è noto.
Molte volte, attraversando la contrada così signorilmente tranquilla dove sono nata, mi figuravo le lotte sanguinose di cui fu teatro in quei giorni e lo spavento di mia madre per quelle fucilate che le entravano in camera. Già ad una finestra della medesima casa era caduto ferito mortalmente l’Anfossi, patriota nizzardo, che armato di un fucile aveva tenuto testa alle scariche del palazzo del Genio. Fu allora che un fratello di mia madre, lo zio Bona, pensò di salvarmi nascondendomi sotto il suo tabarro e col piccolo fardello vivo sulle braccia scavalcando il muro del giardino, via per altri giardini consecutivi, mi portava in salvo dalla mia nonna, che abitava in quelle vicinanze.
Ed ancora molte volte, leggendo le lapidi che in via Monte di Pietà ricordano i nomi sacri alla patria di Federico Confalonieri, di Pellico, di Porro Lambertenghi, pensavo che avrebbe potuto trovar posto anche un ricordo per l’Anfossi e per il Sottocorno in quella via e in quel quartiere, che è tutto un documento prezioso per la storia del nostro risorgimento nazionale. Perchè senza uscire dal Monte di Pietà troviamo la casa dove andò sposa Clara Maffei e nella vicinissima via Manzoni quella dove morì e tra l’una e l’altra nella stretta, solitaria, antichissima via Andegari l’ultima dimora di Carlo Tenca, tutti uomini che devono far balzare di tenerezza e d'orgoglio il cuore di noi milanesi, e che possiamo riassumere chiudendo la breve elissi di questo quartiere eroico fermandoci reverenti dinanzi alla targa che alla estremità di esso fissa per i posteri col nome di Giuseppe Verdi una delle glorie più pure d'Italia, l'aedo canoro delle aspirazioni di un popolo.
Sono nata a Milano, ma i miei genitori non erano milanesi. Essi appartennero alla grande fiumana che dalla provincia accorre continuamente ad alimentare di sangue nuovo le arterie delle grandi città. Si erano incontrati, amati e, dopo qualche contrasto da parte della famiglia di mia madre che si credeva forse superiore per ampiezza di mezzi e parentele distinte, sposati; ma di quel primo soggiorno in via Monte di Pietà non ho altre memorie oltre la fuga attraverso i giardini narratami dallo zio Bona molti anni più tardi. Lo zio Bona si chiamava Bonaventura, ma essendovi due cugini dello stesso nome per cui avvenivano malintesi ed equivoci, mia madre aveva sciolta la questione affidando a suo fratello la prima parte del nome, Bona; a un cugino la seconda parte, Ventura; all’altro cugino il nome intero, Bonaventura. E furono contenti tutti e tre.
Nella piazzetta di S. Giuseppe c’è una casa, che ha la porta nell’angolo, che conta ora tre piani, ma che ne aveva allora solamente due; del soggiorno a quel secondo piano ho un vago barlume di ricordanza nel quale non si concreta nessun fatto.
La mia vita, la mia infanzia, la mia giovinezza fino ai vent’anni, si svolse tutta in una casa del Corso Vittorio Emanuele, in un appartamento affondato oltre due cortili, lungi dai rumori del Corso, colle finestre principali aperte sopra una sfilata di giardini in fondo ai quali si disegnava aerea sull’orizzonte la guglia maggiore del Duomo. Nei vent’anni colà trascorsi si decise tutto quanto il mio destino. Dall’andito di quella porta, che ora si vede tagliato a mezzo da una vetrata, ma che in quel tempo si prolungava come un canocchiale sullo sfondo verde degli alberi, entrarono i sogni, le illusioni, gli inganni dell’età prima e da quella porta uscirono le bare dei miei genitori.
Esiste ancora un dagherotipo dove sono ritratte tre giovani donne, mia madre e le sue sorelle, sedute in fila una accanto all’altra; sopra uno sgabello ai loro piedi si vede e non si vede una piccola forma, che potrebbe essere tanto un bambino quanto una bambina, insaccata in una lunga e larga pellegrina dalla quale esce in alto una testa rasata (era allora un’opinione per far crescere i capelli) e in basso due scarpette ineleganti colle calze a borzacchino. Mi hanno detto che sono io.
Infatti, ripensandomi a quegli anni, devo convenire che il dagherotipo non può avermi soverchiamente calunniata. A traverso le imperfezioni di quest’arte, che precedette di poco la fotografia, quel piccolo volto triste e pensieroso dovette proprio essere il mio; persino la positura, che mi ingobbisce contro i ginocchi delle persone che mi stanno a tergo, dà l’immagine perfetta della mia infanzia curva e depressa. Non ho che a guardare le bambine del giorno d’oggi accarezzate, vezzeggiate, infronzolite di trine e di nastri, ridenti e spensierate colle loro chiome date agli omeri sotto il breve ritegno di un nastro roseo o celeste, petulanti e felici, capricciose e felici udendo ripetere dai genitori anzitutto, e poi dagli altri, che sono belle, carine, intelligenti, per sentirmi ancora nelle ossa il freddo della mia infanzia e, riportando gli sguardi sul vecchio dagherotipo, provare l’impressione di affondarli in una gora morta piena di ombre.
Chiesi un giorno (non sono moltissimi anni) alla più giovane delle sorelle di mia madre, la dolce e sorridente zia Carolina: — Dimmi la verità, da piccola ero molto cattiva? — Oh! — rispose con un gran gesto d’affetto — eri tanto buona, tanto ubbidiente! — E allora perchè la mamma mi sgridava sempre? — Chinò la testa la mia dolce zia sospirando: — Poveretta, devi compatirla, si sentiva sempre così male! — È con un profondo senso di sollievo che posso scrivere oggi queste parole a spiegazione di un ingenuo sfogo infantile da me riprodotto in un tentativo, assai male riuscito, di autobiografia, e che alcuni critici presero alla lettera senza darsi la pena di interpretarne la psicologia. Fu certamente quell’ingenuo sfogo di un cuore, che si sente solo, il mio primo passo verso la consolazione. Ne ho perfetto ricordo; sento ancora l’impulso irresistibile, mi vedo in punta di piedi, colla matita alzata a scrivere sul legno di una gelosia "Ho nove anni, sono brutta, la mamma mi sgrida sempre". Era questo il grido spontaneo della mia infanzia senza baci, senza giuochi, priva di quelle blandizie che nei primi albori colorano di rosa ogni oggetto intorno. Probabilmente sarò stata povera di spirito e di intelligenza; è certo che non sentii mai vantare da nessuno la mia intelligenza e nessuno citò mai le mie arguzie. All’età in cui le altre bambine sono già conscie dei propri meriti ed hanno già maliziette o grazie di donna, io non ero che un povero bacherozzolo rinchiuso nel proprio guscio. Timida, seria, incapace, nè di fare, nè di comprendere uno scherzo, il giorno stesso, che affidai ad una gelosia quel famoso documento del mio essere, ero rimasta mortificata e inquieta perchè lo zio Cecco, altro fratello di mia madre, prendendomi il ganascino aveva detto; "Ah! biricchina, hai gli occhi tinti di carbone!" e, mentre protestavo la mia innocenza, egli rideva, rideva.
Erano dunque cause interne ed esterne che contribuivano a rendere poco lieta la mia infanzia; io scontrosa, acerba, non avendo vicina neppure una bimba della mia età, portata dal temperamento e dalle circostanze a ripiegarmi su me stessa; la mamma già delicata, resa sempre più debole dalle frequenti gravidanze, ridotta a quello stato di nervosismo e di irascibilità, a cui accennava la mia buona zia Carolina, e che ben conoscono le donne gracili quando hanno assolto il compito di conservatrici della specie in misura superiore alle loro forze. Ebbi la fortuna in questi ultimi giorni della mia vita di venire in possesso di una voluminosa corrispondenza famigliare, che ha rischiarato molti punti oscuri dei miei ricordi mettendomi in presenza di persone morte prima che io nascessi, di altre intese appena a nominare, di altre amatissime e perdute. Attingendo a questa fonte genuina conobbi mia madre meglio che nei pochi anni vissuti insieme.
Ecco, dapprima, le letterine eleganti su foglietti arabescati che dal collegio scriveva alla madre in occasione del di lei onomastico; lettere tenere e rispettose, dove il pronome in terza persona è rigorosamente conservato; poi quelle alle sorelline, riboccanti d’affetto; infine la corrispondenza con mio padre durante il lungo periodo del fidanzamento, inutilmente contrastato da invidiosi e da maligni (queste lettere sono tra le più pure che mai amanti si sieno ricambiate); finchè dalla ritenutezza della fanciulla si giunge alla frase appassionata della sposa felice, che nelle brevi assenze di lui trova vuoto il mondo. È durante una di queste assenze, che mi vedo ricordata per la prima volta con queste parole che non dovevo mai udire dalle sue labbra "l’angioletto nostro, la nostra adorata bambina". Ma allora io ero ancora presso la nutrice e lei nella pienezza della gioventù.
Sul cielo grigio e nuvoloso delle mie più antiche memorie si apre uno sprazzo di luce che compendia tutta la felicità della mia infanzia; è duopo però che io menzioni prima un’altra delle mie grandi infelicità: la scuola. Credo che pochi sieno andati a scuola così mal volontieri come andavo io. Ne conobbi due di scuole: in entrambe la mia esperienza fu eguale. Regolarmente riuscivo antipatica a tutte le maestre; ai professori no, nemmeno a quello d’aritmetica, che si accontentava di guardarmi con benevola compassione quantunque io terminassi i corsi senza sapere la somma, (come non la so al presente). Fra le compagne cercavo affetto, ma difficile riusciva l’accordo assoluto, perchè fin da allora avvertii quell’ostacolo, quella specie di malinteso fra me e i miei simili che doveva fare di me una solitaria; che se talvolta l’acceso desiderio potè indurmi a credere realizzato il sogno, troppo sovente seguì il disinganno, a scuola e poi.
L’insegnamento ai miei tempi era una miseria. Per le famiglie della borghesia la scuola privata non lasciava altro scampo. Vi si accumulavano prima inferiore e prima superiore, seconda inferiore e seconda superiore così fino alla quarta superiore, dalla quale si usciva a educazione finita senza conoscere un solo verso di Dante. In compenso, quando il professore si trovava a corto di argomenti per la sua lezione, ci leggeva una poesia di Arnaldo Fusinato. Il difetto principale di quelle lezioni era la mancanza assoluta di un concetto regolatore. Invece di incominciare dal principio e procedere gradualmente con nozioni chiare, legate da un nesso logico di continuità, a fanciulle ignoranti, quali noi eravamo, ci scaraventavano addosso una specie di estratto Liebig indigesto e confuso sull’origine delle lingue romanze. Un altro giorno erano idee generali sul secolo XV. Oh, perchè proprio il secolo XV diviso dagli altri secoli e campato in aria come un cervo volante attaccato ad un filo? Forse per farci sapere queste notizie da dizionario? "Cristoforo Colombo, nato a Cogoleto sulla riviera di Genova verso la metà del secolo XV, morto a Valladolid nel 1506. Il solo nome basta alla gloria di un uomo tanto grande, quanto infelice".
"Ambrogio Calepino da Bergamo moriva nei primi anni del secolo XVI. A questo dottissimo filologo siamo debitori di un vocabolario tanto celebrato, onde venne ai dizionari latini il nome di Calepino".
Se un ammasso di nomi e di date così arido era il meno atto a fissare l’attenzione nostra e ad interessarla, non vi riusciva nemmeno il seguente fioretto di letteratura accademica che ci dettarono:
"Il Poliziano nasceva nell’anno 1452 a Montepulciano. D’ingegno profondo, versatile, prontissimo, cattivossi giovinetto con alquanti facili versi la stima e l’affetto di Lorenzo il Magnifico e visse lautamente la breve sua vita nei ceppi dorati della corte Medicea. Fu ad una filosofo e filologo, poeta e prosatore di chiarissimo nome, ed ebbe così facili le lingue del Lazio e della Grecia, che in esse scriveva colle grazie e le elette forme di Tibullo e di Anacreonte.
"Colla tragedia lirica dell’Orfeo da lui come fama improvvisata in due giorni pel teatro dei Signori Gonzaga di Mantova, favoriva efficacemente lo sviluppo della letteratura drammatica in Italia e coll’epico frammento sulla Giostra di Giuliano dei Medici illeggiadriva l’ottava ancor stentata del Boccaccio e sgombrava la via all’Ariosto e al Berni. Moriva quarantenne il giorno stesso in cui Carlo VIII di Francia entrava in Firenze e lo dissero di carattere invido scostumato ed attaccabrighe".
Non riusciva, perchè nessuna di noi sapeva nulla di Lorenzo il Magnifico, meno ancora di Tibullo e di Anacreonte e ignorava affatto l’entrata di un Carlo VIII in Firenze; e non ce la spiegarono nemmeno dopo questo dettato.
Non so se oggi i maestri si sono persuasi, che l’insegnamento a base di nomi propri e di cifre è un corpo morto, il quale entra nel cervello dell’adolescente come in una tomba e vi si adagia nel sonno eterno. Il tedio, l’ira, l’odio in me suscitati dallo Skager Rak e dal Kattegat mi durano tutt’ora mentre, sarebbe stato tanto più interessante e istruttivo farci conoscere le terre della nostra bella Italia e condurci come in un viaggio di piacere sulle sponde dei nostri laghi e dei nostri mari, prima di ingombrarci la mente con nomi ostrogoti. Occorre bandire la pedanteria dall’istruzione primaria, alleggerirla, renderla fresca e parlare al cuore, parlare all’immaginazione, svegliare la sensibilità sana delle giovani creature che devono svilupparsi nella vita e non ammuffire sui testi. L’educatore che s’accosta alla fremente anima del fanciullo sbadigliando gli aridi spunti, che la sua indolenza gli fa ripetere d’anno in anno, senza che mai vi palpiti l’ala di un pensiero suscitatore, somiglia a colui che applicando a una cassa di legno un cartone sforacchiato e girando una manovella crede di fare della musica. Quella del maestro non è una professione, è una missione; egli è il sacerdote laico dell'umanità che sorge. Il destino di molti uomini, come ruscello avvelenato alla fonte, si guasta e si corrompe, sui banchi della scuola; molti dotati delle migliori attitudini per lo studio se ne svogliarono in causa della cretineria dell'insegnamento scolastico.
Io a scuola non mi ci potevo vedere; preferivo di gran lunga le sgridate di mia madre e il desiderio di finirla con quella oppressione degli studi era tanto che su tutti i miei quaderni scrissi questo ammonimento a me stessa: "Ricordati, se mai un giorno venissi a rimpiangere la scuola, che ne hai tu desiderata ardentemente la liberazione". Ma quel giorno non venne mai.
Oh! soavissimi autunni lontani, quando chiusi tutti i libri e dato un fervido addio alla scuola andavo a passare le vacanze dai miei nonni materni, a Caravaggio, che nel trasporto della mia gioia chiamavo Caro‐viaggio. Tutto era letizia per me in quella casa benedetta; le carezze della nonna, la soave indulgenza della zia Carolina, lo sguardo benevolo del nonno che mi poneva la mano sulla testa per assicurarsi che i capelli crescevano. E li rivedo tutti e tre in certe loro particolari attitudini. Il nonno, quando al calar del giorno tornava dalla campagna e noi se ne stava ad ascoltare il rumore del calessino per essere pronti a spalancare il portone, vedere la sterzata sapiente del vecchio Nicola e l'entrata trionfale del nonno fiancheggiato da due enormi canestri di frutta. Egli balzava, lindo e lesto, piccolo vecchietto dai capelli bianchi, vestito di una giubba scura a bottoni dorati, con un cravattone al collo che partendo dal mento gli girava sulla nuca e tornava sotto il mento ad allacciarsi in un nodino minuscolo: in qualunque giorno e in qualunque ora non l'ho mai visto con altro abito. La nonna invece, che non usciva mai di casa, aveva un giorno fisso per mettersi in gala; era il giorno del mercato. La si vedeva allora vestita di seta verde, splendente ne' suoi ori e nella matronale persona, avviarsi in piazza seguita da un domestico carico di sporte e, quando ritornava in possesso di ogni ben di Dio, la si sarebbe detta la figura simbolica dell'abbondanza. La zia Carolina (oggi si direbbe Carla e pochi anni addietro Carlotta, ma allora si diceva Carolina: nell'intimo nostro poi io l'avevo battezzata Tuina) la mia zia Carolina, dunque, io la vedo sopratutto nella sua cuffietta da notte semplice semplice, una bianca striscia di percallo, ma che stava tanto bene intorno alla sua faccia rosea; la vedo china sul mio letto ad aspettare il mio risveglio; la vedo, meglio ancora, quando seduta d’innanzi alla pettiniera si toglieva la cuffietta e l’onda magnifica della sua chioma corvina scendeva fino a terra. Era l’ultima dei sei figli della mia nonna e la meno avvenente delle tre sorelle; la palma della bellezza spettava a mia madre, ma una serenità dolce ed eguale era, insieme ai capelli, la bellezza sua e sempre, ripensando a lei, mi appare come l’angelo tutelare della mia infanzia.
Anche la nonna mi voleva molto bene, mi viziava un po’. È vero che un nonnulla bastava a farmi contenta: un pizzico di semi di popone, (i poponi specialità di Caravaggio trionfavano alla mensa dei miei nonni dove se ne tagliavano fin tre o quattro prima di trovarne uno degno di essere gustato) un nastrino dai bei colori, qualche cencetto per vestire la bambola; ma il maggior piacere era quello di ammettermi nelle sue stanze private. Non ricordo di aver visto in altre famiglie tante guardarobe quante ne aveva la mia nonna. Quelle casette di legno tutte chiuse eccitavano la mia curiosità; ce n’era un po’ dappertutto; mi tentavano tuttavia maggiormente quelle che si trovavano sotto la sua diretta sorveglianza, riunite in uno stanzone accanto alla sua camera da letto. Trotterellando dietro le sue sottane m'era dato di vedere talvolta, allo schiudersi di una magica porticina, montagne di lenzuola frammezzate da sacchetti di spigo, che odoravano tanto buono, coltroncini di seta damascata nelle tinte più vaghe, che mi facevano pensare ai divani delle sultane nella reggia di Haaron al Rachid ed alle vesti della bella Shecherazade che lucevano come il sole e come la luna....
Davvero, col mio pizzico di semi di popone in mano, evocavo i tesori delle Mille ed una notti che la zia Carolina mi aveva dato da leggere, e dove capivo, ed anche dove non capivo, mi piacevano immensamente. Altri due stanzini, dei quali la nonna teneva sempre le chiavi, servivano il suo istinto raccoglitore e conservatore e il medesimo istinto in me trasfuso per consanguineità vi trovò il suo primo sviluppo. Ogni forma antica mi attirava irresistibilmente; io amavo i cassettoni panciuti, gli scrigni dagli innumerevoli tiretti, le sedie fuori di moda. Perchè le amassi non appare ben chiaro in una bambina che ne ignorava affatto il pregio, ma io lo so bene il perchè, esso è tutto sentimentale. Sono ancora ignorante; non saprei distinguere un mobile del seicento da uno del settecento, un Brustolon da un Fantoni, un lavoro d’autore da un nulla di nulla; ma io amo tutte queste cose che hanno vissuto, dove palpita tanta parte di umanità, sola sopravvivenza di tanta gente morta. L’uomo colle sue passioni e colle sue illusioni, colle sue ebbrezze e co’ suoi dolori è scomparso, la cosa è qui; essa racchiude parte della sua anima, del suo pensiero, della sua volontà; lo strumento ha cessato di lavorare, ma l’opera è salda nel tempo; l’amore che noi le portiamo è la segreta rispondenza all’amore che l’ha creata. È certo che il piccolo bacherozzolo trotterellante dietro alla nonna non faceva queste riflessioni, ma la mente del fanciullo è pari al vetro di una negativa, dove il viaggiatore raccoglie le fuggevoli impressioni che incontra sulla sua strada e che sviluppa più tardi cogli acidi dell’esperienza.
Negli stanzini della nonna attirava particolarmente la mia attenzione uno di quei cofani ricoperti di velluto con leggiadre applicazioni di ferro battuto, nei quali le spose di una volta tenevano il loro corredo. Dolorose circostanze mi privarono per lunghi anni della sua vista; mi riapparve dopo la morte della nonna nell’ora triste e volgare della divisione delle spoglie, e siccome nessuno lo voleva, così tarlato e spelacchiato neppure come cassa da imballaggio, me lo portai via come una santa reliquia. I segreti delle mie proave vi stanno al sicuro sotto la custodia rispettosa del mio affetto.
Da quanti anni è incominciata la voga degli oggetti antichi, da quando abili speculatori percorrendo le nostre provincie, le vallate profonde dove erasi rifugiata la religione delle memorie se ne vennero alla città col loro prezioso bottino? La data la troveranno i freddi compositori di cataloghi. Io penso che tolte dal luogo dove vissero le cose hanno perduto il loro profumo; conservano ancora le belle forme di ciò che fu la loro vita, ma la voce è spenta; appoggiate ai muri della casa straniera, sono lapidi in un cimitero. Oh! come vorrei trovare una parola energica, che fosse l’opposto di snobismo, per esprimere il mio vero sentimento, ma non la trovo. Di fronte a questa giostra di snobs, rincorrentesi su cavallucci di legno per darsi l’aria di cavalieri in sella guardo, con un misto di sdegno per loro e di un certo orgoglio per me, il cofano della mia nonna che ho amato quando tutti lo disprezzavano.
La casa dei miei nonni, ampia e comoda, colle sue sei finestre verso strada e il solito cortile caratteristico del tempo, fra il pozzo e la pianta di fico, aveva pure sul tetto quei draghi di ferro che prima dell'incanalamento delle pioggie le scaricavano sulla via e un grande piacere mio era di stare a vedere le colonne d'acqua che uscivano da quelle forme fantastiche battendo il lastrico con un rumore di cascata.
Dolci ore passavo nel salottino accanto allo studio del nonno, dove la zia Carolina lavorava insegnandomi certe canzonette francesi da lei imparate nel collegio di Madama Garnier.
Arlequin tient sa boutique
Sur les marches d'un palais
Il enseigne la musique
À tous ses petits valets:
À monsieur Pol, à monsieur Li
À monsieur Chi, à monsieur Nel
À monsieur Polichinel!
Guardavo anche con interesse la vecchia Teresa incantucciata dentro il vano di un uscio, sotto il portico, ad agucchiare indefessa intorno ai bucati trimestrali della famiglia e il piccolo Toni sotto il fico a spazzolare energicamente le scarpe del nonno e la lunga Francesca (quanto era lontano il mio viso dal suo) che sciacquava, piatti in una vasca di nitido marmo fra quattro pareti fitte di rame di cui ogni oggetto splendeva come un sole. Io andavo dall'una all'altra di queste persone portata da un’aura di simpatia che rendeva il mio passo leggero come un volo. Nessuno mi sgridava mai. Mi sentivo felice.
E come erano belle le sere d’autunno in casa de’ miei nonni! Quando il nonno tornava dai campi (aveva terre proprie e molte altre in affitto) si metteva il riso al fuoco e la famiglia vi si riuniva tutta intorno, il nonno, la nonna, la zia Carolina, la vecchia Teresa, la lunga Francesca, il piccolo Toni, ultimo Nicola che era andato a mettere a posto il cavallo. Saliva alta la fiamma sotto la cappa del camino gettando bagliori rossi sulle facce schierate in giro.
Silenzio. Suona l’Ave Maria della sera.
Ai primi rintocchi tutte le fronti si chinano; la nonna fa il segno della croce; tutti la imitano e la breve preghiera recitata insieme da padroni e da domestici si diffonde nell’ampia cucina patriarcale.
La sala da pranzo aveva nel mezzo una grande tavola massiccia apparecchiata e una più piccola da un lato essa pure ricoperta da una candida tovaglia, dove la nonna apparecchiava lei stessa le porzioni per la servitù, in ragione dell’età e dei bisogni di ciascuno, avanzo questo degli antichi rapporti coi domestici i quali sentivano del padrone la soggezione e la protezione insieme. Dopo pranzo il nonno piegava qualche istante il volto pallido e pensoso sull’Eco della Borsa, unico giornale che penetrasse in casa; la nonna allora mi prendeva sui ginocchi, mi baciava, mi coccolava, mi diceva la storia del Mostro turchino e quella delle Due palombe.
Alla domenica si giuocava a tarocchi intorno alla tavola de’ miei nonni. A fare il quarto veniva generalmente lo zio Germanico, che era il dottore del paese e aveva sposato la seconda sorella di mia madre. Se capitava qualcun altro la zia Carolina cedeva il suo posto. Io, dopo essermi trastullata un poco a osservare le figurine del giuoco: La ruota della fortuna, Il pazzo, L’appeso, sgaiattolavo dalla mia sedia giù sul pavimento a intraprendere carponi il giro della sala ignorando di aver avuto un celebre predecessore e con intenzioni molto meno filosofiche delle sue. Mi piacevano le pareti rivestite fino a metà da un alto zoccolo di legno scanalato e verniciato, risalendo le quali, fino al soffitto, l’occhio mio fanciullesco si beava in una pittorica esposizione di frutta più grande del vero e di uccelli fantastici; forse l’uccello Roc il di cui uovo miracoloso pendeva dalla volta del palazzo di Aladino?
Poi mi fermavo dinanzi al paracamino dove era dipinta una montagna con un ciuffetto di fumo sulla cima e scritto sotto: Etna o Mongibello. Dall’Etna o Mongibello passavo alla rivista dei ninnoli rinchiusi dietro i vetri di uno di quei mobili che si chiamano étagéres, con un vocabolo francese che non saprei in qual modo sostituire, e finalmente prendevo fiato accanto ad un grazioso Arlecchino alto come me - ma io ero in ginocchio - ricamato a punto croce con una mascherina nera attraverso i cui fori brillavano gli occhietti di vetro. Vestito di verde di rosso e di giallo, con una stecca nel dorso che lo teneva ritto, brandendo la minacciosa spatola di legno, egli faceva la guardia all’uscio vegliando quando era chiuso e tenendolo aperto quando occorreva, contro la forza del vento.
Sollevandomi dal mio viaggio terra a terra, contemplavo il più bell’ornamento di quella sala, i ritratti a olio del nonno e della nonna, opera del pittore Moriggia che della nostra famiglia era amicissimo. Giovanni Moriggia, gloria di Caravaggio, che fu già culla di altri pittori celebri, ebbe l’onore di affrescare la cupola del grande Santuario coi relativi pennacchi rappresentanti le quattro virtù cardinali Giustizia, Fortezza, Prudenza, Temperanza. Nel pennacchio della temperanza, che ha per soggetto l’incontro del ricco Booz colla dolce Ruth, la figura della spigolatrice è stata presa da mia madre, che ne aveva veramente nel volto la dolce bellezza. Un grande quadro del Moriggia, ideato durante il suo esilio di patriota in Svizzera, è quello del Guglielmo Tell che riconosce Alberto d’Austria sotto le spoglie di un frate francescano. Io lo vidi durante tutti gli anni che andai a Caravaggio appeso nella camera della zia Carolina e mi rimase negli occhi fra le impressioni più vive della mia infanzia. Conobbi anche Moriggia negli ultimi anni della sua vita. Era un vecchio alto e magro cogli occhi scintillanti. Mi colpì una volta che parlava concitatamente con una mia zia, questa frase "Lo dicevo sempre a Luigi Napoleone, ma egli ci ha traditi". Chiesi poi alla zia chi fosse quel Luigi Napoleone che ci aveva traditi e la zia mi fece rimanere di sasso rispondendo con tutta semplicità: "È l’imperatore dei Francesi". Mazziniano, affigliato alla Giovane Italia, Moriggia conosceva tutte le persecuzioni del governo austriaco, compresa la prigione, ed esiliato più di una volta, nell’esilio appunto si era incontrato col giovane principe cospiratore anch’egli e, come è noto e come provò in seguito favorevole al movimento liberale italiano. Oltre ai ritratti del nonno e della nonna, Moriggia ritrasse quasi tutti della famiglia, ma quei due mi sembrano i più efficaci per finezza di lavoro e somiglianza perfetta della quale rimango testimonio io sola essendo tutti gli altri morti. A quei due ritratti di persone, che tanto sorriso sparsero sulla mia infanzia e che il succedersi delle vicende condusse nella casa di parenti che non li conobbero, invio da queste pagine un saluto pieno di commozione.
Sola superstite di un piccolo mondo scomparso! Ripensandoci mi sembra di aver vissuto due vite. La storia dell’universo è scolpita nella memoria di ciascuno; ogni generazione la trasmette ad un’altra per mezzo di piccole evoluzioni quasi invisibili. Sono io la stessa di ieri?
Oh! l’imprudente fanciulla che avendo abusato dei semi di popone ed anche dei poponi e delle belle pesche vermiglie che il nonno portava a casa nel suo calessino, doveva rimanere a letto un giorno o due invariabilmente tutti gli anni a purgare il suo peccato di gola! Ma anche quei giorni nella casa benedetta non mancavano di letizia. Dormivo in una bella camera, detta la camera dei forestieri, attigua a quella della mia cara zia e, manco dirlo, fiancheggiata da due grandi guardarobe. Non mi sono mai annoiata in vita mia se non in compagnia d’altre persone.
Come si può essere così nemici di se stessi da non saper reggere a rimanere da soli?
Quando non avevo accanto la zia o la nonna, mi divertivo a contare i travicelli e i rosoni del soffitto spostandoli a mio talento formando nella mia mente altre combinazioni; oppure l’occhio, innamorato sin da allora della bellezza, si sprofondava con intenso diletto sulle ampie tende che, dall’alto delle finestre, scendevano a toccare il suolo ed avevano il fondo del colore del cielo cosparso di ghirlande di rose. Il momento difficile era quello di prendere la medicina. Mio zio Germanico, il dottore, buon uomo se mai ve ne fu, ma di una semplicità ruvida di cardo, invece di una graziosa pillola inargentata o di una bevanda al sciroppo d’arancio, si ostinava ad infliggermi un bottiglione pieno di un intruglio nerastro al quale dovevo i soli istanti amari del mio soggiorno a Caravaggio. Ma anche su questi vegliava l’affetto inesauribile della zia Carolina con dolci ragionamenti, con promesse, con carezze. Un giorno che doveva recarsi a Milano mi chiese che cosa mi avesse a portare se prendevo docilmente la medicina. Espressi il mio desiderio per un nastrino di velluto à le reine rosa e la vedo ancora partire col suo cabas in mano, la vedo ritornare traendo da esso il vellutino à la reine che mi aveva resa felice tutto il giorno nella aspettativa. Il cabas della zia Carolina, al pari della sua cuffietta da notte, sono nel mio pensiero indivisibili da lei stessa. Non usavano allora le borse di pelle. Quando a Milano, rientrando dalla scuola, vedevo sopra una sedia una specie di sacca ricamata, che presentava da una parte un cagnolino nero accovacciato sopra uno sgabello rosso e dall’altra su un trapunto di perline di vetro due grandi cifre C. M. con un contorno di fiori, spiccavo un salto per la gran gioia. Era il cabas della zia Carolina!
La liberté, ce seul besoin du sage! Non mi era noto allora questo verso, ma la verità che esso contiene fluttuava inconsciamente nel mio istinto di bimba solitaria e nel desiderio occulto di uscire di casa sola. Il mio soggiorno a Caravaggio soddisfaceva anche questo desiderio; lo consentiva l’uso del paese e la vicinanza delle mete che mi era permesso di raggiungere. Una fra queste era la mia nutrice alla quale volevo molto bene. Venivo accolta come una regina; si alzava subito, deponendo fuso e rocca, se stava filando; mi sorrideva, chiamava le sue cognate perchè mi venissero a vedermi, per tal modo erano in tre a farmi festa, tre paia d’occhi benevoli che mi scrutavano da cima a fondo, approvando con un luccicore umido nelle pupille che era tutto una tenerezza. Poi la mia balia apriva la sua rozza credenza, mostrandomi in fondo a una scodella alcuni gamberi in salamoia, che aveva serbato a bella posta per me; da parte mia, quando l’avevo, le davo una mezza muta d’argento, che la faceva contenta ed io più di lei.
Qualche volta, di rado, la nonna mi incaricava di portare un cestello di frutta alle sorelle del nonno, due vecchie zitelle che vivevano sole; una minutina, magra, svelta, la zia Caterina, si incaricava di tutte le loro faccenduole in casa e fuori; l’altra, la zia Lucia, un donnone, corpulenta e grassa, passava le giornate in un salottino semibuio, sdraiata sopra un piccolo divano giallo, che scompariva sotto la grossa persona. Si diceva che da giovane fosse stata molto bella e consapevole di questo suo pregio rifiutasse tutti i pretendenti, commentando che non si sarebbe mai sposata se lo sposo non veniva a prenderla con un tiro a quattro. Forse questa frase era una malignità dei respinti; comunque il tiro a quattro non giunse mai alla sua porta ed ella certo non lo aspettava più. La cuccuma del caffè, l’antica cuccuma di rame, stava tutto il giorno sul focolare delle due vecchie. La zia Caterina magra e svelta la portava a tutte l’ore alla zia Lucia immobile sul sofà e tutte e due sorbendolo pensavano forse che vi è ancora qualche dolcezza nel mondo.
Nel breve tratto di strada, che percorrevo per fare le mie visite, c’era una botteguccia dove una donna vendeva filo, aghi, bottoni d’osso esposti confusamente in una vetrina polverosa ed appannata, con mezza dozzina di fazzoletti intorno sempre gli stessi, e due o tre foglietti di carta da lettera picchiettati dalle mosche. Fra queste povere cose c’era tuttavia un cartoncino che attirava la mia attenzione per tutti gli spilli che vi erano infilati dentro l’uno dietro l’altro come soldatini in parata, colle loro capocchie di vetro assortite nei più bei colori, verde, rosso, aranciato, viola; nè io badavo che fossero di vetro, perchè la mia immaginazione le aveva già poste nella gerarchia delle pietre preziose distinguendole in smeraldi, in rubini, in topazi, in ametiste: elenco di tesori che la lettura delle Mille ed una notte mi aveva reso famigliari.
Questa agilità della fantasia a muoversi nei campi dell’irreale doveva procurarmi i momenti forse più belli della mia vita. L’uomo che nel Morgante maggiore del Pulci, si burla del vicino, che avendo sognato i suoi buoi ne pretendeva il possesso e mostrandoglieli riflessi nel fiume gli dice ironicamente: "Or va laggiù a pigliarli, son tuoi" afferrando la verità immediata del possesso, trascura il valore della conquista spirituale. Bisogna lasciare al sogno il largo posto che esso occupa nella nostra esistenza. Togliendolo all’uomo lo si priva di uno degli attributi che lo distingue dalla bestia. Coltiviamo il sogno: esso è l’isola incantata dove il navigante tra l’una e l’altra tempesta riposa. Il solo ammonimento che ci dà la ragione è quello di contenerlo entro i limiti di piacere superiore. Dagli spilli che io ammiravo non potevo ritrarre nessun utile personale, ma il diletto, che provava la pupilla posandosi sui variopinti colori, metteva in moto le cellule del mio pensiero e tanto me ne compiacevo da reputarmi ricca quando riuscivo a comperarne una cartina. Mi divertivo allora a contarli, a suddividerli col mio criterio fanciullesco secondo l’età e la condizione del destinatario, come faceva la nonna coi piatti del desinare, e poi correvo a portarli alla mia balia, alle sue cognate, alla vecchia Teresa, alla lunga Francesca. Se fossero stati veramente smeraldi e rubini non avrei potuto sentirmi più fiera del mio dono. E quanto felice!
Un’altra casa sulla quale si raccolgono i buoni ricordi delle mie vacanze a Caravaggio, un po’ succursale di quella dei nonni, era la casa della zia Claudia, moglie al dottore. Meno comoda meno ordinata, meno signorile, questa seconda dimora non mi era perciò meno gradita. Alla mia fantasia vagabonda una porta un po’ sgangherata, un sottoportico irto di ciottoli come un sentiero di montagna, una catasta di legna in un canto, non presentavano nulla di sgradevole; nemmeno la fossa delle immondizie aperta a ciel sereno stonava troppo, poichè un albero di alloro vi sorgeva dapresso ombreggiandola colle sue lucide foglie e un bel giorno mi sorpresi a comporre questa osservazione "Anche nella vita troppe volte l’alloro cresce sulle immondizie".
Il cortile della zia Claudia non presentava esso pure la costruzione lineare del cortile del nonno, ma aveva, impareggiabile vantaggio, una spalliera di albicocche dorate, così luminose nel sole che tutta la casa ne riceveva una specie di sorriso e un tralcio di vite, che saliva ad abbracciare i pilastri di un loggiato superiore, al quale dava libero accesso uno scalone di pietra, ben noto ai miei piccoli passi leggeri. Nel mezzo del cortile poi molte pianticelle di fiori, senza esclusione del domestico prezzemolo e della salvia aromatica costituivano uno di quei giardinetti provinciali che, forse in memoria dei beati tempi, ho sempre preferito alle aiuole lisciate e pettinate dei giardinieri di professione. C’erano anche intorno al cortile ripostigli e stambugi adattatissimi per il giuoco di nascondersi che si faceva insieme ai nipoti dello zio Germanico, ospiti quotidiani al pari di me.
Lo zio Germanico era l’uomo di compagine più semplice che io abbia mai conosciuto. Flemmatico oltre ogni dire, quando aveva compiuto il giro de’ suoi ammalati, ospedale e comune, e fatto il debito sonno del pomeriggio, si metteva a cavalcioni di una delle molte sedie che popolavano il sottoportico a fumare la sua pipa. Se capitava allora un cliente, generalmente un contadino o una povera donna, egli nè mutava posizione, nè si toglieva la pipa di bocca; nemmeno voltava la testa. "Cosa avete? — Signor dottore mi duole lo stomaco — Che stomaco? dove? — Signor dottore ....". Balzava fuori allora come un diavolino da una scatola, la zia Claudia e si poneva fra i due "Guardalo dunque, se non lo guardi come puoi capire? E voi, dite su, dove vi duole? Qui? qui?..." Usciva un brontolio dalla bocca chiusa del dottore e la zia Claudia incalzava "Levati la pipa di bocca, come vuoi che capisca?" "Gru, gru" e la zia a spiegare "Ha detto di mostrare la lingua" Così fino alla fine della visita. Era la cosa più buffa che si potesse immaginare: la flemma del marito, il fuoco della moglie.
La zia Claudia aveva veramente l’argento vivo addosso. Seconda delle tre sorelle, non assomigliava nè a mia madre nè alla zia Carolina. Faccendiera per temperamento era in piedi tutto il giorno; una sua particolare fobia di pulitezza gliene dava buon giuoco trovando necessario di sorvegliare la domestica ad ogni passo, sostituendosele anche in certe delicate preparazioni del cibo. Era così schifa su questo capitolo del mangiare che, invitata a pranzo da un’amica, portò con sè il proprio pane non stimando il fornaio dell’amica sufficentemente pulito. Di ciò se ne rideva insieme; ma a me faceva pena quando, non so per quale pio voto, essendosi imposta la mortificazione di baciare la terra, dopo aver recitate le sue preghiere, cercava affannosamente presso ai mobili l’angolo che presumeva più al sicuro delle eventuali sporcizie.
E anche la zia Claudia, quando non fosse occupata a rincorrere la servetta, (occorrevano sempre a lei serve giovani da poter far piroettare) eleggeva a suo domicilio il sottoportico, vi riceveva, vi lavorava, ammesso che lavorasse, perchè io in verità non l’ho mai vista seduta tranne che nel caso di dover discorrere con qualcuno; esso era il centro di riunione come l’hall per le case inglesi; è per questo che tutte le sedie disponibili vi erano raccolte in democratica fratellanza colla catasta di legna e nessuno vi faceva caso. La vecchia dimora, dimora avita dello zio, era sempre stata così. Dovevano, però, i visitatori premunirsi contro le correnti d’aria, perchè l’hall della zia Claudia, posto tra il cortile e la strada colla porta sempre aperta, faceva una terribile concorrenza alla rosa dei venti. Non che mancassero i locali; la casa era ampia, ampia ma scomoda: tutti quegli stambugi, solai, scale e scalette, che formavano la delizia di noi ragazzi, erano un inutile ingombro al disimpegno delle domestiche faccende; moltiplicavano le lontananze, interrompevano le unità, obbligando venti, trenta volte al giorno, ad affrontare l’alpinismo dei sassi sotto il portico per recarsi da una camera all’altra che guai ad avere calli (ma noi ragazzi non ne avevamo). Si spiega come, muovendosi sopra un’area abbastanza vasta, lo zio e la zia non disponessero di un salotto conveniente. C’era bensì un salottino dietro la cucina, ma così stretto e buio (somigliava a quello della zia Lucia) che non invitava a rimanervi.
Ma dove lascio la sala d’onore? Perchè esisteva veramente una sala d’onore e bella. Solo che per accedervi bisognava o attraversare il famoso acciottolato del portico, una loggetta, il cortile, (bagnandosi se pioveva); oppure la cucina, il salottino buio, una ripida scaletta di mattoni, un solaio, lo scalone di pietra e la loggetta come sopra. Comodo nevvero? Naturalmente era sempre chiusa e invece delle visite ospitava accanto ai mobili deserti, qualche sacco vuoto, qualche paniere fuori d’uso, qualche dozzina di pere distese a maturare per l’inverno. Un particolare curiosissimo di quella sala era la tappezzeria, rappresentante a larghe linee un paesaggio inverosimile dove un cacciatore puntava il fucile contro un uccellaccio sospeso a pochi palmi sopra il suo naso; ma il bello veniva dopo, quando allo svoltare della tappezzeria nell’angolo l’uccello veniva a trovarsi dall’altra parte del cacciatore.
Qui dovrei forse fare punto fermo, cestinando un altro particolare che ai miei giovani anni mi scandalizzava assai. Ma penso che quei giovani anni, tanto io quanto i miei lettori, li abbiamo sorpassati e siamo ora d’opinione che qualsiasi documento, anche il più puerile e apparentemente insignificante, trova il suo posto negli usi e costumi di un secolo e in questa nostra vita dove tutto si concatena. Dirò dunque che, mentre il cacciatore se ne stava fisso al suo punto di mira, anche se il punto sfuggiva al tiro, un altro misterioso individuo soddisfaceva indisturbato sotto un albero i suoi più intimi bisogni. Sono scherzi che ai nostri giorni, col nostro gusto raffinato, non si potrebbero tollerare. Gli avi e bisavi invece ne ridevano, con quello spirito semplice e primitivo che i nati dopo la rivoluzione francese relegarono in fondo alla provincia. La burla che tenne tanto posto nelle cronache dei Comuni e delle piccole Corti italiane, la burla boccaccesca e rabelasiana, cadde a poco a poco dinanzi a una coltura più diffusa e ad una maggiore sensibilità di nervi ma un lungo strascico, spoglio della crudezza di quei tempi, rimase negli usi del Settecento fino agli albori del secolo decimono accontentandosi del sottinteso scurrile.
Ho visto io sotto il Coperto dei Figini esposto in una di quelle botteguccie, che i vecchi come me ricorderanno, un fermacarte rappresentante col più crudo verismo una porcheria, che a trovarla per la strada ci fa scansare rapidamente, e qualche anno dopo mi rallegravo del progresso civile che aveva fatto scomparire simili pervertimenti del gusto. Andai poi a Parigi e là, in pieno centro elegante, sull’angolo della via Coumartin, in un negozio all’insegna - Au bon rire gaulois - vidi ancora il medesimo scherzo (chiamiamolo così) che a Milano era scomparso da mezzo secolo.
Per chi ama riflettere sugli atteggiamenti spontanei del popolo è interessante questo sopravvivere di una tendenza, che sembrava sorpassata per sempre e sopravvivere nella città che fu detta il cervello del mondo. Il bon rire gaulois si vede che è rimasto vitalità tenace della razza, proprio a Parigi dove si trovano ancora la bettole Aux armes de Chartre come ai tempi del Re Sole. Di un altro re più moderno, un re di quel secolo decimottavo durante il quale la burla poco pulita dilagò dovunque, si ha questo aneddotto che prova la diffusione di un uso al quale non sfuggirono fino all’ultimo le più alte classi sociali. Beniamino Franklin trionfava nella capitale della Francia e le sue idee utilitarie formavano il soggetto di tutte le conversazioni; la contessa di Polignac, grande amica della disgraziata Maria Antonietta, se ne mostrava entusiasta al punto che Luigi XVI°, le roi débonaire, per prenderla in giro le mandò un magnifico vaso da notte, espressamente ordinato alle officine di Sèvres, con suvvi impresso il ritratto dell’uomo alla moda e il motto: art e utilité.
In quella casa bizzarra, tra la zia Claudia sempre in moto e lo zio Germanico taciturno, io m’aggiravo in piena libertà. Trascorsi i primi anni dell’infanzia mi disinteressai dei giuochi rumorosi dei miei compagni. Preferivo sedermi sopra un rialzo della loggetta, che fiancheggiava il giardino e, pur non sdegnando i bei grappoli d’uva pendenti sul mio capo con certi chicchi lunghi come bozzoli, mi sorprendevo ad errare collo sguardo sulle aiuole scompigliate dal gatto, così senza un pensiero fisso, ma col germogliare di tante sensazioni sposate alla bellezza dei fiori che incominciavo a conoscere per nome; la diversa colorazione dei gerani, il profumo della vaniglia, lo strano volto delle viole del pensiero e una pianticella di fiori chiamati le meraviglie che odoravano solamente al tramontare del sole, e un’altra che si ingemmava di piccole bacche bianche lucenti rotonde come perle; e le erbe, le care erbe dai molteplici odori che coglievo per mettere nel mio fazzoletto. Non conoscevo ancora il delizioso verso della Cantica "Sia il tuo amore simile a un mazzetto d’erbe odorose appeso alla tua cintura" e non conoscevo l’amore. In nulla fui precoce, nemmeno in questo. Ebbi però prestissimo sviluppata l’attitudine all’osservazione e una intuizione, che contrastava singolarmente con una ingenuità assoluta, da sembrare qualche volta deficienza. Ero anche seria più che non comportasse l’età, con una inclinazione a problemi che raramente interessano le bimbe di nove o dieci anni. Mentre i nipoti dello zio si erano divertiti a disegnare omini e cavallucci sulla parete dello scalone, io vi scrissi questa quartina letta chi sa dove:
Giovin, che tanto altero
vai della tua beltade,
nel fior che presto cade
contempla il tuo avvenir.
A chi la dirigevo? A nessuno in particolare: al mondo, alla vita, forse a me stessa.
Staccandomi dai miei coetanei mi accadeva di rimanere più a lungo in compagnia della zia Claudia e delle persone che venivano a visitarla. Era difficile che qualcuno passasse dinanzi alla porta aperta, alle sedie allineate ed alla vigilanza della zia, senza entrare per poco o per molto a scambiar le reciproche idee sugli ultimi avvenimenti del paese. La zia Claudia mi voleva anche lei molto bene, mi chiamava la sua nipote prediletta e mi parlava come ad una persona grande, privilegio lusinghiero per i miei gusti di fanciulla assennata.
Frequentava la casa anche uno dei nipoti maggiori (ve n’erano di tutte le età). Questo di cui voglio parlare, un giovinetto, sui sedici anni, pallido, delicato, di temperamento dolcissimo, mi si era affezionato in un modo che, data la differenza dell’età, appariva singolare. Diceva che quando fossi più grande mi avrebbe sposata; lo diceva alla zia, lo diceva, a me; la zia abbozzava un sorriso, io non rispondevo nulla perchè era come se mi avesse detto: Fra qualche anno parleremo arabo insieme. Durante una delle ultime vacanze che passai a Caravaggio venne fuori una milanese, una ragazza che fece subito impressione per la disinvoltura piuttosto sguaiata colla quale si accaparrava i giovinotti. Si osservavano i suoi abiti, i suoi gesti. Aveva trovato modo di avvicinare i nipoti dello zio Germanico e per questa via la zia ed io eravamo al corrente dei suoi successi. Un giorno il mio promesso sposo mi comparve d’innanzi con un anellino di corniola al dito; siccome non l’avevo mai visto gli chiesi semplicemente da qual parte gli venisse ed egli con pari semplicità mi rispose: "Me lo ha dato l’E...." "Come! esclamai, dici che vuoi sposarmi e porti l’anello di un’altra. Allora è segno che vuoi bene a lei; sposa quella". Il buon ragazzo si affannò a spiegarmi come glielo avesse posto in dito di viva forza, ma che era pronto, se questo mi faceva dispiacere a levarselo. Aveva già compiuto l’atto ma sembrandogli di non avermi persuasa abbastanza soggiunse: "Vuoi che lo spezzi, che lo schiacci sotto ai piedi, per mostrarti qual conto faccio dell’E..?". "Ah? no, dissi sarebbe peccato". Egli ebbe una rapida ispirazione "Lo vuoi tu? Prendilo, è tuo". Tutto giulivo me lo porse e io fiera del mio trionfo, non potendo tenerlo su nessuna delle mie dita perchè troppo largo, lo ravvolsi nella cuffietta della bambola e lo riposi gelosamente in tasca.
Graziosa corniola lucida rosata, trasparente di quell’anellino! Essa mi rappresenta il primo passo che feci fuori dell’infanzia. Il giovinetto morì consunto prima ch’io diventassi una signorina da marito e ancora non posso vedere una corniola senza provare una dolce commozione. Ma da quanto tempo questa pietra non si vede più? I giovanissimi non la conoscono neppure. Essa e le sue compagne, agate, turchesi, granatine, che le famiglie di quel tempo si trasmettevano di generazione in generazione, con quelle legature così originali, così veramente belle, dove trionfava la nobile arte degli orafi antichi nutriti ancora delle eleganze di Benvenuto Cellini, scomparvero colla diffusione del brillante.
Il solitaire di dieci o quindici mila lire, che i nuovi arricchiti mettono in mostra sul petto delle loro donne come vi appunterebbero un pacchetto di banconote se appena appena brillassero un poco, risponde meglio alle esigenze del secolo materialista. Allora, negli strascichi del romanticismo, la corniola impiegata sovente per ciondolo assumeva le tre forme indivisibili di una croce, un’ancora e un cuore: fede, speranza, carità. Ora ai polsi e all’orologio si appende il maialetto d’oro.
La liberazione della scuola, dei compiti da fare, delle lezioni da studiare non era il minore dei vantaggi delle mie vacanze a Caravaggio. Continuavo ad essere nemica acerrima dell’insegnamento, pur crescendomi il gusto della lettura e un particolare piacere di certe parole, di certe frasi armoniose che mi davano una ebrezza musicale, mentre la musica mi lasciava fredda o, se mi commoveva, era solo come accompagnamento e complemento delle parole. L’intuizione, così superiore in me alla coscienza, mi faceva penetrare in alcuni stati d’animo, che non avrei diversamente compresi. La dolce malinconia, il pathos dei seguenti versi dell’Edmengarda mi rapiva in una contemplazione che la zia Claudia, ammonendomi di non cogliere l’uva acerba, non sospettava neppure, quando io, indugiando silenziosa sullo scalone di pietra li affidai, in mancanza dei quaderni distrutti, alla solita parete che riceveva gli sfoghi grafici di noi fanciulli.
O giovinette, gioia vereconda
della casa materna, a cui dovrebbe
vergin campo d’amori esser la terra,
quand’io vi veggo rotear ne’ balli,
di rose e gigli incoronate il crine,
quand’io v’ascolto ne’ giocondi crocchi
le memori narrarvi ore del chiostro
o le speranze del futuro amante,
non vi sorrido, ma pietà mi stringe
dolorosa di voi che imprenderete
la dura via fra poco.
Improvvisamente, un giorno? una sera? Non so: un gran buio circonda quell’ora solenne del mio destino. Ero a Milano; la scuola, secondo l’orario di quegli anni, mi teneva prigioniera senza interruzione dal mattino fino alle quattro; alle quattro e mezza si pranzava; alle otto a letto. La mia vita in casa non era che un passaggio occupato dai compiti e dalle lezioni. Non so altro, non ricordo altro. Mi fanno chiudere i libri a un tratto e il papà mi conduce da una famiglia amica che abitava presso a noi e dove c’erano ragazze e ragazzi della mia età; vi passai tutta la notte in un lettino improvvisato e la novità, la compagnia, i giuochi di quei fanciulli, non mi lasciarono agio di pensare alla singolarità degli avvenimenti.
Il giorno appresso una persona, non rammento chi fosse, venne a prendermi per ricondurmi non dai miei genitori, ma a Caravaggio. Di sorpresa in sorpresa! Anche qui la gioia e la presa di possesso dei miei beni mi impedirono di approfondire ciò che si disse per spiegare la mia venuta fuori del tempo. Importava assai a me la ragione del perchè! Ero felice e credevo ancora che la felicità non dovesse finire mai. Mancava però la nonna e alla mia domanda dove fosse mi si rispose che era andata alla campagna per sorvegliare certe faccende, ma che sarebbe tornata subito. Pranzammo soli, il nonno, la zia Carolina ed io. Il nonno non pronunciò una sola parola, la zia Carolina sospirava spesso indugiando sui cibi come se le tornassero a gola. Avevo visto altre volte a quella tavola i volti rabbuiati per la tempesta che rovinava il raccolto e pensai che si trattasse di una disgrazia del genere e me ne stetti ben zitta e ben tranquilla per non turbare le loro preoccupazioni.
Dopo pranzo venne lo zio Germanico, ma non essendo domenica non veniva per la partita a tarocchi. La zia Carolina gli corse subito incontro nell’andito e poichè tardava a rientrare, il nonno la raggiunse e stettero fuori un po’ di tempo. Poi sentii il nonno che saliva al suo studio e la porta di casa sbattere per il dottore che andava via. Quando la mia cara zietta tornò in sala, aveva gli occhi rossi. Io ero turbata per quell’ombra di mistero che mi circondava, ma non sapevo che cosa dire. Ella mi abbracciò strettamente, raccomandandomi di andare a letto subito, che la mattina seguente sarebbe venuta la balia a prendermi per condurmi un po’ con lei.
Come fu l’ora giunse infatti la buona donna a prendermi. Ci avviammo verso la chiesa maggiore dedicata a S. Fermo intanto che suonava la messa. — Entriamo — disse la mia nutrice. Ed entrammo. Io non la guardavo, abbandonata oramai al mistero che mi trasportava, ma lei doveva essere molto commossa chinandosi su di mè per dirmi — Prega, prega con fervore, la tua mamma è morta.
Scoppiai in pianto.