< Una giovinezza del secolo XIX
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Una giovinezza del secolo XIX Prologo

Prefazione

Il pregio, in cui ho sempre tenuto gli scritti di Neera, non ha trovato, a dir vero, generale consenso nel nostro mondo letterario, dove a questa scrittrice gentile, austera e nobilissima si assegna di solito un posto assai inferiore al merito. Di ciò intendo bene la ragione.

C’è nello scrivere, e in generale nell’esprimere il proprio sentire, un momento in cui lo spirito si pone come sopra del sentire stesso, e lo ferma e chiude in linee sicure e sobrie, quelle che debbono essere e non altre, godendo di questa sua potenza e facendo di essa godere il lettore e contemplatore. È il momento proprio dell’arte e della divina poesia, in cui si unifica l’individuo col tutto, il dramma particolare e transeunte col dramma eterno del mondo.

A questo momento non tutti gli scrittori, e quasi non mai le scrittrici, giungono appieno, o, giunti, vi si tengono con saldezza; e talvolta quasi si direbbe che ciò avvenga per effetto della stessa gagliardia di altre loro forze interiori, onde, tutto intenti ad enunciare il concetto e il sentimento che urge nel loro animo, e guardando al centro e al motivo fondamentale di esso, trascorrono sui particolari, si accontentano del press’a poco, accettano espressioni generiche e disegnano figure convenzionali. “Mi si rimprovera (mi diceva un giorno Neera) che non scrivo bene, che pel pensiero trascuro la forma. Da che dipende? Da mancanza di studi giovanili? Come dovrei fare per correggermi?”. Ed io le rispondeva: “Non si tratta di tecnica dello scrivere, di grammatica e di lessico; si tratta di atteggiamenti dell’animo”. Ed ora ella stessa, in queste memorie autobiografiche (pp. 205-6), con la consueta intelligenza e schiettezza, definisce quale fosse veramente la manchevolezza che era in lei, e richiama un detto di suo padre, il quale, un giorno che ella cantava da sola, la ammonì: “Tu non ti ascolti quando canti: prova ad ascoltarti”. “Mi veniva infatti (ella soggiunge) di cantare nello stesso modo che scrivevo, badando al pensiero e non alla forma. Le romanze più sentimentali i duetti più amorosi erano tutto ciò che comprendevo in materia di musica, e quando avevo messo tutta la mia passione nella frase: Ah! forse è lui che l’anima Solinga nei tumulti, mi pareva che neanche la Patti avrebbe potuto far meglio. C’era poi quel Lui anonimo che andava subito a posarsi sull’uno o sull’altro dei miei zufoli di stagno, ed allora addio musica! Mi colavano sul volto vere lacrime”. Non si potrebbe più esattamente qualificare l’arte che direi femminile, nella sua mollezza e nel suo incanto.

Ma, in compenso, quanta abbondanza di pensieri e di affetti nei libri di Neera! A lei bastava aprire le chiuse dell’anima perchè ne prorompesse un’onda copiosa e calda, che non s’inaridiva mai, non mai aveva bisogno di essere artificialmente eccitata, e, meno che mai, simulata con espedienti e industrie letterarie. Sentiva e meditava come respirava, e scriveva allo stesso modo, senza sforzo. Quando considero le lambiccature che nel mondo letterario passano per cose squisite; le lussurie di sensazioni e d’immagini che si credono prove di ricchezza e sono invece d’interiore povertà, di povertà sostanziale; le lodate raffinatezze e smancerie di ultrasensibilità, che sono rozzezze da gente molto pettinata e profumata, ma priva di gentile costume e ignara di meno superficiali eleganze; l’ironia di cattiva lega e la falsa superiorità con le quali si tenta di fingere l’umanità che manca, l’umanità che è l’unica superiorità dell’uomo; non so frenare un moto di sdegno nel veder tenuto in poco conto, e spregiate come "borghesi", la solidità della mente, la dirittura del giudizio, l’accorata e grave osservazione sociale, il rispetto alle eterne leggi del reale, la semplicità del vivere e del godere e del soffrire, la casta nudità della parola. E mi piace di chiedere e di ottenere la parte mia in quel dispregio che onora, e di sentirmi "borghese" nella buona compagnia di molti e grandi scrittori borghesi, e in quella della mia vecchia e venerata amica Neera.

Nella quale due tratti erano, che voglio notare fra gli altri, perchè sono di quelli che più mi hanno legato a lei. Primo l’amore per la vita, e non già pei diletti e le voluttà che essa talora largisce, ma per la vita nella sua interezza, come vivere e morire, gioire e soffrire, amare ed aborrire, sognare e risvegliarsi, per la vita sublime ed umile, ampia e ristretta, per la piccola ed immensa vita di ciascuno di noi che, così com’è, è fonte inesausta di palpiti, di meditazioni, di ricordi, di tenerezze, di amarezze pur dolci, e che l’uomo forte ed armonico accoglie e fa oggetto di culto come la divinità, la vera e sola divinità, sempre presente. È questo il buono e sano, sebbene inconscio e non teorizzato, "misticismo" di Neera, che ella celebrava col bramoso profondarsi in se stessa, col trovarsi sempre benissimo da sola, non essendosi (come dice) mai annoiata in vita sua "se non in compagnia d’altre persone". L’altro tratto era la costante tendenza ad abolire ogni dualismo di materia e spirito, corpo ed anima, senso e ragione; e anche qui non già con l’abbassare lo spirito, l’anima e la ragione a materia, corpo e senso, ma piuttosto con l’elevare questi a quelli, e idealizzarli in quelli, e, in realtà, con la coscienza, che era in lei vigorosa, dell’unità reale. Così piena di sentimenti e di sogni, Neera non fu "sentimentale"; così alta nel discernimento morale, non fu moralista rigida e disumana; così pura nei suoi affetti, non fu asceta. Le sue difese di quel che altri vorrebbe allontanare come sensualità, di ciò che si vorrebbe reprimere come irruenza di passione e di volontà, di ciò che si considera come egoismo dello scienziato e dell’artista, e simili, sono quanto coraggiose altrettanto vere; e in esse, e in quella sua accettazione della vita intera, la scrittrice femminile si dimostra pensatore virile.

Del resto, anche quel che abbiamo di sopra concesso ai censori letterati circa la forma del suo scrivere, s’intende concesso solo come osservazione generica e non come giudizio che valga per tutte le parti dell’opera sua. Ella ci racconta in questa autobiografia, che tardi, messa sull’avviso da critici ai quali protesta la sua gratitudine, comprese "quanta forza l’aggiustatezza del periodo e la scelta della parola aggiungano all’idea", e venne al punto di prendere un vero diletto nel vagliare i vocaboli e di sentirsi "quasi felice nello scoprirne uno nuovo", e nel cercare "la frase giusta, la frase unica". Ma in tutti i suoi volumi, anche nei suoi più vecchi, e in quest’ultimo scritto sul letto dei suoi tormenti, con la mano sinistra, avvinto il braccio destro da atroce male, vi sono pagine sgorganti di vena, fresche, limpide, musicali, nelle quali assai poco è dato desiderare. Io non ne dirò altro e non ne recherò esempi, perchè i lettori ne incontreranno subito, nel volgere le carte di questa prefazione e imprendere la lettura del volume.


Napoli, 2 luglio 1919.

BENEDETTO CROCE.

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