< Una vita
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VIII X


IX


Annetta era ritornata in città un mese circa prima del padre, il quale dalla villeggiatura era partito per affari per la capitale. Passarono in quel mese per le mani di Alfonso diversi dispacci di Maller, pagine intere, redatte con negligenza, senza risparmio. Si trattava di affari e Alfonso non volle volontario sottoporsi al lavoro ch’era quella lettura. Un ultimo dispaccio gli venne fatto vedere da Starringer, lo speditore, per le mani del quale passavano tutti i documenti e che li leggeva tutti. Il dispaccio di Maller si chiudeva con le parole: «Avvertite la mia famiglia che arrivo domattina. La carrozza venga a prendermi alla stazione». 

Il signor Maller doveva essere giunto da ventiquattr’ore e Alfonso ancora non lo aveva veduto. Si aspettava di trovarsi da un momento all’altro faccia a faccia con lui e camminava piú timido che di solito per il corridoio. 

Miceni venne ad avvisarlo che usciva appunto dalla stanza di Maller ove era stato per salutarlo. Il signor Maller lo aveva accolto con immensa cortesia e gli aveva stretto due volte la mano. Solitamente, parlando dei superiori, Miceni era velenosamente democratico, ma quel giorno, sotto l’impressione di quelle due strette di mano, era piú dolce e pareva gli avessero fatto dimenticare lo scacco subito da Sanneo. Non soltanto lodava il signor Maller per la sua cortesia, ma anche da impiegato affettuoso si rallegrava di trovargli l’aspetto fiorente. 

— Mi consigli di andarlo a salutare anch’io? 

— Vanno quasi tutti; puoi fare come meglio ti sembra. 

Alchieri ci era andato, ma non valeva quale norma, perché Sanneo lo aveva mandato in direzione per affari e cosí aveva salutato Maller occasionalmente. White tanto meno poteva servire d’esempio ad Alfonso perché le stanze dei direttori erano quasi stanze sue e ci passava metà della giornata. 

Ballina non volle andarci. Non aveva dei dubbi lui: 

— Gesú non si deride, i suoi vicari sí. Quando arrivò Sanneo andai a salutarlo perché sapevo che ci teneva e che non era tanto furbo da poter capire che io altro non facevo che un passo diplomatico. Il signor Maller deve pur avere qualche cosa in testa per poter essere il padrone di noi tutti ed io non mi permetto di scherzare con lui. 

Alfonso rimase indeciso per tutto un giorno. Aveva dimenticato di chiedere consiglio a Macario che con una sola parola gli avrebbe tolto ogni dubbio. Tutto quello ch’era dubbio finiva col divenire importante per Alfonso. Andando temeva di seccare Maller e che glielo dimostrasse, e non andandoci, che la sua assenza venisse notata come una mancanza di riguardo. 

Stava per uscire dalla banca rimandando la difficile risoluzione al giorno appresso, allorché questa gli venne resa piú facile da parecchi impiegati che attendevano in corridoio di poter entrare da Maller per salutarlo. Rapidamente deciso si uní a loro. 

Il vecchio Marlucci, un toscano che parlava sempre del governo granducale rimpiangendolo, uscí dalla stanza del principale. Sessantenne e seduto da una ventina d’anni dietro a un libro maestro, era l’amico intrinseco di Jassy. Venivano e andavano insieme riuniti dalla medesima sventura, la debolezza alle gambe; ma mentre Jassy aveva anche il cervello vacillante, le mani deboli, nervose, il toscano aveva l’occhio nero tranquillo, la parola sempre limpida, precisa. Schierava giornalmente nel suo libro la data quantità di cifre nitide, ordinate e nel suo libro non c’erano altre correzioni all’infuori di quelle rese necessarie dagli errori delle altre sezioni.

Alfonso, seguendo l’impulso datogli dalla sua preoccupazione, gli chiese: 

— E che cosa si ha da dire al signor Maller? 

— Se non lo sa stia zitto! — gli rispose Marlucci ridendo e passò oltre. 

Non c’era altro impiegato che White accanto a Maller che gli dava delle istruzioni. Nel vano della finestra sedeva una donna; senza guardarla, Alfonso indovinò ch’era Annetta e sentí affluirsi il sangue al cuore. 

Il signor Maller interruppe per un istante il suo colloquio con White. Tese la mano ad Alfonso e con un sorriso freddo gli chiese se stesse bene. Ritirata la mano si rimise a parlare con White. 

Alfonso si avviò, ma una voce dolce, femminile, che in quella stanza stonava, lo fermò: 

— Signor Nitti! 

S’arrestò e si volse. Era Annetta. Portava un vestito grigio, la veletta grigia di un cappellino rotondo alzata sulla fronte bianca. Una figura casta ma matronale. 

Gli porse la mano. 

— L’ha con me che non volle vedermi? 

Alfonso protestò che realmente non l’aveva veduta. Balbettava, ma disse piú parole di quanto sarebbe stato necessario. 

— Non glie ne faccio mica un rimprovero, — gli disse piú a bassa voce e tanto confidenzialmente ch’egli trasalí per una sorpresa gioconda ma anche già preoccupato su quanto ne avrebbero pensato i presenti. — Ella ha ragione anzi. Mi dia la mano e un po’ piú amichevolmente dell’ultima volta. 

Sorrideva guardandolo fisso, attendendo di vedersi corrisposta prontamente da eguale gentilezza. Con sforzo Alfonso le sorrise con gratitudine. Era lusingato ch’ella mostrasse di rammentarsi dei particolari di quella serata. 

Ella guardò la sua mano chiusa in quella di Alfonso. Alfonso aprí la sua e guardò anche lui. La manina bianca e paffuta di Annetta coperta a mezzo da un guanto giaceva nella sua ruvida, l’anulare, dalla parte dell’indice, nero d’inchiostro.

— Ella vede spesso mio cugino? 

— Quasi ogni sera! 

— Mi parlò tanto di lei! 

— Grazie! — mormorò Alfonso. 

Voleva quel grazie diretto a Macario. 

— Sarà possibile di vederla qualche volta da me? Vedrà che si annoierà meno dell’ultima volta. 

Alfonso mormorò delle parole poco chiare. Dal loro suono ella comprese ch’egli si metteva a sua disposizione. 

— Venga domani a sera. Probabilmente vi sarà qualche amico. Senza complimenti ché a lei, a quanto me ne dicono, molto dispiacciono. La casa le è sempre aperta. 

Ridendo Maller si levò in piedi: 

— Cari amici, questa è la stanza destinata agli affari. Se volete chiacchierare andate in stanza dal signor Nitti. 

Annetta non fu turbata di questa interruzione. Rispose al padre invitandolo di sbrigare presto gli affari o che se ne sarebbe andata senz’attenderlo piú oltre. Congedò Alfonso con suono di voce piú dolce, sorridendogli cortesemente, forse anche impietosita al vederlo arrossire fino alla radice dei capelli. 

White poco dopo venne da lui e, essendoci Alchieri, per delicatezza gli parlò a bassa voce: 

— Le mie congratulazioni per l’amicizia che ella seppe ispirare alla signorina Annetta. È una bella cosa ma pericolosa. Badi di non innamorarsene. 

Macario lo condusse seco la sera appresso da Annetta. Entrando nell’atrio di quella casa, Alfonso si rammentò dello stato in cui ne era uscito mesi prima e quella visita gli sembrò che avesse una grande importanza nella sua vita. Infatti, agli esordi della sua vita in città, era stato avvilito da Annetta e il suo avvilimento aveva dato l’impronta a tutto quanto egli poscia aveva fatto. Aveva aumentato la sua naturale timidezza e aveva reso piú difficili i suoi rapporti con Maller, con Sanneo, con tutti i suoi superiori. Finalmente in altro luogo che in casa Lanucci gli si concedeva di comportarsi altrimenti che da umile inferiore.

Macario, per via, gli presentava le persone che presumibilmente avrebbero trovato da Annetta. 

Anzitutto Spalati, il professore di lingua e letteratura italiana dal quale Annetta prendeva delle lezioni. A giudicarne dalla descrizione che ne fece, Macario doveva amarlo poco. Era verista a credergli ma viceversa poi, quando si trovava alle prese con uno scrittore italiano, indagava pedantescamente se usava parole non legittimate dal Petrarca. Del resto un bellissimo giovane, confessò Macario, e si capiva ch’era quella la qualità che lo privava della simpatia di colui che ne faceva la biografia. 

Nel desiderio di contornarsi al piú presto di persone conformi ai suoi novelli gusti, Annetta aveva attirato a sé le persone piú intelligenti fra le sue conoscenze. Fra gli altri Fumigi, parente di Maller, quarantenne. Macario raccontava che si sapeva che dapprima la sua ambizione era stata di costituirsi libero col suo lavoro per dedicarsi interamente a certi suoi studî prediletti di matematica. Era negoziante, capo di una ditta importante, e le male lingue asserivano che la possibilità di questa libertà già sussistesse e anche Macario era di tale parere. Era naturale che il lavoro accanito di ogni giorno avesse terminato col togliere a Fumigi ogni altro desiderio. 

— Credo non abbia piú inclinazione che a quelle matematiche il cui risultato si possa toccare con mano. Conserva il suo aspetto da matematico perché non dev’essere disaggradevole di venir considerato quale il futuro scopritore della quadratura del circolo. 

Frequentava le serate di Annetta un giovinotto medico, certo Prarchi, uscito recentemente dall’università, uno dei pochi a questo mondo appassionati del proprio mestiere e non dell’altrui, diceva Macario. Era una conoscenza fatta in un luogo di bagni e Annetta, per quel poco buon senso artistico di cui va a me debitrice, ama di sentir parlare di cose realistiche e quindi di medicina. Il giovinetto ha un grande difetto, l’esagerazione delle sue qualità. Parla tanto volontieri di medicina che talvolta parla anche di dosi. Annetta mi confidò, e questo resti fra di noi, che tutta questa compagnia di brave persone l’annoia. L’anno scorso quando aveva amicizia intrinseca con altre persone che valevano meno ma che vivevano meglio, la casa, bisogna confessarlo, era piú allegra. 

Giunti sul pianerottolo, udirono il suono del pianoforte. Macario chiese a Santo chi sonasse. 

— La signorina Annetta! — e rispondendo come al solito piú di quanto gli si chiedesse: — Da un’ora circa! 

— Oh! ammirabile la pazienza di quei signori! — esclamò Macario rivolto ad Alfonso. Chiese a Santo chi ci fosse. 

— Non c’è nessuno! 

— È mercoledí quest’oggi? — chiese Macario perplesso. 

— Sí, signore. La signorina fece però avvisare il professore Spalati, io lo so perché andai io stesso ad avvisarlo, che non venisse perché aveva una forte emicrania. 

— Allora chieda alla signorina se è disposta a riceverci, perché forse l’emicrania c’è anche per noi. 

Il suono del piano cessò e Annetta venne a riceverli alla porta del tinello. 

— Senza riguardi, avanti! — gridò loro — l’emicrania è cessata. 

Macario aveva preceduto Alfonso. Si fermò con risolutezza: 

— A patto che tu non la procuri a noi. Devi prometterci di non suonare piú! 

— Sai bene che per farmi udire da te bisogna proprio che tu me ne preghi! 

Entrarono. Annetta non si occupò che di Alfonso e lasciò che Macario si accomodasse da solo. 

Ad Alfonso pareva di essere perfettamente libero da imbarazzi perché la cordialità di Annetta doveva averglieli tolti. Infatti pensava a sangue freddo delle belle frasi come se fosse stato solo nella sua stanza, ma quando volle dirle perdette la calma e le smozzicò balbettando. 

Mormorò che volontieri avrebbe udito Annetta a sonare e si era proposto di dire, fermandosi al frizzo fatto da Macario, che se egli avesse avuto l’emicrania, il suono del piano gliel’avrebbe fatta passate. Annetta ringraziò dopo di averlo aiutato a completare la frase ed egli dovette riconoscere che era ben facile fare buona figura con persone che non hanno l’intenzione di farcela fare cattiva. 

Precisamente l’emicrania, raccontò Annetta, l’aveva spinta al pianoforte. Macario non parlava e quei due che discorrevano insieme per la prima volta si tenevano allo stesso tema quasi avessero temuto, lasciandolo, di non trovarne altro. Annetta disse ancora che comprendeva che la musica potesse procurare ad altri l’emicrania, ma che l’attenzione che doveva metterci chi l’eseguiva lo distraeva da qualunque preoccupazione e da qualunque male. 

Alfonso ammirò la verità di quell’osservazione e avrebbe voluto confermarla citando un suo filosofo che equiparava i dolori alle preoccupazioni e che suggeriva come rimedio ad ambedue la distrazione. Tacque invece inchinandosi con un sorriso di assenso. All’ultimo momento aveva preso paura di quelle frasi semplici ma concatenate e, eroicamente, aveva rinunziato a dirle, piuttosto che esporsi al pericolo di confondersi. 

Contribuiva a togliergli la disinvoltura un esame accurato dei propri sentimenti. Aveva principiato a farlo dal momento che aveva varcato la soglia di quella stanza. Indifferente quella donna non gli era. Era pur stato addolorato per mesi per esserne stato maltrattato. Ora invece si scopriva straordinariamente freddo, scioccamente freddo. Indovinava che per conservare l’amicizia di Annetta egli avrebbe dovuto dimostrarsene un poco innamorato e non gli riusciva. 

Annetta si alzò per porgere a Macario il pezzo di musica ch’ella aveva sonato e fu con gioia che Alfonso si sentí trasalire dal desiderio improvviso. Ella gli era tanto vicina che alzatasi egli non poteva vederla tutta. Vedeva un petto colmo e una vita elegante quantunque non sottile, chiusa solidamente nella stoffa grigia che Annetta prediligeva. 

Aveva sonato una sinfonia di Beethoven ridotta per pianoforte. 

— Chissà come l’avrai sonata! 

— Non bene! — disse Annetta sorridendo.

— Dev’essere difficile! — osservò Alfonso guardando una facciata nera di note.

— Impossibile! — corresse Annetta. Raccontò che poco tempo prima ella l’aveva udita eseguita da un’orchestra. Non si poteva essere soddisfatti di un’esecuzione al pianoforte. — Del resto io mi accontento di molto meno che della perfezione. Di queste note per esempio ometto la metà. 

— Però — fece Alfonso — deve bastare per il divertimento... specialmente per chi l’ha udita... le note che si omettono si sentono lo stesso. 

— Ah! sí! per fantasia! 

— Quando si ha la fantasia che ha dei doveri verso l’esecutore, — osservò Macario calmamente. 

— Ella fa degli studî a quanto si racconta? — chiese Annetta con serietà. 

— Qualche poco; quello che posso! 

— Mi dicono molto anzi. Vorrei saperne fare come lei! Scrive qualche cosa? Pubblicherà presto qualche cosa? 

— Per il momento, no! 

In quei frangenti aveva pensato al suo studio sulla morale e se magari solo il primo capitolo fosse stato terminato ne avrebbe parlato. 

— Le donne immediatamente vogliono i risultati! — disse Macario ridendo. 

Lo difendeva e lo trattava con piú rispetto che quando erano soli. Sembrava volesse che Annetta molto lo stimasse, e soltanto molto tempo dopo Alfonso comprese che Macario lo aveva portato in quella casa non per apportare vantaggio a lui ma divertimento ad Annetta di cui voleva la riconoscenza. 

Dalla parte che, come Alfonso sapeva dalle spiegazioni di Santo, doveva essere quella della stanza di ricevimento di Maller, entrò Francesca. Alfonso si alzò con vivacità. Voleva dimostrare la sua riconoscenza alla sua vecchia amica, l’unica che l’avesse accolto subito bene in casa Maller. 

Si capiva dal contegno della signorina che non intendeva di fermarsi in quella stanza. Corrispose con un cenno del capo al saluto di Alfonso. 

— Rimanga comodo! — Non salutò Macario e rivolta ad Annetta le disse: — Se avesse bisogno di me, sono in stanza mia. 

Aveva tutt’altro contegno del solito, meno libero, piú riservato, ed era molto pallida e vestita piú trascuratamente. La sua figurina accanto ad Annetta mancava di forme. Soltanto il colore caldo dei suoi capelli biondi dava luce alla sua faccia sofferente. Uscí senz’altro e Alfonso vide che Macario guardava con curiosità Annetta la quale, uscita Francesca, gli diede un’occhiata incollerita come per fargli ammirare l’enormità di quel contegno. 

— Perché non pubblicare al piú presto qualche lavoro per farsi un nome? Certi giovani per amore all’accuratezza diventano pedanti prima del tempo, preferiscono la lima alla penna e finiscono col non far niente. Io lo so per descrizioni che me ne vennero fatte. Per adoperare la lima occorre, oltre che molto ingegno, molto senno critico. Quando si fa si è artisti, ma quando si lima bisogna essere artisti e scienziati. 

Nell’ultima idea il suo volto, ancora molto serio dopo l’uscita di Francesca, si schiarí. Doveva essersi sentita soddisfatta di dirla. Era un’idea del resto della quale Alfonso sarebbe stato superbo. Ella maneggiava con grande libertà quei concettini critici. 

— Ella che consiglia a me di pubblicare dà consigli ma non dà esempi. — Breve, breve, ma la frase era stata detta tutta senza esitazioni. 

— Per noi donne vi sono altri riguardi. Però — aggiunse ridendo — spero che di qua a qualche mese non potrà piú movermi un tale rimprovero. 

Alfonso se ne congratulò. Macario diede un grido di sorpresa e volle sapere qualche cosa del lavoro che Annetta preparava e di cui nulla fino ad allora gli aveva detto. Conoscendo il carattere letterario di Annetta unicamente per la descrizione faceta che gliene aveva fatta Macario, Alfonso pensò che, poiché ella fino ad allora ne aveva taciuto, il lavoro doveva trovarsi in uno stato anche piú embrionale del suo e che ne aveva parlato per soddisfare alla vanità stuzzicata. 

Finalmente la conversazione deviò e per opera di Annetta stessa. Si parlò dell’imminente stagione dei teatri ma piú del contegno nei palchetti e in platea che sulla scena, e Alfonso stette zitto. Macario e Annetta si divertirono a nominare e a descrivere alcuni giovanotti frequentatori della platea, e dal momento in cui Annetta fece dello spirito accompagnando i suoi frizzi di certe sue risate lunghe, fragorose che la facevano contorcersi, mettere in mostra un collo bianco, grassoccio, sul quale la tensione faceva visibili poche leggere pieghettature, Alfonso si sentí impacciato. Gli pareva di vederla di nuovo cantare quella canzone bizzarra e saltare dinanzi a lui con una spudoratezza simile a quella delle matrone romane dinanzi ai loro schiavi. 

Ancora una volta si parlò di arte o quasi, come Annetta sorridendo disse al momento del congedo. Alfonso, che per poco che avesse frequentato il teatro s’era già accorto quale danno apportasse allo spettacolo il chiacchierio degli spettatori, proponeva di introdurre nei teatri il sistema dei teatri tedeschi, d’imporvi il silenzio e di abbassare nella sala i lumi. Gli spiacque di non poter piú dare ragione ad Annetta per la semplice ragione ch’ella adottò il parere contrario al suo dopo ch’egli già lo aveva emesso. A teatro ad Annetta importava meno lo spettacolo sulla scena che quello in platea. Diceva che le piaceva osservare i suoi simili piú che gli omicciattoli fatture di altri omicciattoli. 

— L’arte ci perde, lo riconosco, ma l’arte a teatro è poi arte? 

Fece una smorfia di disprezzo che lasciò Alfonso di nuovo ammirato Egli non sapeva abbracciare cosí ciecamente delle idee altrui.  

Uscendo, Alfonso scorse una donna sul pianerottolo superiore, la quale, al vedere Macario, si ritirò con precipitazione. Aveva la statura di Francesca, ma Alfonso non poté vederne il volto.

Si sentiva avvicinato a Macario piú da quella visita che da mesi di relazione. Fu subito indiscreto: 

— Strano che la signorina Francesca non sia rimasta a farci compagnia. L’altra volta mi era sembrata di carattere espansivo e allegro. Che cosa può avere da renderla cosí selvaggia? 

— Mal di capo probabilmente, — rispose Macario brevemente e cambiò discorso. — Ha veduto che mia cugina è migliore della sua fama e dell’idea ch’ella se ne era fatta. Ha inteso il suo invito. Da oggi ella appartiene a quello che Spalati chiama il club del mercoledí. Procuri di diventare il buon amico di mia cugina perché è una amicizia che a lei potrebbe essere utile.

Parlava seriamente. L’utile a cui alludeva era la protezione di Annetta per l’impiego. Alfonso trovò l’allusione poco delicata e arrossí ma non protestò e si congedò anzi con una stretta di mano molto amichevole. Egli poteva dolersi di venir considerato quale una persona che tentasse di giungere per vie insolite al proprio utile; gli parve però di dover essere tanto piú riconoscente a chi dimostrava di volerlo aiutare anche dopo di averlo riconosciuto per meno scrupoloso. 

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