Questo testo è completo. |
◄ | IV | VI | ► |
V
In maggio, quell’anno, si ebbero già delle forti caldure; per alcune settimane, dal cielo senza nubi, il sole inviò dei raggi cocenti certo non primaverili.
— È un’ingiustizia — diceva Ballina — che con queste paghe miserabili si debba sudare tanto già in maggio.
Il lavoro non era ancora diminuito. Uscivano dalla stanza del signor Cellani, passavano per quella di Sanneo e terminavano in corrispondenza, pacchi enormi di lettere arrivate. Sbuffava persino Giacomo che da essi non aveva che il disturbo di trasportarli da un luogo all’altro.
In giugno principiava a pena la diminuzione del lavoro, e Miceni, col suo metodismo abituale, aveva spiegato ad Alfonso la legge che regolava questa diminuzione:
— In giugno si ritirano alla campagna i piú ricchi banchieri, gli scienziati del mondo bancario, gl’iniziatori della speculazione. Il nostro lavoro giornaliero rimane il medesimo perché quello non è creato da costoro, ma mancano le foghe inaspettate di lavoro, tanto dolorose ai subalterni, le emissioni e le conversioni. Già in luglio diminuisce il lavoro bancario, non perché sia avvenuto nulla di nuovo alle banche, ma perché a loro volta si mettono in libertà i piú ricchi commercianti. In agosto, il piú bel mese dell’anno, si trovano al verde, presidenti di banca, direttori e peggio, unitamente ai commercianti. Non rimane a casa che il numero necessario d’impiegati.
Da Maller il processo non corrispondeva a questa regola. In maggio e giugno prendevano il permesso alcuni impiegati e i capi, in luglio il signor Cellani, il procuratore, ed in agosto a pena il signor Maller.
Il primo a partire fu Sanneo il quale si prese quindici giorni di permesso mentre ne avrebbe avuto diritto a trenta. Fra gl’impiegati si asseriva che il signor Sanneo non sapesse restare per troppo lungo tempo privo del suo pane quotidiano, la posta e la polemica.
Alfonso, per caso, presente, Sanneo diede le istruzioni a Miceni, il quale nella sua assenza doveva fungere da capo. La stanza di Sanneo era posta accanto a quella del signor Cellani, piú buia di questa perché un palazzo di faccia le toglieva la luce. Anche questa stanza, d’inverno aveva i tappeti, ma, salvo il tavolo di legno nero, largo e comodo, cedutogli dal procuratore che ne aveva preso un altro, i mobili erano identici a quelli degli altri impiegati: due armadi di legno dipinti rozzamente in giallo, una sedia di paglia e, di fianco all’unica finestra, un altro tavolo da cui era stato levato il palchetto.
Sanneo, seduto, andava consegnando a Miceni che stava alla sua destra in piedi, lettera per lettera, un grosso pacco, indicandogli esattamente quanto avesse da fare a un dato giorno o dopo ricevuto altro scritto. Riponeva qualche lettera anche dopo data tutta la spiegazione osservando con una smorfia che c’era tempo per rispondere e che voleva farlo lui a suo tempo. Si capiva che gli seccava di abbandonare a Miceni tutta la sua gestione.
Miceni ritornò nella sua stanza col capo ritto, la figurina tesa, il passo rigido. Si sedette e con un sorriso sprezzante mormorò:
— Tante spiegazioni come se fossi da ieri alla banca.
Ripensandoci rammentò dei particolari del suo colloquio con Sanneo e ne rise:
— Vuoi scommettere che all’ultimo momento Sanneo si pente e rimane?
Il piú vivo desiderio di Alfonso era di andarsene; non sapeva perciò ammettere che altri volesse rimanere.
Poco dopo venne Sanneo ad avvisare che differiva la partenza al giorno appresso. Miceni guardò Alfonso, e quando uscí Sanneo esclamò con ira:
— Valeva la pena di tenermi di là per un’ora a darmi delle istruzioni di cui non avevo bisogno!
— Saranno buone per domani! — rispose Alfonso che per affari d’ufficio non comprendeva l’ira.
— Domani partirà come è partito oggi.
Invece Sanneo partí. Alla sera andò in giro nei diversi uffici a salutare gl’impiegati. Porse la mano ad Alfonso che, balbettando, gli augurava il buon divertimento, e lo ringraziò con un sorriso veramente benevolo. Ad onta di quanto gli era stato detto, Alfonso credette di veder brillare in quegli occhi irrequieti la gioia per i quindici giorni di libertà.
Miceni occupò la stanza di Sanneo per essere alla mano dei direttori. Riceveva gli ordini direttamente dal signor Maller o dal signor Cellani e Alfonso gl’invidiava la disinvoltura con la quale trattava con tali alti personaggi.
Per Alfonso fu questo un intervallo di riposo a quel lavorio di copiatura a cui veniva costretto da Sanneo ed ebbe poscia spesso a rimpiangere questi quindici giorni. Non importava gran fatto a Miceni che venissero spedite molte offerte; per corrispondere all’impegno preso gli bastava che il lavoro d’obbligo venisse fatto intero e senza errori. Ebbe l’intelligenza di abbandonare subito il sistema seguito da Sanneo. Costui non dava da fare la posta corrente che a Miceni e a due altri impiegati; gli altri tutti facevano un lavoro basso di copiatura e di revisione di conteggi: «È preferibile un impiegato che comprenda a dieci imbecilli» soleva dire Sanneo. Miceni chiamò tutti ad aiutarlo e ad Alfonso toccò scrivere piccole lettere italiane di scritturazione, lavoro piú variato e piú piccolo di quello avuto sino ad allora.
Solo nella sua stanza, trovò il tempo di leggere dei libri che si portava di casa. Romanzi non leggeva avendo ancora sempre il disprezzo da ragazzo per la letteratura detta leggera. Amava i suoi libri scolastici che gli ricordavano l’epoca piú felice della sua vita. Uno di questi leggeva e rileggeva instancabile, un trattatello di retorica contenente una piccola antologia ragionata di autori classici. Vi si parlava per lungo e per largo di stile fiorito o meno, lingua pura o impura, e Alfonso, avuta l’idea teorica che faceva sua, sognava di divenire il divino autore che avrebbe riunito in sé tutti quei pregi essendo immune da quei difetti.
Alla sera nella stanza di Alfonso, la quale era la piú appartata, si riunivano parecchi corrispondenti a chiacchierare. Quando c’era il signor Sanneo vi si stava sempre all’erta perché capitava inatteso come una bomba, col suo passo sempre affrettato e a pena entrato, qualunque ora fosse, gridava: «Non perdano tempo, non perdano tempo!» Nessuno si arrischiava di rispondere e il gruppo si scioglieva come una mandra dispersa da un cane imbizzito.
Miceni invece, anche adesso, veniva qualche sera a passare la mezz’ora quieto in quella stanza. Stava zitto, sdraiato sul vecchio sofà, stanco ma lieto della giornata, agitato dall’importanza del suo lavoro.
Ballina lo trattava per derisione con rispetto affettato. Un giorno, nella foga del lavoro, Miceni gli aveva rimproverato lentezza ed egli non gliela perdonava. Miceni cercò di giustificare quella sgridata, ma Ballina gli rise in faccia:
— Come se gli affari della banca fossero i tuoi. Capisco, quantunque molto difficilmente, che il signor Maller, che il signor Sanneo ci tratti con alterigia, ma non un capo corrispondente per quindici giorni.
Certamente Ballina doveva essere una persona felice; aveva la beatitudine del suo molto lavoro meccanico tanto evidente, che persino Alfonso che volentieri non l’avrebbe ammesso, la comprese. Si diceva per vanteria capo dell’ufficio informazioni ma ne era l’unico componente. Lui domandava le informazioni e lui le copiava e le disponeva per ordine alfabetico in un grande armadio. Non teneva sospesi perché il suo lavoro non lo richiedeva e aveva l’abitudine di rimanere all’ufficio molte piú ore di quanto fosse obbligato. Puliva bocchini d’osso di cui era provvisto in quantità, raddrizzava serrature, aguzzava rasoi, si faceva la barba in ufficio, quando se la faceva. Grande fumatore, aveva sempre nel cassetto un enorme quantità di tabacco in mucchio su un foglio di carta oleata; era una mescolanza di diverse specie e profumata da una radice che dava alla sua stanza un odore intenso di resina. Era la sua vera abitazione quella stanza; ci aveva introdotto delle comodità, tra altre inchiodato sulla sedia di paglia un pezzo di corame per sedere piú comodo. Un cassetto del suo tavolo era destinato esclusivamente alle munizioni; del pane, talvolta del burro, spesso una bottiglia di birra, sempre una bottiglietta di zozza di cui usava offrire agli amici che venivano a fargli visita. Nell’altra sua abitazione non doveva stare troppo comodo. Raccontava che la stanza ove dormiva era tanto piccola che essendoci il letto e l’armadio, la sedia era di troppo e impediva l’ingresso. Non potendo farne a meno trovò un meccanismo ingegnoso:
— Legai la sedia ad una corda che attaccai alla parte superiore della porta dopo di averla fatta passare per un gancio sporgente dal muro. Aprendosi la porta, la sedia sale e lascia l’ingresso libero; chiusa la porta ci si trova la sedia accanto e si può sedervisi senza muover passo.
C’era forse dell’esagerazione in tale descrizione, ma di certo qualche cosa di vero. Un giorno dinanzi ad Alfonso consegnò ad un servo di piazza le chiavi della sua stanza incaricandolo di trovargli un nuovo alloggio e di trasportarvi i suoi pochi mobili. La sua abitazione, quella che aveva il suo affetto da femmina, era l’ufficio.
Ballina con quel suo aspetto posato aveva dissipato una piccola sostanza che gli era stata affidata, come egli diceva, quando ancora non comprendeva il valore del denaro. Per un annetto di piaceri, ne aveva passati molti nella miseria e doveva passarne molti altri, «fino alla morte probabilmente» diceva, mentre se avesse avuto a disposizione qualche poco di denaro, ingegnoso come era avrebbe saputo aiutarsi. Cosí invece lavorò sempre per altri, in una fabbrica di bocchini, in altra di aceto, rivenditore ad un’esposizione, da un negoziante di bastoni e cosí via, sempre malissimo retribuito. Finalmente capitò da Maller ove si affezionò a quel lavoro tanto da rassegnarsi ad un emolumento misero assai.
Il corrispondente francese, White, faceva di solito le spese della conversazione. Di famiglia inglese trapiantata in Francia, era stato allontanato da Parigi dai suoi parenti che temevano mangiasse tutta la sua sostanza al giuoco e nella vita comoda e signorile che amava di condurre. Era entrato alla banca quale corrispondente francese, da prima sottoposto a Sanneo, poi indipendente dopo una violenta baruffa con il suo capo. Maller riconobbe che quei due non potevano andare d’accordo e li divise non volendo costringere White a sottomettersi. White era protetto da un banchiere suo vecchio amico. Il lavoro di White verteva quasi del tutto su affari di borsa di cui pareva avesse una perfetta conoscenza. Era del resto un buon impiegato, rapido lavoratore quantunque disordinato. Sempre vestito elegantemente, aveva però una figura tozza, il passo incerto, la schiena teneva curva e gli dava un aspetto molto originale il vestito da lion con quella figura da vecchio. Il suo volto invece era regolarissimo; gli occhiali lo abbellivano accrescendo serietà alla sua faccia bruna. Nel luogo che per lui era di provincia, s’era appassionato per la caccia e la sua pelle portava le traccie delle molte ore passate al sole. Lavorava con grande rapidità e quando nulla aveva da fare, prendendosi una libertà che gli altri impiegati non avrebbero osato, non veniva affatto all’ufficio.
Intelligentemente blagueur, la sua conversazione riusciva interessante; leggeva tutti i nuovi romanzi francesi e ne parlava da un certo punto di vista che dava originalità alle sue osservazioni. Non amava i romanzi piú moderni; ne comprendeva, a quanto Alfonso poteva giudicare, tutti i meriti, ma non li amava sempre. Vi trovava una cosa di troppo o altra di troppo poco e finiva col dirne male. Offendeva il feticismo di Alfonso parlando con famigliarità sprezzante degli scrittori piú celebri. «Quegli dava il titolo al suo romanzo per attirare gli acquirenti, l’altro scriveva porcherie al medesimo scopo, il terzo che si diceva buono, scrittore che veniva letto dalle signorine, era un birbante che legnava sua madre.»
Offerse ad Alfonso dei libri in prestito, e, dimenticandosi sempre di portarglieli, una sera lo condusse seco a prenderli. Abitava nel centro della città in un primo piano spazioso. Attraversata una piccola anticamera, entrarono in uno stanzone non ammobigliato che da un tavolo e alcune sedie; le finestre erano senza coltrinaggi. In tanta luce e per tanto spazio la stanza rimaneva troppo nuda.
Vestita di un accappatoio color rosa, bionda, dai tratti troppo regolari, una donna era seduta accanto ad una finestra lavorando al telaio.
— Ma femme — disse White presentando, e poi: — Mon ami Monsieur Nitti.
La signora s’era alzata a stento, impedita dal panno che pendeva dal telaio. I due presentati si guardarono, lui mormorando una parola di complimento, ella proprio attendendo ch’egli se ne andasse per rimettersi al lavoro. White s’era precipitato in una stanza vicina e Alfonso, seccato di trovarsi muto con una muta, dopo un inchino leggermente corrisposto lo seguí.
La stanza da letto aveva i due letti uno accanto all’altro, un armadio e alcune sedie. I libri di White, una ventina, giacevano in disordine sul pavimento, sotto all’unica finestra, anche questa mancante di coltrinaggi. Non un quadro alle pareti; nulla di piú del necessario; sembravano due stanze ammobigliate per albergarci per qualche tempo, non un’abitazione.
Uscí con White, e con la donna di costui si ripeté la medesima scena. Ella si rialzò colla medesima premura, la faccia tranquilla per indifferenza, e il panno una seconda volta minacciò di farla cadere.
Alfonso chiese con sorpresa a White:
— Da quando è ammogliato?
White fu preso da una grande ilarità:
— Ammogliato? Da molto tempo, ma con questa mano! — e alzò la sinistra.
Una donna con un bambino in braccio entrò nella casa.
— Mio figlio! — gridò White toccando il bambino con il bastone; — mi rassomiglia un poco; tiene la schiena come me.
Il bambino s’appoggiava coi braccini sulla spalla della donna che lo teneva troppo in alto e lo costringeva quindi a curvarsi.
— Noi siamo piú sinceri di voi; io faccio pubblicamente tutte le mie cose e i parenti che ho qui me ne vogliono perciò, ma io me ne infischio formidabilmente.
Parlava l’italiano con disinvoltura, però si capiva che traduceva dal francese.
Un giorno nella stanza d’Alfonso, mentre c’era White entrò Annetta con un’amica alla quale faceva vedere la banca. Salutò con grande dimestichezza White, lo presentò all’amica e principiò con lui un vivace chiacchierio in francese. Congedandosi, disse ad Alfonso con un sorriso cortese:
— Anche lei... mi farà piacere!
Alfonso s’inchinò ma non aveva compreso.
Annetta era vestita in lutto per la morte di un lontano parente ch’essa non aveva neppur conosciuto. Il bruno la vestiva meglio che non il chiaro perché la faceva piú magra; i suoi occhi parevano persino piú espressivi.
— Che cosa mi ha detto? — chiese Alfonso a White.
— Ha invitato me a casa sua e cosí ha invitato anche lei — rispose White con noncuranza, — io non ci andrò!
— Ed io neppure! — affermò Alfonso risolutamente.
Al suo ritorno, Sanneo salutò gl’impiegati piú freddamente che alla partenza. Rientrato alla banca ridiveniva immediatamente il capo, mentre partendo aveva avuto il tempo di salutarli da collega.
Il primo giorno Miceni lo passò nella stanza di Sanneo per consegnargli i sospesi. Poi tutto riprese le vie usate e solo Miceni non seppe trovare la sua. Camminava per la banca piú stecchito del solito, in ozio perché essendo assuefatto al lavoro di Sanneo non era occupato abbastanza dal suo. Rimpiangeva quei quindici giorni di quasi sovranità, lodava il contegno che avevano avuto con lui i direttori ma piú di tutto esaltava il genere di lavoro di Sanneo.
— Questo è tutt’altra cosa! — esclamava con disprezzo accennando alle sue carte, — niente varietà e niente d’iniziativa!
Nella stanza era ora l’unico a lagnarsi della vita da travetto. Alfonso era ozioso perché Sanneo non gli aveva dato ancora da fare delle offerte e si godeva le poesie del de Musset.
Ben presto tutti alla banca seppero che i rapporti fra Miceni e Sanneo erano divenuti difficili e da tutti ne veniva attribuita la colpa a Miceni.
Sanneo aveva l’abitudine di segnare con degli N.B. (Notabene) le lettere per la cui risposta egli voleva dare degli ordini, imponendo cosí al corrispondente di andare da lui a chiederglieli prima di rispondere. Ballina, che aveva la specialità di formare i neologismi necessari agli usi speciali della banca, stabilí che andare a notabenarsi significava recarsi dal capo corrispondente a chiedergli la spiegazione dei suoi segni.
Ora Miceni, perché riteneva di non abbisognare di tante spiegazioni o per poltroneria, spesso ometteva di fare la cosa cosí designata da Ballina; piú spesso ancora, dopo ricevute le istruzioni, le modificava preferendo la propria all’idea di Sanneo. Questi attribuiva tutte queste irregolarità a sbadataggine e non le puniva che rimandando le lettere con l’ordine di mutarle, e Miceni dal canto suo non trovava altro modo di vendicarsi che scrivendo le lettere con calligrafia trascurata e mormorando:
— Finirò col fargliele rifare a lui!
Quest’inimicizia avrebbe potuto restare latente per molto tempo se Miceni in un momento d’ira non avesse chiaramente spiegato a Sanneo tutto il suo malvolere.
Erano le ore di maggior furia di lavoro, alla sera, e Sanneo trovò una lettera di Miceni fatta del tutto diversamente dal modo ch’egli avrebbe voluto; si rammentò anche che per quella lettera Miceni non s’era notabenato.
Venne da Miceni a passo di corsa, agitatissimo perché sospettava che l’errore fosse stato fatto scientemente.
— Questa lettera non può partire — e la scuoteva con la mano nervosa; — io voleva che si scrivesse altrimenti, non ha visto il notabene? Mi faccia vedere la lettera originale!
Visto che Miceni, che voleva guadagnare tempo, si moveva con troppa lentezza, prese lui il pacco di lettere, le sparse sul tavolo e ne trasse il corpo del delitto.
— Non vide questo notabene? — gridò furibondo.
Infatti era difficile non vederlo. Era fatto con una matita rossa; la prima gamba della N correva larga diagonalmente attraverso la facciata, la seconda era piú breve ma soltanto perché dopo essersene staccata rimaneva parallela alla prima e lo spazio piú non bastava; il B si spingeva piú piccolo sin fuori della facciata e gli mancava una gobba.
— L’ho visto — gridò Miceni stizzitosi perché la predica gli era fatta dinanzi ad Alfonso e a White, — avevo però già domandato le istruzioni per le altre lettere, e quando mi capitò questa trovai troppo faticoso di correre fino da lei per chiederle delle spiegazioni che supponevo avessero ad essere, come al solito, superflue.
La sua voce aveva dei suoni acuti; una volta scoppiata, l’ira lungamente covata gli faceva dire tutto quanto pensava.
— Ah! cosí! — urlò Sanneo dopo un istante di sorpresa a tanta petulanza, e stracciò la lettera, — crede che io faccia i notabene per mio piacere? Rifaccia subito questa lettera!
Con voce tremante, interrotta dalla commozione, gli diede le istruzioni.
— Ma poiché non posso piú fidarmi di lei, — aggiunse di nuovo gridando, — mi darà sempre, con la sua lettera, la lettera arrivata e si rammenti che se ne fa ancora di queste, mi rivolgerò al signor Maller per farle dire per suo mezzo le mie ragioni.
Miceni s’era già messo a scrivere, ma qui alzò le spalle con movimento quasi impercettibile ma completato da un sorriso ad aperta provocazione.
Asserivasi di Sanneo che gridava finché non trovava opposizioni e certo era che non amava le questioni e che per quanto stava in lui le evitava. Finse di non aver visto il gesto di Miceni e se ne andò.
Miceni era rosso in modo che sotto ai baffetti neri brillava la pelle colorata; si sentiva stridere piú fortemente del solito la sua penna sulla carta. Terminata la lettera, gettò con violenza la penna sul tavolo e gridò:
— Vuole che faccia anch’io come ha fatto White!
Dopo di aver consegnata la lettera a Sanneo spiegò ad Alfonso che anche a lui era possibile di emanciparsi da Sanneo, perché a costui bastava la corrispondenza con Vienna e l’Italia, e poteva lasciare a lui esclusivamente la corrispondenza con la Germania!
— Il signor Maller sa quanto io valga!
Si capiva che Sanneo nei giorni susseguenti agiva con premeditata moderazione perché non rifiutò alcuna lettera di Miceni il quale del resto andava a chiedergli tutte le istruzioni a cui i pochi notabene di Sanneo lo costringevano.
Ballina gridava:
— È dunque cosí che bisogna trattarlo per farlo buono?
White si congratulava con Miceni e gli domandava che riconoscesse di non aver fatto altro che imitarlo debolmente.
— Il resto non si farà attendere di troppo! — rispose Miceni trionfante e indicò loro la meta a cui tendeva.
Ballina protestò in nome della giustizia:
— Adesso che la tratta bene sarebbe suo il torto se ancora volesse far baruffe.
Nel timore di perdere il suo impiego non aveva mai avuto il coraggio di reagire contro alcun superiore; fra gl’impiegati della corrispondenza era il peggio trattato e invidiava coloro che potevano dire le proprie ragioni. Anche White cercava di calmare Miceni: non gli era troppo simpatica la propria azione vista in altrui.
Ma Miceni non volle udire ragione. Nell’impazienza di fare la sua brava ribellione, non fu capace di attendere l’occasione propizia, pur sapendo che non poteva tardare di molto a presentarsi, perché Sanneo aveva periodicamente delle giornate di forte irritabilità nelle quali facilmente si lasciava andare a parole che anche in direzione sarebbero stati costretti a biasimare. Fu sua la colpa se Sanneo con tanta facilità ottenne la vittoria.
Una domenica, un impiegato della stessa corrispondenza gli diede l’incarico, in iscritto come al solito, di scrivere subito a un cliente per invitarlo con energia di rimettere la copertura per differenze risultate in affari di borsa. Quantunque sapesse che l’ordine era stato dato da Sanneo, avendo il desiderio di andarsene, Miceni non lo eseguí e dichiarò che domenica non lavorava. L’impiegato riferí la risposta a Sanneo il quale andò su tutte le furie. Corse da Miceni e senza chiedere spiegazioni, con la schiuma alla bocca, gridò:
— Scriva immediatamente questa lettera! — e gettò l’avviso sul tavolo.
— Oggi è domenica, — rispose Miceni livido e tremante; il suo coraggio era voluto e la sua natura era da vile. — Di domenica io non lavoro.
Era stato Sanneo che aveva imposto alla corrispondenza di lavorare anche alla domenica mattina, ma cose di premura si eran fatte anche prima che egli divenisse capo; certi lavori non ammettevano dilazioni.
— Ah! cosí! — chiese Sanneo con voce pacata. Da un momento all’altro era ridivenuto calmo e se ne andò col suo passo rapido quasi non avesse voluto lasciar tempo a Miceni di modificare la sua risposta.
Poco dopo fece chiamare Alfonso.
— La prego, signor Nitti, faccia lei questa lettera.
Gli parlò con una dolcezza insolita e con voce commossa. Per una lettera di pochi versi trattenne Alfonso per un quarto d’ora abbondante; dapprima gli espose lo scopo della lettera, poscia letteralmente la dettò.
— Cosí tocca farla a me! — disse Alfonso a Miceni.
Miceni si adirò:
— Se trova con tanta facilità chi gli lavora di domenica, colui che vi si rifiuta finirà sempre coll’aver torto.
Se ne andò allo scopo di poter poscia asserire che non aveva potuto lavorare avendo avuto eccezionalmente un impegno altrove; dopo fatto quanto da tanto tempo s’era proposto di fare, si trovava evidentemente inquieto e preoccupato.
Sanneo rilesse la lettera fatta da Alfonso, fece qualche virgola ch’egli non aveva indicata e che Alfonso con la sua esattezza da copista non aveva osato di aggiungere, e con un sorriso di approvazione gli disse:
— Ma benone! Mi faccia il favore di porla sul tavolo del signor Cellani.
Non era stato mai tanto cortese.
Alle nove della mattina del lunedí, Miceni venne chiamato dal signor Maller. In parte White, in parte Miceni stesso riferirono ad Alfonso la scena che ebbe luogo in direzione.
Miceni era entrato con un saluto fragoroso e un inchino diretto anche a Cellani ch’era presente. White che stava per uscire si fermò ad ascoltare.
— Il signor Sanneo si lagnò di lei, signor Miceni, — disse Maller molto serio; — perché si è rifiutato ieri di scrivere quella letterina?
— Ritenevo fossero cose che si potessero fare anche al lunedí, — rispose Miceni; all’ultimo momento s’era deciso di dare una forma dubitativa alla sua risposta.
— Ma se il signor Sanneo ordina che si devono fare alla domenica, — e Maller alzò la voce — son cose che si devono fare alla domenica.
La parziale ripetizione della frase di Miceni rendeva piú dura la sua risposta.
— Ad ogni modo — obbiettò Miceni con un tono che chiedeva alla bontà del suo avversario di accettare per buono il suo argomento — è mal fatto da parte del signor Sanneo di obbligarmi a lavorare in giorno festivo.
— Avevo dato ordine io di fare e di spedire ieri stesso quella lettera, — rispose severamente il signor Maller.
Miceni ebbe dei suoni inarticolati; non c’era piú nulla da rispondere.
A White fece compassione e uscí.
L’altra parte della scena fu riportata da Miceni che uscí dalla stanza di Maller lieto come se fosse stato sicuro del fatto suo.
Si faceva ammirare. Gli era stato dato torto per la questione in giudicato e un altro avrebbe abbandonato la partita per perduta, mentre lui aveva saputo spostarla. Aveva parlato di vecchie storie, in direzione già sapute e per le quali si sapeva che Sanneo era stato biasimato; poi, con disprezzo, — un’altra mancanza di rispetto al suo capo non poteva piú nuocergli, — di quei notabene che non avevano altro scopo che d’insudiciare le lettere e di far correre l’impiegato.
— Il contegno del signor Sanneo con gl’impiegati non è quale dovrebb’essere ed io assolutamente non mi vi adatto!
Aveva riconquistato tutta la sua sicurezza.
Venne però chiamato di nuovo in stanza del signor Maller e ne uscí con cera affatto mutata, tanto che Alfonso nulla gli chiese avendo già compreso. Miceni ebbe un risolino che voleva essere sarcastico; con movimenti piú decisi pose sul suo tavolo il cappello e la giacchetta da lavoro e disse:
— Questa è del tutto inaspettata.
White entrato allora guardò Miceni con fredda curiosità.
— Lei viene trasferito alla contabilità?
La vista di chi era stato piú fortunato di lui, fece perdere a Miceni quel poco di padronanza di sé che ancora gli era rimasta. Non c’era nulla da ridere, disse, quantunque White non avesse riso; se egli avesse goduto di tante protezioni come White, l’affare avrebbe preso tutt’altra piega. White non si difese e freddo, freddo, sorridente, rispose che sapeva di essere protetto e che non gli dispiaceva che anche gli altri lo sapessero; fece inviperire vieppiú Miceni. Pareva volesse vendicarsi dell’attacco che l’aveva lasciato tanto indifferente.
— Chi troppo abbraccia nulla stringe.
Allora Miceni nella grande ira si commosse.
— Che cosa ho voluto che fosse di troppo? Giustizia! è troppo? Venir trattato pulitamente! è troppo?
Non piangeva, ma la sua voce era piena di lagrime e White divenne piú mite; non seppe risparmiargli l’ultima freccia per mettere a posto i fatti:
— Lei diceva però di voler essere indipendente.
Miceni risolutamente negò; egli voleva, esplicò, essere indipendente solamente nel caso che Sanneo non avesse saputo contenersi meglio. Adesso, appena, s’accorgeva della difficoltà del compito che s’era assegnato e si vergognava d’essere stato battuto in quel modo.
White spiegò poscia ad Alfonso la gravità del caso toccato a Miceni. Veniva relegato alla contabilità e ad un posto inferiore perché la pratica del corrispondente non bastava a fare il buon contabile.
— Poi la noia per chi è abituato ad un lavoro piú variato! Lí non avrà da fare tutto il giorno che cifre, cifre e cifre.
Ballina entrò e ironicamente fece i suoi mirallegro ad Alfonso; veniva dalla stanza di Sanneo ove aveva udito che Alfonso veniva designato a successore di Miceni. Alfonso lo guardò incredulo ma già spaventato; gli faceva paura il lavoro di Miceni supponendolo difficile e troppo grande, tale che gli avrebbe tolto quel poco di tempo che gli rimaneva per le sue letture. White cercò di tranquillarlo; quello che non sapeva fare gli si sarebbe insegnato e se non arrivava a fare tutto, il mondo nondimeno avrebbe continuato a girare e lui a vivere. Era certamente un avviamento alla sua carriera e se aveva senno doveva rallegrarsene.
— È stato solo nell’ultimo tempo che Miceni si diede quell’aria d’importanza, — gli raccontò Ballina; — non prima, perché il signor Sanneo ha dovuto spiegargli tutto dall'a fino allo zeta.
Citò anche un caso in cui aveva veduto Miceni con gli occhi fuori della testa dalle difficoltà che offriva a lui un affare per altri semplice e chiaro.
— Con gli occhi fuori della testa? — chiese Alfonso che godeva meno della disgrazia toccata al suo rivale di quanto soffrisse per quella che poteva toccare a lui.
Soltanto alle tre del pomeriggio gli venne confermato ufficialmente l’annunzio di Ballina. Sanneo lo fece chiamare quando ebbe sbrigato i notabene degli altri impiegati. Gli disse con noncuranza che il signor Miceni aveva lasciato la corrispondenza e ch’egli si era deciso di dare a lui una parte della corrispondenza italiana, il lavoro puramente bancario, anzi, aggiunse con disprezzo, di scritturazione. Alfonso si era proposto di esporre lo stato delle sue cognizioni, ma non ne ebbe il coraggio; sarebbe stato vergognoso di mostrarsi esitante ad accettare un lavoro tanto facile. In pochi minuti Sanneo gli mise in mano una quindicina di lettere con poche parole di spiegazione per ciascuna. Parlò di stornare, di mettere in deposito, di tenere in sospeso, tutti termini di cui il senso era ancor poco chiaro ad Alfonso.
Compilò con facilità la risposta a due o tre lettere, quelle consegnategli ultime da Sanneo, delle quali rammentava ancora le spiegazioni avute; non gli sarebbe riuscito di rispondere alle altre senza l’aiuto di White.
— A chi darà poi il resto del lavoro di Miceni? — chiese White con sorpresa dopo di aver dato ad Alfonso con grande gentilezza una vera lezione di scritturazioni bancarie: — qui mancano ancora gli affari di borsa e poi quelle cinque o sei lettere di polemica; in questa corrispondenza ce ne sono ogni giorno anche piú. È capacissimo di fare tutto lui.
Infatti uscendo dalla banca alla sera tardi, Alfonso vide la stanza di Sanneo ancora illuminata e proiettarsi sulle lastre la figura del capo corrispondente, sottile, china al tavolo.
White accompagnò Alfonso alla cassa per dare l’avviso di una tratta. Era una stanzetta dimezzata da una leggera parete di legno dietro alla quale sedeva al suo tavolo, leggendo un giornale, il signor Jassy, un vecchio dal volto coperto da numerose pustolette che non ci avevano lasciato che radi i peli bianchicci.
Su un foglio rigato che White gli porse, Alfonso notò gli estremi della tratta; lo consegnò poi a Jassy che lo pose accanto al giornale senza dir parola.
Giusto allora si presentò un giovinetto allo sportello e presentò una cambiale. Jassy prese il foglio degli avvisi, lo guardò, guardò la cambiale, poi, sempre immobile, con voce di lamento gridò:
— È proprio questa, avvisata in quest’istante, ma perché non la fate segnare in tempo dal signor Cellani? Qui non c’è adesso nessuno che possa muoversi dalla cassa e intanto la gente aspetta.
Gettò il foglio con violenza dinanzi a White. Questi rispose subito irritato
— Non ho mica avvisata io questa tratta, è cosa che non mi concerne; del resto le tratte non si possono avvisare prima di aver ricevuto le lettere di avviso. Le pare?
Il vecchio si rivolse ad Alfonso e, piú dolcemente, gli disse:
— La prego di far vedere questa tratta al signor Cellani, sa dov’è la sua stanza?
— Venga con me — disse White e s’avviò.
Alfonso lo seguí dopo essersi fermato a guardare Jassy il quale, parlando con la persona ch’era venuta ad incassare la cambiale, andava con passo vacillante verso lo sportello. Aveva le gambe molli come se fossero state fatte di panno e teneva le mani per innanzi quasi avesse avuto paura di cadere.
— Questi è il cassiere? — chiese Alfonso a White.
— Sí, un povero vecchio che sarebbe piú adatto alla contabilità... o alla pensione.
Il signor Cellani era un uomo che aveva conquistato il suo posto a forza di fatiche, passo passo; lo si diceva cinquantenne, ma, con la sua figura magra e slanciata, la pelle asciutta e senza rughe, non mostrava di avere piú di trent’anni.
— Buona fortuna! — augurò con grande cortesia ad Alfonso che per affari d’ufficio veniva per la prima volta da lui. — Le raccomando di badare molto alla forma delle lettere; non ero molto contento neppur di quella del signor Miceni. Lei è intelligente e comprenderà quanta importanza abbia la forma nella lettera bancaria.
Appose l’iniziale del suo nome accanto all’importo della tratta.
Nel frattempo erano venute altre persone alla cassa e Giuseppe, il servo del signor Cellani, aiutava Jassy che si moveva lentamente fra la cassa e lo sportello, sempre indeciso, incapace anche di farsi aiutare, forse per diffidenza. Alfonso, nel grande zelo suscitatogli dalle buone parole di Cellani, volle consegnare l’avviso a Jassy stesso. Costui stava movendosi verso lo sportello con banconote in ambedue le mani; diede ad Alfonso un’occhiata torva e, senza fermarsi, gridò a Giuseppe:
— Gli tolga dunque di mano quel foglio!
Sanneo sul tardi gli diede da fare ancora due o tre lettere, e per ultimo lavoro dovette spedire delle cambiali. White lo aiutò anche qui perché Alfonso aveva riguardo di maneggiare quei bollettini di carta tanto preziosi.
Sbollito il primo zelo, copiando nella lettera quegl’importi vistosi, Alfonso calcolava quale minima frazione di ogni singolo gli sarebbe bastata per vivere tranquillo al suo villaggio.