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XVII
L’arrivo in città fu triste. Mentre fuori fioccava la neve bianca e allegra, dal mare soffiava lo scirocco e in città piovigginava monotonamente. Alfonso ebbe il triste sentimento che quel tempo non avesse piú a cessare. Non erano nubi distinte su quel cielo, ma fino all’orizzonte un solo strato grigio sucido.
Stava per uscire dalla stazione quando venne fermato da Prarchi accorso correndo e che nella fretta, quantunque si trovasse al coperto, aveva dimenticato di chiudere l’ombrello.
— Hai visto Fumigi?
— Io no!
— Che sia già arrivato? — e lasciò Alfonso per andare a parlare al capostazione.
Ritornò ad Alfonso che non aveva compreso come tanto presto il capostazione avesse potuto dare notizie di un singolo passeggiero.
— Non arriva oggi! E lei che cosa fa da queste parti?
— Arrivai or ora! — rispose Alfonso stupefatto che non si sapesse della sua lunga assenza.
— Ah cosí! — Poi anch’egli dolente di dimostrare tanta ignoranza dei destini di Alfonso, volle correggersi. — Sono tanto distratto io! Se sapevo ch’ella era assente! Me lo avevano detto Macario e Maller.
S’incamminarono. Attraversarono la piazza e infilarono la via Ghega che s’internava nella città da quella parte compatta, circoscritta. Con pochi passi si arrivava alle vie maggiormente abitate.
— In lutto? — chiese Prarchi con sorpresa che riteneva legittima.
— Sí, per la morte di mia madre.
Prarchi gli fece le sue condoglianze, poi, seccato di non saper parlare a tono, volle congedarsi. Ma Alfonso aveva troppo grande desiderio di udire al piú presto notizie di casa Maller e gli offerse di accompagnarlo da qualunque parte si fosse diretto.
Poi, vedendo che Prarchi rimaneva muto, gli raccontò che da oltre un mese era assente dalla città e che nessuno si era curato di dargliene notizie; lo pregava intanto di voler raccontargli se qualche cosa di nuovo fosse accaduto ai singoli membri del club del mercoledí. Abilmente faceva credere che quelle non erano che parte delle notizie che gli premevano, mentre con una sola parola Prarchi avrebbe potuto togliergli ogni altra curiosità.
Ma Prarchi non la disse e parlò di Fumigi. Ripeté in parte cose che Alfonso già conosceva. Dopo la liquidazione forzata della casa di Fumigi, s’era manifestata in costui una malattia che Prarchi subito aveva definito per paralisi progressiva quando gli altri ancora erano incerti fra questa e spinite. La voce di Prarchi non isvelava commozione che quando raccontava di qualche sua risposta con la quale velatamente aveva dato dell’ignorante a un medico notissimo. Il triste destino di Fumigi aveva dato delle bellissime soddisfazioni al giovine medico e parlava di queste non di quello. Prarchi aveva fatta un’altra asserzione giusta e ch’era stata confermata dai contabili di Maller. Non la malattia di Fumigi era stata la conseguenza della sua rovina commerciale, ma invece quella era stata la causa di questa; i primi sintomi della malattia s’erano manifestati precisamente nei suoi affari.
— Oh! un fatto tragico! — e qui Prarchi si commosse di una commozione chiassosa. — Il lavoro di tutta una vita perduto per qualche nervetto che si è corrotto. Quell’imbecille, pur sentendosi ammalato, ha voluto continuare a lavorare e in poche settimane ha saputo fare di tali speculazioni che la saggezza di tutta la sua vita non compensa. Chiamare il medico in tempo è talvolta un grande vantaggio.
Sempre fermo nel suo pensiero unico, Alfonso trovò il modo di costringere Prarchi a parlare di Annetta.
— Non è per amore ad Annetta che s’è attirato questa malattia?
— Non lo credo! — rispose Prarchi. — Forse è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma sono malattie che si formano lentamente. Chissà da quanti anni essa minava l’organismo di Fumigi! Lavorò troppo e visse da celibe; non mi pare che occorrano altre spiegazioni. Oggi noi possiamo seguire i progressi della paralisi, ma certo è da molto tempo ch’essa s’era messa in marcia. È caratteristico che anche adesso egli continua a fissare con le cifre.
Attraversarono via dei Forni muti ambidue. La casa Maller, vista attraverso a quell’atmosfera satura d’acqua, aveva il medesimo aspetto che attraverso alla nebbia il giorno della partenza: grigia, solenne, chiusa. Gli abitanti di quella casa, ad onta dell’ora avanzata, dormivano ancora.
Prarchi non guardava da quella parte. Egli pensava ancora a Fumigi.
— Adesso me lo confidano, — disse con amarezza, — quando è già passata la fase piú interessante. Non che prima avrei potuto apportargli giovamento, ma adesso assisto al processo con piena indifferenza perché è processo descritto le migliaia di volte con tutta esattezza, mentre prima deve essere stato interessante di assistere all’offuscarsi di quella mente solida abbastanza per avere dei conati alla resistenza.
Alfonso non apriva bocca disperando di poter apprendere da Prarchi delle notizie su Annetta. Se avesse avuta la coscienza tranquilla avrebbe potuto chiederle esplicitamente, ma non osò.
Congedandosi, appena Prarchi cadde su quell’argomento. Salutò Alfonso di là dal ponte, gli strinse la mano e a bruciapelo gli disse ridendo:
— Basta che la signorina Annetta non abbia fatto un’altra vittima! — e guardava fiso Alfonso. — Già era da prevedersi che Macario avrebbe finito col prendersela. Lei è abbastanza intelligente per averlo preveduto come l’ho preveduto io.
Invece, per quanto Alfonso fosse stato prevenuto, la notizia gli diede due sorprese. Una la notizia stessa alla quale non s’era atteso e l’altra al sentirsi trasalire dolorosamente per una gelosia amara. Come al solito, studiò il contegno da prendere acciocché Prarchi non si avvedesse della sua emozione e gli parve che troppa disinvoltura avrebbe potuto dare sospetto.
— Davvero? — chiese sorpreso ma, sembrò, aggradevolmente. — È però ufficiale? — Non volendo mostrare di dubitar della verità della notizia, aggiunse per spiegare la sua domanda: — Si può subito congratularsene?
Gli parve tutt’ad un tratto che non potesse essere vero.
Prarchi gli disse che non era ufficiale e che egli non ancora s’era congratulato con Macario, ma che però era sicuramente vero. Il club del mercoledí non esisteva piú ed era venuto Federico da Parigi per assistere alla promissione della sorella.
— Forse subito agli sponsali, — aggiunse Prarchi ridendo, — perché si dice che Macario abbia grande fretta e che neppure ad Annetta piacciano le cose lunghe.
Che il club del mercoledí piú non esistesse e che Federico improvvisamente fosse venuto da Parigi non erano prove sufficienti che Annetta fosse promessa sposa, e, perché non erano tali, ad Alfonso ben presto sembrò che provassero addirittura che il tutto fosse falso, inventato di pianta.
Prarchi se ne andò convinto d’essersi ingannato sui sentimenti di Alfonso per Annetta e Alfonso ebbe la soddisfazione d’esser riuscito a far credere a Prarchi nella sua indifferenza. Ciò lo calmò; nell’istesso modo si sarebbe sempre contenuto e, come Prarchi, avrebbe ingannato tutti.
Appena rimasto solo comprese, indovinò che Annetta già allora doveva essere fidanzata a Macario. In quel fatto non v’era nulla che potesse sorprenderlo. Era stato avvisato che cosí sarebbe avvenuto ed era strano che ricevendo la lettera di Francesca, quella che gli aveva portato tale avviso, egli non avesse provato la fitta al cuore che dinanzi a Prarchi quasi gli aveva fatto dare un grido. Anche questo spiegò. Là nel villaggio, viste da lontano, le cose perdevano della loro importanza. Lo aveva agitato piú l’odio di Creglingi che non le minaccie di Francesca.
Attraversò la piazza, assente in mezzo al frastuono delle venditrici di frutta e d’erbaggi. Si trovava circondato da crocchi di domestiche che facevano le loro provviste. Tranquille, avevano l’aspetto franco cui l’oretta d’indipendenza dava loro diritto. Qualche padrona o qualche signorina passava affaccendata accompagnata dalla fantesca. Egli non chiedeva di passare; attendeva a lungo che i gruppi si sciogliessero per lasciargli libera la via o anche che una singola di quelle persone, vestita trascuratamente ma gli stivaletti neri, lucidi, spostasse il grande ombrello, per fargli posto. Nel suo stato d’animo era lieto di dover camminare tanto lentamente.
Ma egli si trovava in città allorché Francesca lo aveva avvertito di quanto stava per succedere e l’impressione da lui provata allora era stata tanto debole. Certo! Egli aveva fatto bene a partire e anche allora lo riconosceva perché non aveva mica dimenticato tutte le ragioni che lo avevano indotto a quel passo! Dunque perché sorpresa e dolore e gelosia?
Quello che ancora poteva sorprenderlo era che la scelta fosse caduta su Macario. Annetta non aveva dimostrato mai una grande simpatia per il cugino, e a sua volta Macario aveva parlato di Annetta in modo che si poteva credere che l’amasse e desiderasse, ma non che avesse l’intenzione di sposarla. Odiava pur tanto le facoltà matematiche di Annetta e le sue pretensioni e i suoi capricci! Ragionevolmente doveva spiacergli che Macario divenisse il marito di Annetta piuttosto che un altro perché Macario era o era stato suo amico e questa relazione rendeva piú difficile il suo contegno. Si vedeva invitato a nozze o magari scelto da Macario a testimonio! Come romanzo non sarebbe stato male, ma in realtà quante noie e quante finzioni!
Non era questo che lo affliggeva. Con se stesso non sapeva mentire. Soffriva di gelosia, un dolore acuto, un profondo avvilimento, ed era cosa molto sciocca. Soffriva dei risultati dell’opera sua! Dacché egli aveva abbandonato Annetta, nulla avrebbe dovuto addolorarlo di quanto seguiva dalla sua rinunzia fatta da lui liberamente, e se anche nessuno ne aveva saputo, doveva bastare al suo orgoglio di essere perfettamente conscio di essere stato lui a rinunziare. Una volta su questa via volle anche andare piú oltre. Quello che adesso succedeva non lo concerneva affatto; alla sua felicità doveva bastare di sapersi liberato da Annetta. Era libero! Ripeté piú volte la parola a mezza voce: Libero da quella donnicciuola che lo aveva abbandonato con la stessa rapidità con cui gli si era data.
Quando uscí dalla piazza, egli aveva quel suo passo marcato, lungo, delle grandi risoluzioni e guardò se non s’imbattesse in Macario perché avrebbe voluto congratularsi subito con lui per il lieto avvenimento. Lieto? Povero Macario! Era veramente lui il tradito!
Ad onta di tutti i ragionamenti rimase triste. Una volta di piú, cosí raccontava a se stesso, quel fatto gli provava l’imbecillità della vita e non pensava in questo fatto al torto di Annetta o di Macario ma al proprio, di sentire in modo strano e irragionevole.
Poi in casa Lanucci la sua tristezza ebbe altro alimento. Già gli appartamenti piccoli e bassi lo rattristavano perché di nuovo s’era abituato all’abbondanza di spazio del villaggio.
Gli parvero piú misere del solito anche le persone. Lucia che ricamava nel tinello lo salutò appena; appariva anemica e sotto agli occhi aveva marcata una macchia verdastra. Il vecchio Lanucci era a letto da due settimane per un reuma di cui non doveva forse piú guarire: nuova, grave sventura per la povera famiglia. Gustavo non era in casa.
Parve che la vecchia Lanucci soltanto un’ora dopo si rammentasse della sventura toccata ad Alfonso. Molto stanco, egli si era gettato sul letto allorché ella picchiò alla sua porta. Seccato, egli le andò incontro. Non comprese perché ella dirottamente piangesse; i singhiozzi le impedivano di parlare.
— Che cosa ha? — le chiese spaventato.
— È morta, la poveretta, e ha tanto sofferto!
Si tranquillò all’apprendere che la Lanucci non piangeva che per la morte di sua madre.
— Sí, è morta e mi ha incaricato di salutarvi tutti!
Egli aveva le lagrime agli occhi, ma solo perché i suoi occhi delicati si riempivano di lagrime al veder piangere. Dovette raccontarle tutti i particolari della morte della madre e allora realmente si commosse.
— E della casa che cosa ne ha fatto?
— Venduta, — e le disse quanto ne avesse ricavato.
Il colloquio divenne patetico. La signora Lanucci lo abbracciò e gli stampò due caldi baci sulle guancie:
— Adesso sarò io sua madre e di cuore.
Certo in quell’intervallo di tempo ella doveva aver sofferto molto e da bel principio egli s’era accorto che una tristezza nuova alterava quella fisonomia. Pensò che soffrisse per la malattia del marito. Volendo consolare Alfonso dopo essere stata dessa ad agitarlo, ella sorrise e rise ma erano smorfie. Invece prima, anche nelle ore piú tristi della sua triste vita, il sorriso sulle labbra vizze non era mancato mai.
Poi comprese. In casa, oltre alla malattia del Lanucci, v’erano altre novità. Da due settimane Gralli non veniva piú da Lucia. S’era congedato formalmente con una letterina che la Lanucci trasse di tasca tutta gualcita. Comunicava con essa che, essendo stato sospeso il lavoro nella tipografia dove egli aveva occupato un ottimo posto, non poteva neppur pensare ad accasarsi.
Mentre egli leggeva, la Lanucci lo guardava con attenzione studiando il suo volto per vedere quale impressione gli facesse quella lettura. Era molto pallida e si rosicchiava le unghie.
— È poi grande questa sventura? — chiese Alfonso costringendosi a ridere per consolarla piú facilmente.
Disse male di Gralli, un tipo che mai gli era piaciuto, persona che certamente doveva essere violenta e poco sincera con quella sua figurina tutta nervi e niente carne e niente statura.
— Oh a me non duole mica molto del suo abbandono, — e volle ridere, ma di nuovo il volto prese quell’espressione di allegria voluta, una contorsione come di persona poco abile che voglia fare ginnastica.
Gli faceva pena. Per liberarsene chiese di andare a salutare il vecchio Lanucci, ma ella rispose che l’ammalato dormiva. Prese allora una decisione che gli costava fatica, con aspetto tranquillo come se non avesse fatto altro che rammentarsi di un suo dovere. Si apprestò ad andare subito alla banca. Già era cosa che prima o poi bisognava fare e valeva meglio liberarsi subito da quel pensiero.
Avviandosi, per acquistar tranquillità e forza volle porsi dinanzi agli occhi le peggiori eventualità cui andava a esporsi. Non ne vide che una. Esser congedato dall’impiego. Era piccola sventura, ma gli dispiacque tanto tutto quell’odio che doveva supporre nutrito dalle persone che lo avrebbero scacciato, che, per salvarsi dal malessere che provava, fantasticò sulla probabilità che venisse del tutto risparmiato da tanto odio. Francesca gli aveva scritto che a Maller tutto era stato raccontato, ma Francesca non aveva assistito al colloquio fra padre e figlia e forse era stata ingannata da Annetta la quale aveva delle ragioni per ingannarla. Da due ore sapeva che Annetta lo aveva abbandonato, ma erano bastate per abituarlo a tale idea; ora, ricordandosi di altre sue osservazioni sul carattere di Annetta, gli sembrava tanto naturale ch’ella tanto presto lo avesse dimenticato che per spiegarlo non gli occorreva neppure supporre l’intervento di Maller. Prima anche di parlare col padre, ella s’era ravveduta del suo fallo e se, come Francesca aveva scritto, in quella casa c’erano state delle scene violente, avevano avuto luogo per tutt’altra ragione. Forse, mentre Francesca aveva creduto che Annetta combattesse per lui, costei lottava per poter sposare suo cugino che al vecchio Maller non poteva soddisfare del tutto perché non ricco. Sarebbe stato pur bello! La sua avventura non avrebbe lasciato alcuna conseguenza fuori che il ricordo. E non brutto ricordo, doveva confessarlo. Poteva divenire brutto per le sue conseguenze, ma, tagliata cosí, l’avventura non gli aveva apportato che godimento e esperienza. Negli anni suoi piú tardi, in quella vecchiaia ch’egli desiderava, avrebbe potuto raccontare di aver vissuto anche nel senso usato dagli altri.
Santo, la prima persona in cui s’imbatté nel corridoio della banca, lo salutò con grande amicizia e gli raccontò che durante la sua assenza era stato parlato molto di lui. Si era udito con dispiacere della morte di sua madre.
Ringraziò Santo con grande calore perché quest’amicizia che gli veniva dimostrata dal servo di Maller poteva essere un indizio dei sentimenti nutriti per lui da Maller stesso.
Il signor Maller non c’era e anche quest’assenza ad Alfonso sembrò una fortuna. Affrontarlo senza sapere che cosa pensasse di lui gli faceva venire la pelle d’oca; in qualunque caso era meno disaggradevole avvicinarlo preparato e dopo aver studiato il contegno da seguire.
Il colpo giunse inaspettato e da Cellani, dal suo miglior amico fra’ superiori. Costui lo accolse con una freddezza eccessiva. Non cessò di scrivere e non alzò il capo che una sola volta per guardarlo in faccia biecamente.
— Le raccomando di lavorare molto, — disse ad Alfonso interdetto, — procuri di riguadagnare il tempo perduto. — Alfonso aveva già aperta la porta per uscire allorché venne chiamato: — Signor Nitti! — Rientrò pieno di speranza attendendosi da Cellani, col carattere mite e espansivo che gli conosceva, qualche parola piú amichevole di saluto, o cortese di conforto. Invece Cellani, dopo assicuratosi che lo aveva di nuovo dinanzi a sé, lo avvisò, sempre freddamente, ch’era stato incaricato da Maller di fargli le sue condoglianze e di avvisarlo che lo esonerava dal fargli quella visita di saluto d’uso dopo una lunga assenza. Sembrava che attendesse con tutto il suo pensiero a scrivere perché macchinalmente la sua voce si modulava secondo i movimenti della penna. — Il signor Maller è molto occupato! — aggiunse con voce sorda quasi gli fosse sembrato che anche questa spiegazione era stata di troppo.
Alfonso di nuovo avrebbe avuto bisogno di restare solo per riflettere, comprendere chiaramente quali conseguenze egli avesse da trarre dal contegno di Cellani. Uscí da quella stanza indeciso; certo egli avrebbe dovuto dire qualche parola, lo sentiva, ma non sapeva quale. E chiusa la porta di Cellani ebbe un rimpianto.
Non si poteva ritornare indietro ed egli certo non s’era contenuto come avrebbe dovuto.
Non seppe come egli si fosse trovato in speditura, la stanza situata di faccia a quella di Cellani. Con la sua voce solida, sicura, ma non aggradevole, Starringer gli disse che si condoleva con lui per la morte della madre e gli strinse la mano quasi fino a schiacciargliela. Poi, non sapendo ch’era venuto giusto allora e che non aveva ancora cominciato a lavorare, gli chiese:
— Ha posto lei questa lettera sul mio tavolo?
— Sono in ufficio da cinque minuti, — rispose Alfonso.
Ballina lo fermò sul piccolo corridoio dinanzi alla sua stanza.
— Sono cose — gli disse — che accadono a tutti, è doloroso ma... — e non terminò che stringendogli fortemente la mano forse per il timore di dire qualche sciocchezza.
Nella sua stanza si trovò per pochi minuti solo. Poi venne Alchieri a condolersi. Costui voleva anche sapere come la malattia della signora Carolina si fosse sviluppata, con quali sintomi; aveva udito dire ch’era morta di male di cuore, e, temendo fortemente per se di quello stesso male, voleva approfittare dell’occasione per farsi istruire. Alfonso rispose a monosillabi, e Alchieri attribuí questo laconismo al dolore e alla ripugnanza di parlare di quell’argomento.
Alfonso invece aveva sempre fitto nella mente il medesimo pensiero: Esaminare quali cause potessero aver imposto a Cellani, persona buona e cortese, quel contegno villano. Non distrazione e non proprî dispiaceri perché, era stato facile avvedersene, quella freddezza e quella mancanza di riguardi erano volute.
Egli s’era posto dinanzi al suo tavolo dall’aspetto immutato come l’aveva lasciato, nella casella di mezzo un foglio di carta, una lettera sbagliata che non si era potuto spedire, il calendario a destra con i giorni cancellati fino a quell’ultimo in cui Cellani con cortesia sorridente gli aveva offerto il permesso.
Era odiato da Maller e da Cellani. Prima di abbandonarlo Annetta lo aveva denunziato al padre. Chissà con quali parole era stato descritto! Risoltasi ad abbandonarlo e a sposare Macario, Annetta doveva odiarlo intensamente, e a lei stessa egli poteva sembrare un seduttore, forse violentatore, perché niente è piú facile che di cancellare dalla mente una propria colpa quando non è stata né parlata né scritta. Egli sarebbe rimasto rappresentato quale il solo colpevole, e Maller e Cellani certo pensavano di lui ch’egli aveva preso Annetta a tradimento.
Come si sarebbe difeso se gli si fosse lasciata la parola? Semplicemente avrebbe esposto con sincerità i fatti, tutto quanto era succeduto dacché Annetta con tanta benevolenza lo aveva accolto in casa sua. L’aveva amata e non era stato riamato ma tollerato; ciò aveva contribuito a esasperare i suoi sensi. Avrebbe alterato la verità soltanto per non divenire l’accusatore di Annetta, non per far apparire minore la propria colpa, perché in verità era stata dessa a fargli perdere la testa con le sue civetterie e dessa anzi aveva battuto per la prima quella via che li aveva traviati.
Alchieri gli chiese se avesse salutato Sanneo. Se ne era infatti dimenticato. Andò alla stanza del capo correndo, paventando d’imbattersi improvvisamente in Maller o di nuovo in Cellani.
Aveva temuto per un istante di trovare anche da Sanneo il trattamento subito da Cellani. Fu ben presto disingannato perché Sanneo lo accolse con la cortesia esagerata che usava trattando d’oggetti estranei all’ufficio. Gli fece le condoglianze su un tono amichevole, trovò che il suo aspetto era tutt’altro che florido e aggiunse ch’era da sperarsi che in ufficio, nella quiete del lavoro, ben presto si sarebbe rimesso. Lo pensava sinceramente; non aveva detto queste parole per rendere piú attivo il suo impiegato. Poi appena passò a parlare del lavoro il suo tono divenne piú freddo. Lo aveva atteso con impazienza. Voleva che Alfonso assumesse il lavoro che gli era stato destinato nei giorni prima della sua partenza, dunque anche la liquidazione e di piú qualche poco di corrispondenza tedesca.
Alfonso accettò. Sapeva ch’era troppo, ma non gli dispiaceva. Col suo lavoro si sarebbe reso indispensabile alla banca e gli balenò alla mente la speranza di farsi amare da Maller come impiegato poiché come uomo ne veniva odiato. Anche piú tardi ci pensò. Che cosa c’entravano gli affari d’ufficio con quelli di famiglia? Per Alfonso i suoi con Annetta erano affari di famiglia.
La notte prima era morto Jassy dopo una malattia di pochi giorni di cui aveva passato la metà in ufficio. Il poveretto aveva sempre creduto d’essere indispensabile ed era morto con questa convinzione perché la malattia non gli aveva lasciato il tempo di misurare quanto indifferente fosse la sua assenza alla banca Maller e C. Il toscano Marlucci diede ad Alfonso l’annunzio del decesso invitandolo, nello stesso tempo, a sottoscrivere per una corona mortuaria con la quale gl’impiegati in comune volevano onorare la memoria del vecchio collega.
Non tutti gl’impiegati sapevano dell’assenza di Alfonso di un mese e mezzo. Quando Alfonso raccontò a Marlucci che non poteva aver saputo della morte di Jassy essendo stato assente, il toscano non celò la sua sorpresa, e, quando apprese che durante questo tempo era morta la madre di Alfonso, non si rammentò di dimostrare partecipazione. Rasciugando la firma che Alfonso aveva apposto al foglio, sempre badando a fare lentamente per non macchiarlo, comunicò ad Alfonso che il funerale di Jassy doveva aver luogo il giorno appresso.
Poco dopo venne Sanneo portando seco un pacco di lettere, tutti gli arretrati che durante l’assenza di Alfonso non si erano potuti sbrigare.
— Mi metto a lavorare subito, — disse Alfonso, ma tanto esitante ch’era una chiara domanda di esser lasciato libero per quel giorno. Aveva da metter in ordine la sua stanzetta e, quello che gli premeva di piú, voleva depositare presso un’altra banca i suoi denari.
Sanneo imitò Alfonso. Gli disse che per quei sospesi non c’era premura, ma ebbe l’aspetto malcontento cosí che Alfonso rapidamente deciso si mise subito al lavoro. Incominciava subito la sua opera di rendersi amici i suoi capi.
Miceni venne a salutarlo e fu il primo che trovasse il tono sentito dell’amico che si conduole. Disse che sentiva profondamente il dolore di Alfonso essendo anche lui recente dell’identica sventura e raccontò commosso della morte della propria madre.
Cambiando di tono raccontò ad Alfonso delle novità della città, le stesse cose che gli erano state raccontate da Prarchi. Fumigi ammalato e Annetta promessa sposa. Non aveva l’intenzione di rendere Alfonso geloso o di apportargli dispiacere e sembrava avesse del tutto dimenticato che in altra epoca egli lo aveva ritenuto aspirante alla mano di Annetta.
Trovava che il matrimonio di Annetta con Macario era bellissimo, come condizione e stato dei due sposi, e come statura, e volle con tutta ingenuità che Alfonso si dichiarasse del medesimo parere.
— Oh! certo un bellissimo matrimonio! — disse Alfonso molto convinto.
Ridendo, Miceni aggiunse:
— A te toccheranno ora delle seccature. Quale amico di casa dovrai fare delle visite di felicitazione, forse dei regali di nozze.
Lasciò Alfonso piú turbato che mai. Infatti, se altro a lui in proposito non veniva detto, era segno che si voleva ch’egli si contenesse in modo da non destare sospetti, come il solito, come se nulla fosse avvenuto. Avrebbe dunque dovuto fare ancora almeno una visita in casa Maller e sarebbe stata ben altrimenti imbarazzante che non la prima. All’occasione avrebbe anche dovuto avvicinarsi a Macario per stringergli la mano. Tutte cose da far gelare il sangue.
Il lavoro lo distrasse. Vi era ingolfato fino agli occhi. Sapeva ancora il metodo ma gli mancava la mano, cosí che per procedere con qualche rapidità dovette dare al suo lavoro tutta l’attenzione. Quando verso sera la penna finalmente cominciò a scorrere piú rapidamente, egli provò una specie di riconoscenza per il lavoro meccanico sul quale aveva passato tanto bene quella giornata che già s’era rassegnato a qualificare quale una delle piú brutte della sua vita. Anche cessato di lavorare, si sentiva piú tranquillo che alla mattina. Poteva presentare a Sanneo un enorme pacco di lettere risposte e contava almeno sulla sua riconoscenza.
Infatti Sanneo fu molto cortese con lui. Dovette fargli qualche osservazione sul modo onde era concepita una o l’altra di quelle lettere, ma ragionava con dolcezza e non gridava, interpolando parole di lode alle poche di biasimo. Per qualche istante Alfonso ne fu veramente felice; erano le prime parole buone che udiva alla banca dopo il suo ritorno.
Ma giunto all’aperto, là ove di solito faceva quel piccolo sforzo di volontà per dirigersi verso la biblioteca civica, sentí con terribile evidenza la disgrazia della sua posizione. Quale importanza poteva avere la simpatia di Sanneo in confronto all’odio immenso che doveva essersi scatenato contro di lui piú in alto? Non bastava lavorare molto e con intelligenza per diminuire quell’odio. Disse a se stesso che l’unica via per sottrarsene era dimettersi dal suo posto, ma non sentí cosí. Era quell’odio e quel disprezzo che gli dispiacevano, non il timore delle persecuzioni che gliene sarebbero derivate. Un’altra volta ancora non fu sincero con se stesso e non giunse ad essere perfettamente conscio della vera ragione per cui non abbandonava l’impiego. Non si disse che l’unica sua speranza era di poter attenuare quell’odio e farsi stimare da chi lo disprezzava, ma voleva convincersi che rimaneva da Maller perché ancora non sapeva se quell’odio si sarebbe manifestato e di piú se realmente sussistesse. Forse una sua tacita rinunzia, come voleva farla, poteva bastare per accontentare tutti.
Stava per entrare in casa quando venne chiamato. Era Francesca che lo aveva atteso lungamente in mezzo alla via.
— È da mezz’ora che vi attendo. — Lo aveva chiamato senza muoversi ed ora appena andava a lui col suo passo deciso, senza fretta. — Ho l’incarico da Annetta di dirvi che procuriate di dimenticarla; ella farà altrettanto.
La brevità dell’annunzio era stata certamente premeditata per dargli maggior sorpresa e dolore.
Egli però era preparato a peggio e accolse quasi con gioia chi finalmente veniva a dargli delle spiegazioni.
— Sono rassegnato! — rispose e non trovò altro da dire. Esitò tanto che Francesca si accinse ad allontanarsi ma egli la fermò; era l’unica persona dalla quale potesse sperare di avere esatte notizie sui sentimenti che in casa Maller si nutrivano per lui e, perduta quell’occasione, sapeva che non tanto facilmente ne avrebbe trovata altra di parlare con lei.
— Ma perché, perché? — chiese con voce strozzata. Non era quella la domanda ch’egli avrebbe voluto fare; se non gli fosse sembrato sconveniente, avrebbe chiesto senz’altro che cosa allora si chiedesse da lui.
— Dovete conoscerne la ragione; ve l’ho spiegata per lungo e per largo prima che il fatto avvenisse. — Anche la sua voce aveva tremato ma d’ira. — La vostra partenza somigliava ad una fuga da donna che volesse accalappiarvi, e Annetta ha avuto ragione.
— Ma è morta mia madre! — protestò Alfonso. — Non basta questo a spiegare la mia assenza?
Francesca rimase fredda.
— Voi non sapevate ch’era ammalata quando partiste o me lo avreste detto. Fuggivate le noie della vostra fortuna, o almeno cosí mi sono spiegata io la vostra fuga.
La figurina sempre composta, il volto pallido sempre uguale, ella andava sempre piú adirandosi senza gestire affatto ed egli sentiva l’ira nel suono della voce che già conosceva. Quanto poi gli disse erano cose che soltanto l’ira poteva averla spinta a confessare cosí esplicitamente.
Ella abbandonava il giuoco per perduto. Premise che la sua principale sventura era stata d’imbattersi in gente della specie dei Maller, ma poi era stato Alfonso a decidere della sua sorte.
— A quest’ora sarei moglie di Maller, se non mi fosse capitato fra’ piedi l’imprevisto, voi, un uomo simile al quale spero ne esistano pochi a questo mondo, un imbecille!
Egli già sapeva che Francesca era l’amante di Maller e le rivelazioni di Francesca non gli apportavano che la sorpresa di udirle dalla sua bocca, ma bastò per fargli dimenticare di trarre da costei le notizie che aveva tanto desiderate. Stette a udirla estatico, meravigliato dinanzi a quella donna energica che nella sventura non sentiva che l’ira di non esser riuscita meglio nei suoi scopi.
Ella parlò ancora. Gli raccontò che pochi giorni dopo la sua partenza Annetta aveva riacquistato la calma e che probabilmente s’era rimessa ad influire sul padre contro Francesca. Ella se ne era accorta al mutamento nel contegno di Maller e aveva allora scritto ad Alfonso quella lettera ch’egli subito aveva compreso essere una domanda di aiuto.
— La maggiore consolazione nella mia sventura si è di saper sventurato voi pure.
Lo lasciò con queste parole ed egli non cercò di trattenerla. Sarebbe stato inutile chiederle di qualunque altra cosa che non fosse stata quella che la preoccupava. Come mai avrebbe ella potuto avere il tempo di spiegargli quali intenzioni avessero i Maller in suo riguardo e quale contegno da lui esigessero? Non era venuta con l’intenzione di apportargli conforto o calma; con voluttà s’era incaricata di un’ambasciata di Annetta credendo di addolorarlo e vi aveva aggiunto di suo quanto aveva creduto dovesse rendergliela piú dolorosa.
Eppure questo colloquio gli diede qualche tranquillità. Di tutte le parole di Francesca gli rimaneva soltanto l’impressione delle prime, l’ambasciata di Annetta. Ella mandava a pregarlo di dimenticarla! Dunque voleva che tacesse e nient’altro. Era già quanto bastava per adottare il contegno che da bella prima gli era sembrato il piú naturale e quello che poteva in qualche parte rendergli piú facile la sua posizione. Non si sarebbe curato né di Annetta né di Macario; scomparivano almeno le inquietudini dategli dalle parole di Miceni.
Ritornò in città; provava intenso il desiderio di riflettere ancora. Aveva il sentimento disaggradevole di non avere ancora compreso perfettamente la situazione e gli sembrava che ogni nuova parola che udiva ne mutasse perfettamente la fisonomia.
Nel suo impieguccio egli si trovava bene, — pensava a quella giornata passata tanto aggradevolmente al lavoro — e vi sarebbe rimasto. Se Annetta gli chiedeva il silenzio, certamente Maller stesso non avrebbe voluto altro e si sarebbe guardato dal fare alcun passo che ai terzi potesse rivelare le cause dell’odio che gli portava.
Sarebbe vissuto tranquillo in mezzo a quell’odio. Avrebbe fatto alla banca il suo dovere, ma non dal lavoro avrebbe atteso che quell’odio diminuisse, bensí dal proprio contegno. Si proponeva di contenersi in modo che si terminasse col credere ch’egli tutto avesse dimenticato. Era piú di quanto gli era stato domandato.
Amata non l’aveva giammai; ora la odiava per le inquietudini di cui ella era causa. Se non chiedevano altro da lui che di dimenticarla, li avrebbe accontentati.
Trovò per la via Gustavo che lo salutò.
— Finalmente! Non speravo piú di rivederti. Ci toccarono delle belle durante la tua assenza. Mamma ti ha già raccontato? E poi hai visto papà?
Alfonso lo guardò attentamente per vedere quale impressione avessero prodotto in lui tante sventure. Aveva l’aspetto solito, una sigaretta in bocca, sucido, ma il cappello con civetteria sull’orecchio destro. Soltanto chiedendogli se la madre gli avesse già raccontato dell’abbandono di Gralli ebbe negli occhi un lampo d’ira.
Nel tinello dei Lanucci c’era una tristezza enorme. La tovaglia giallognola, le poche e miserabili stoviglie e tutti quei volti pallidi anemici intorno al tavolo, ne facevano la degna abitazione della miseria sconsolata.
— Maledizione, — mormorò Gustavo, — con tanti musoni anche quel poco che si mangia non si digerisce. — Poi rivoltosi a Alfonso: — Io sarei come al solito, ma al vedere costoro...
Alfonso dal canto suo volle secondarlo nel tentativo di scuotere le due donne dalla loro tristezza inerte.
— Infatti, — disse, — neppur io non capisco perché siate muti.
La signora Lanucci che portava un pezzo di allesso alla bocca lo rimise nel piatto; le ripugnava il cibo. Lucia alzò gli occhi e girò intorno la faccia per farla vedere sorridente e smentire Gustavo, ma il sorriso non le riuscí; scoppiò in pianto, si nascose il volto nella pezzuola e, non bastandole, per sottrarsi agli sguardi di tutti uscí lentamente, singhiozzando con violenza. Inutilmente il vecchio Lanucci le gridò dietro di non muoversi dal tavolo mentre si cenava perché era un disordine ch’egli non voleva tollerare. Il disordine gli dispiaceva specialmente perché egli non poteva moversi; per un’esagerazione della cura prescrittagli dal medico, onde guarire piú presto, quando era alzato, si faceva fasciare le gambe in coperte pesanti.
— È sempre per quella storia di Gralli, — disse la Lanucci con la voce soffocata da lagrime rattenute. — Capirà che una ragazza non può mica sopportare a sangue freddo di esser lasciata a quel modo, senza ragione, perché è certo ch’ella, poveretta, non gliene diede alcuna. Gli voleva bene.
— Avevo offerto di andare a rompere la testa a quell’omiciattolo ma essi me lo proibirono, — gridò Gustavo. Voleva dimostrare che non rimaneva passivo dinanzi alla disgrazia della sorella.
— No! — disse la signora Lanucci, — atti estremi no! Può ancora pentirsi di averla abbandonata, e finché non vi sono state delle brutalità tutto ancora può regolarsi.
Ad Alfonso spiegò, che, quantunque a lei da principio Gralli non fosse piaciuto, doveva ora dividere le speranze di Lucia perché dalla sua tristezza comprendeva che n’era innamorata.
In seguito a proposta del vecchio non ne parlarono piú, ma non parlarono neppure d’altro.
Il Lanucci fu il primo a ritirarsi, e mentre camminava, lentamente, appoggiato al braccio della moglie, si lagnava di varî dolori, ma la sua compagna non li sentiva e impaziente lo costringeva a andare innanzi quando si capiva ch’egli avrebbe voluto fermarsi a prender fiato.
Affaticato prima dal viaggio e poi dal lavoro e dalle agitazioni della giornata, fu una vera felicità per Alfonso potersi stendere nel suo letto. Spense in fretta il lume e si gettò su un fianco respirando profondamente dalla soddisfazione. Sembrava un uomo stanco di godere.
Dopo aver chiesto pulitamente il permesso, entrò Gustavo.
— Già spento il lume? Sei molto stanco?
— Sí! molto!
Lentamente e con sforzo gli disse ch’era stato ammalato e che la malattia lo aveva lasciato molto debole. Credette che Gustavo si fosse allontanato e fu là là per addormentarsi. Invece, molto vicino a lui, Gustavo parlò lungamente senza chiedere sue risposte. Egli comprese quello che gli veniva detto, ma nella sua stanchezza i fatti che gli venivano esposti non lo sorprendevano. Non si agitava neppure pensando alla sua relazione con Annetta che le parole di Gustavo gli richiamavano alla mente.
— Oh! poche parole! — disse Gustavo a bassa voce. Dichiarò che a lui non piaceva affatto quel grande dolore di Lucia per un uomo che non lo meritava. — Qui gatta ci cova! — disse abbassando ancora minacciosamente la voce. — Non è naturale che per l’abbandono di un aborto simile Lucia si rammarichi. — Dichiarò che a lui parlava come ad un fratello. Supponeva che Lucia per troppa fiducia si fosse data a Mario Gralli. — Ma io l’ammazzo, e se anche mi costasse la galera. — Si ripeté a voce piú alta: — Io l’ammazzo se abusò in tale modo della nostra fiducia.
Alfonso aveva compreso, ma l’unico suo desiderio fu che Gustavo al piú presto si allontanasse. Ragionava però ancora e si sentí in dovere di protestare a nome di Lucia.
— Lucia è una ragazza dabbene e tu hai torto, — disse senza sollevare la testa dal guanciale.
— Dabbene? — gridò Gustavo — ma è una ragazza e debole quindi.
Dal tinello si udí un grido e poi il rumore di un pianto affannoso. Alfonso sentí la voce della signora Lanucci dapprima bassa: si capiva che voleva tranquillare Lucia, poi piú alta: chiamava Gustavo. Costui uscí e chiuse dietro di sé la porta. Poi Alfonso li udí discutere accanitamente, una voce cercava di soffocare l’altra mentre li accompagnavano i singhiozzi di Lucia deboli e continui. Questi tutto ad un tratto cessarono e Lucia parlò con voce limpida, scandendo le sillabe, battendo su singole parole: Giurava o prometteva. Tutto ciò non giunse a scuotere Alfonso dal suo torpore; si sentiva tanto debole e tanto indifferente che credette il tutto non fosse altro che suggestione della febbre che di nuovo lo avesse afferrato. Gli parve che un’altra volta ancora si aprisse la porta della sua stanza o che Gustavo lo chiamasse ma a bassa voce, evidentemente soltanto per accertarsi ch’egli dormiva.
Non rispose, incapace di scotersi.
Alfonso si alzò rinfrescato dal sonno. Sapeva ora molto bene che la sera innanzi aveva assistito a una scena reale, ma non ne aveva afferrato i particolari in modo da poter comprendere quale importanza dovesse dare ai dubbi che Gustavo aveva avuto tanta fretta di comunicargli. Certo il suono della voce di Lucia non era stato quello di una colpevole e ad Alfonso bastò per credere nella perfetta sua innocenza. Non appena desto, era stato riafferrato dalle sue preoccupazioni e non poteva rivolgere tutta la sua intelligenza a studiare dei fatti che direttamente non lo riguardavano.
In tinello non trovò che Gustavo il quale a sorsellini beveva il suo caffè.
— Scusa sai se ieri a sera non stetti ad ascoltarti, — gli disse con franchezza, — ero tanto stanco che mi addormentai mentre tu mi parlavi e neppure prima d’addormentarmi non arrivai a comprendere nulla. Che cosa volevi dirmi?
Gustavo alzò gli occhi dalla scodella e gli gettò una occhiata diffidente.
— Tanto meglio, — gli disse, — io ero un po’ brillo e chissà quello che ti dissi.
Non era vero che fosse stato ubbriaco, ma Alfonso non pensò di cercare la ragione per cui gli veniva detta una menzogna. Forse, era l’interpretazione piú benigna, Gustavo mentiva per iscusarsi di aver detto e pensato cose non vere.