< Verona illustrata < Parte prima
Questo testo è incompleto.
Libro settimo
Parte prima - Libro sesto Parte prima - Libro ottavo

DELL’ISTORIA

DI

VERONA




LIBRO SETTIMO


Nostro peso essendo di far ricordanza de’ più notabili fatti in Verona e nel Veronese avvenuti, daremo a questo libro cominciamento con la morie in questa città seguita d’un Imperadore, cioè di Giulio Filippo, succeduto all’ultimo Gordiano. Trovandosi egli qui dopo essere stato sconfitto da Traian Decio, fu ucciso da’ soldati nel sesto anno del suo Imperio, come Aurelio Vittore racconta, e conferma Eutropio: di che giunta la novella a Roma, vi fu ammazzato anche il giovanetto figliuolo, cui si era preso nell’imperatoria dignità per compagno. Dove seguisse il fatto d’arme, niun Antico esprime, benchè seguito a Verona o nel Veronese i moderni lo affermino.

Dove nel libro antecedente si trattò degli edifizj, menzion non si fece delle antiche mura, benchè ne rimangano tuttavia molti pezzi; e ciò perchè in età più bassa furono erette: cioè dopo che le genti barbare presero a invadere, a scorrere e a depredar l’Italia; il che ebbe funesto principio sotto Gallieno, quando indebolito grandemente l’Imperio, come dissipato e fra molti tiranni diviso, non solamente le provincie lacerate furono da più nazioni, ma rimase al lor furore esposta l’Italia stessa. Afferma Eutropio che in tempo di Gallieno e di Valeriano gli Alemanni, devastate le Gallie, penetrarono in Italia, ed i Germani vennero fino a Ravenna: ed afferma Eumenio nel Panegirico di Costanzo, che sotto il Principato di Gallieno perduta la Rezia, e saccheggiato il Norico, l’Italia medesima, signora delle genti, pianse l’eccidio di moltissime sue città (sub Principe Gallieno, ec. Italia ipsa gentium domina, ec.). Leggesi ancora in Zosimo (lib. 1, c. 37) che mentre Gallieno oltra l’Alpi era intento alla guerra co’ Germani, gli Sciti, saccheggiato l’Illirico, entrarono in Italia, e scorsero fino a Roma. Non è pero maraviglia, se volle Gallieno munir questa città di nuove e più forti mura, e corroborarla in oltre con nuova colonia militare, ch’ei v’introdusse. Non si trovano queste notizie negli Scrittori, ma si rilevano da insigne iscrizione (v. Ins. XXXVIII), qual tuttavia sussiste sopra l’antica Porta che si conserva. Pochi anni dopo, come si ha in Aurelio Vittore, Aureliano circondò anche Roma di mura fortissime; e ciò perchè non accadesse mai più quel ch’era avvenuto sotto Gallieno (Vop. quale sub Gallieno evenerat): parole che si leggono per l’appunto anche in Vopisco, e confermano, come Roma stessa, imperando Gallieno, fu posta dalle barbare nazioni in terrore. Il sito e l’importanza di Verona mettea in necessità d’invigilar con molta cura alla sua difesa. Ben mostra la celerità con cui si fece il lavoro, come si era in apprensione di doverne aver ben tosto bisogno; poichè si legge nell’iscrizione, che questi muri de’ Veronesi furon fabricati dal terzo giorno d’aprile [ex die III Non. Apr.], e il dì quattro decembre dell’anno medesimo dedicati, che vuol dir perfezionati e posti in uso. Si riconosce la fretta dall’osservar negli avanzi che qua e là ne rimangono, come non furon già queste mura condotte con l’antica esattezza, nè coll’ordine allora usato degli strati, ma gettato il materiale quasi casualmente e confusamente, impiegati sassi d’ogni sorte, e mattoni e pietre grandissime per lo più state prima in opera. Magnifiche rese con tutto ciò queste mura e l’altezza in alcuni luoghi ancora indicata, e la grossezza ch’eccede tre braccia, e la mole e la qualità di molte pietre altresì, mentre vi si usarono bassirilievi, iscrizioni, cornici, fregi e pezzi di colonne. Non potrebbe immaginarsi la più viva immagine delle mura d’Atene, a tempo di Temistocle, erette, delle quali dice Tucidide, come per fretta v’erano state adoperate le pietre quali si presentavano, e postevi dentro molte colonne e marmi lavorati presi da monumenti (lib. 1: πολλαί τε στῆλαι ἀπὸ σημάτων, καὶ λίθοι εἰργασμένοι); e dice Cornelio Nepote, come furon fatte di tempietti e di sepolcri (in Themist. ex sacellis, sepulcrisque). Qui però si può fare una riflessione: non a’ Barbari, come si crede comunemente, e molte volte nè pure al tempo è da imputare la distruzion delle antichità, ma bensì a noi stessi, che abbiam disfatto il vecchio per fabricare il nuovo. Quinci è, che la maggior parte dell’antiche iscrizioni ci è venuta da villaggi, perchè nelle città il fabricar le consumava. Mostreremo nel Trattato degli Anfiteatri, come molte pietre del nostro si riconoscono in queste mura. Una Costituzione si ha di Leone e Maggioriano, da cui si vede com’era in uso, per valersi de’ materiali anche nelle private case, di distruggere gli edifizj publici, ne’ quali consiste l’ornamento delle città, e per riparar cose piccole, d’abbattere e disfar le grandi (Nov. Mai. tit. 6: ut parvum aliquid reparetur, magna diruuntur) - il che dai detti Imperadori restò severamente proibito. Ma danno deplorabile patirono senza dubbio allora le memorie nostre per la gran quantità di scritte lapide che saranno state gettate ne’ fondamenti. Pochi anni sono sopra trenta se ne scoprirono a Torino nel fondamento d’un piccol tratto della vecchia muraglia, ch’era opera de’ mezzani secoli, gettata a terra per occasione del nuovo ingrandimento e della dilatazion del recinto. Non è da dubitare che presso noi parimente non giaccia sotto quelle mura miseramente sepolta forse la più bella parte dell’Istoria nostra, e quelle notizie forse che con tanta avidità si cercano indarno ne’ libri.

Come la città era da tre parti circonvallata dal fiume, così con le mura si serrò solamente da quella parte che rimaneva aperta e indifesa. Mostrasi nella premessa Pianta il lor sito con punteggiata linea, rilevata dalle reliquie, quali in più luoghi nc rimangono, benchè nascoste, essendo avvenuto di queste mura il medesimo per l’appunto che osservò Dionigi Alicarnasseo (lib. 4: τῷ τείχει τῷ δυσευρέτῳ, ec.) in quelle di Roma, fatte da Servio Tullio, quali dice erano a suo tempo difficili da rinvenire per essere in molti luoghi comprese nelle case. Furono allora coronate di merli e frammezzale di torri; il che si afferma, non perchè rimanga di tali cose vestigio, ma perchè così figurasi Verona nell’Arco di Costantino in Roma, dove fu non lunga età dapoi per contrasegno della vittoria tra l’altre sue imprese effigiata. È credibile che s’inalzassero queste mura nel sito delle anteriori; anzi la Porta, che ne rimane, sembra doversi credere fosse già quivi qualche tempo innanzi. Induce a così credere l’osservare, come essendo le mura frettolosamente, e senza studio o pulitezza alcuna costruite, la Porta alta, magnifica e duplicata, con due ordini di fenestre sopra, per l’eccesso che in più parli ha d’intagli e d’ornamenti, si conosce lavorata con tutto agio. Se si avesse a giudicare dalla maniera dell’architettura, come inferior di molto all’ottima età, così parrebbe non doversi creder quest’opera posteriore a’ tempi di Severo Alessandro. Ma sembra in oltre che nel sito dell’iscrizione altra ne fosse per l’avanti rasa e distrutta per riporvi la presente; essendo che non solamente il fregio pare abbassato, o sia incavato oltra dovere, ma per far luogo a tutte le parole è stato intaccato l’architrave, radendone e spianandone le due fasce superiori, quali si veggono intatte in quello spazio che fra le due porte intermedia. Può da questo dedursi che le mura di cui abbiam parlato, fossero sostituite alle antiche deboli e mal ridotte. Leggesi nell’iscrizione che queste mura de’ Veronesi furon fabricate per comando di Gallieno Augusto, sollecitando Aurelio Marcellino Duce Ducenario, cioè Comandante di due Centurie, con l'assistenza di Giulio Marcellino, l’anno che fur Consoli Valeriano, figliuol dell’Imperadore di tal nome e fratel di Gallieno, la seconda volta, e Lucilio, che da Pollione si dice congiunto di Gallieno: rivien tal anno a quello di nostra salute 265. Insegna quest’iscrizione, come Valeriano nè Augusto era allora, nè Cesare. In essa chiamasi Verona Colonia Augusta Nuova Gallieniana. Dal dirsi nuova e Gallieniana appare che nuovi coloni militari ci mandò Gallieno, secondo l’antico istituto di fortificare con aggiunta di Veterani le colonie che più n’avesser bisogno. E benchè credesse già Cicerone (Phil. 2) non potersi secondo il gius Pontificale condur nuova colonia dove sussistesse la prima con fausti auspizj già condotta, insegnò nell’istesso tempo, nuovi coloni potervisi però condurre. Non ci sovviene di colonia alcuna mentovala più dopo questi tempi, onde ne crediam questa l’ultimo esempio, e toccato a Verona l’onore dell’ultima participazione del sangue Romano. Il titolo d’Augusta, che veggiam dato a Verona in così nobil monumento, non si diede che alle gran città ed alle colonie per alcun Imperadore trasmesse.

Sotto Claudio Gotico succeduto a Gallieno scesero gli Alamanni nel Veronese; ma fattosi loro incontra l’Imperadore con le legioni, non lungi dal lago Benaco diè lor battaglia, e tanto numero ne tagliò a pezzi, che appena la metà ne rimase. Tanto si legge nell’Epitome di Sesto Vittore (haud procul a lacu Benaco dimicans, ec.). Abbiamo in alcuni codici, e così nel Dandolo, che il fatto d’armi seguisse alla selva Lugana; col qual nome un tratto di paese si chiama ancora di là da Peschiera, e benchè al presente tutto sia coltivato, selva diceasi ancora a tempo del Petrarca, come si vede nelle sue Lettere (Ep. Var. lib. 1). Il nome di Lugana fece prender equivoco a chi publicò le Iscrizioni Bresciane (Mem. Bresc. p. 2); per lo che molte ricerche son poi state fatte indarno tra Rivoltela e Peschiera, per una lapida, che non quivi, ma fu già in Lucania, cioè nella Basilicata in Regno di Napoli, come nella Raccolta del Gualterio si può vedere (Sic. Ant. Tab. p. 31).

D’un’insigne famiglia venuta ad accasarsi nel Veronese e d’intorno al lago, fece memoria Vopisco (in Prob. circa Veronam et Benacum, ec. ); e furono i posteri dell’Imperador Probo per sue virtù tanto celebrato. Volendo essi fuggire l’invidia e i tumulti di Roma, scelsero questa deliziosa parte per fissarvi l’abitazion loro e de’ discendenti. A costoro seppero gli Auspici promettere sommi onori, perchè una saetta avea fatto cambiar colore alle vesti in un ritratto di Probo, ch’era nel Veronese (in Veronensi sita).

Imperando Caio, successor di Probo, cose dovettero avvenire nella Venezia che obbligarono a mandarvi un Correttore, Magistrato che allora nelle regioni dell’Italia per motivi particolari e secondo le occasioni spedivasi: il nome suo fu Giuliano. Venne in tal tempo a morte Caro, vittorioso dei Persi presso Ctesifonte; il che inteso dal Correttor nostro, con la forza che la sua dignità e l’amministrazione di questi paesi gli prestava, si fece gridar Imperadore. L’aver lui avuta contraria sorte in un combattimento, lo fa passar fra i Tiranni. Dice Aurelio Vittore, ch’esercitando Giuliano nè Veneti la Correttura, e desiderando, intesa la morte, di Caro, di carpir l’Imperio, al nimico, che s’appressava, si fece incontra (avens eripere. L. arripere); cioè a Carino venuto per l’Illirico in Italia. Abbiamo nell’Epitome del giovane Vittore, come la battaglia e l’uccisione di Sabino Giuliano così egli il chiama, che avea invaso l’Imperio, seguì nei campi Veronesi (in campis Veronensibus); con che vien indicata la nostra aperta campagna: tanto ripeto anche l’Istoria Miscella. Ma assai più ci fanno di costui saper le medaglie che in oro, in argento e in metallo di lui si trovano, e nelle quali chiamasi Marco Aurelio Giuliano Pio Felice Angusto: perchè veggonsi ne’ riversi non solamente la Libertà Publica, e la Felicità de’ tempi, ma la Vittoria d’Augusto, e le Pannonie d’Augusto, cioè superiore e inferiore: d’onde s’impara, com’ebbe prosperità in qualunque combattimento; e il veder ch’ebbe a sua divozione la Pannonia confinante con la Venezia, rende probabile che a lui debbansi veramente riferir le medaglie, e non a quel Giuliano che in tempo di Diocleziano volle altresì farsi Imperadore [V. Tav. 1, num. 1].

L’anonimo Panegirista di Costantino in riguardo alla costui uccisione chiamo Verona macchiata di sangue civile (cap. 8: civili sanguine maculata Verona), donde apparisce ch’ei non lo considerò per Tiranno, nè d’infausta memoria. È osservabile che le sue monete non sono di cattiva e barbara maniera, come quelle de’ Tiranni, ma di buon lavoro, e niente inferiori alle imperatorie migliori di que’ tempi. Da costui è credibile riportasse il nome quel Foro di Giuliano, che abbiam toccato altrove essere stato ne’ nostri monti.

Essendo Imperadori Diocleziano e Massimiano, due leggi segnate del lor nome troviam nel Codice di Giustiniano che furon date in Verona (Com. de succ. I. a. Ad l. Jul. de vi pu. l. 3 ). Esser Massimiano stato in questa città più volle, indicano anche i Panegiristi, dove toccano l’espedizioni sue nella Rezia, e nella Germania alla Rezia prossima. Il verno del 290 e 291 fu passato dall’uno e l’altro Imperadore in Milano la maggior parte, venuto un dalla Gallia, un dalla Pannonia. Per la frequenza del transito e del soggiorno in que’ tempi degl’Imperadori, palazzo a lor destinato era in Milano cd in Aquileia, di che negli antichi Panegirici si fa menzione: è assai credibile che per l’istessa ragione anche in Verona pur fosse.

L’anno 292 furon dagl’Imperadori fatti Cesari Costanzo Cloro e Galerio Massimiano (Vict. Epit. Caesares creavit. De Mort. Per. c. 18 ). Quest’ultimo nell’anno 304, prima di portarsi in Nicomedia a persuader Diocleziano di ceder l’Imperio, per prepararvi l’animo di Massimiano il vecchio, venne a Milano. Nel passar per Verona, ordinò che si ergesse una Porta, qual nella fretta con cui abbiam veduto, eransi poco avanti lubricate le mura, o dovea essersi tralasciata, o esser rimasa imperfetta. Ricavasi questa bella notizia da un’insigne e non più osservata medaglia d’argento che tien la testa di Massimiano Cesare nel diritto, e un recinto di mura con torri e con porta in mezzo nel riverso, e con quattro figure sagrificanti, il qual tipo con iscrizioni diverse e in Diocleziano e in Massimiano e in Costanzo e in Galerio s’incontra: ma singolare si rende la nostra per le parole: Verona. Nuova porta, come da noi s’interpreta, secondo il rito fabricata (nprite cond) [V. Tav. I, num. 2].

Questa medaglia, conservata ora nel nostro Studio per grazia d’un amico cui piacque di privarne il suo, è di sincerità indubitata, essendosene poco fa scoperta un’altra nel famoso Museo Capello in Venezia, dove da cinquant’anni in qua, in tanta copia non più avvertita, si custodiva. L’ispezione dell’una e l’altra scioglie e sventa ogni difficoltà. Chi credesse non poter più in oggi dar fuori medaglia nuova, mostrerebbe di non aver impiegato nella ricerca delle medaglie gran tempo.

Vera cosa è che le città d’Italia nell’alto secolo, generalmente parlando, non battean moneta, parendo che per l’Italia solamente si appigliasse Augusto al consiglio, cui finge Dione (lib. 52: μίτε δὲ νομίσματα, ec.) suggerito da Mecenate, che le città dell’Imperio non avesser monete proprie, ma si valessero delle Romane: era inutile in Italia il far monete in più luoghi, dove tanto immensa quantità se ne coniava in Roma: e non era ancora nelle sue città avanti il dominio Romano tanto in uso dapertutto il coniar monete, com’era in Grecia. Ma vi eran prima i casi straordinarj, imparandosi da Servio (ad. Aen. l. 7), per cagion d’esempio, che Marc’Antonio fece batter moneta in Anagni; e poi siccome moli’altri istituti cominciarono verso la fine del terzo secolo Cristiano a cambiare, così anche questo mutò, essendosi spezialmente preso a battere in Aquileia. La frequenza delle aggressioni che venivan fatte all’Italia da quella parte, rese necessario il tenervi o lo spedirvi truppe di tanto in tanto; onde si trovò opportuno di battervi moneta per maggior comodo del pagar gli eserciti. Ma siccome frontiera all’Alpi si fa anche dalla nostra parte, benchè tante non fosser le genti che prendessero allor questa via, quasi scala però, come abbiam veduto, faceano anche qui l’armate Romane non di rado, e niuna maraviglia dee però farsi, se qualche volta fu per l’istesso motivo battuta anche qui moneta. Non osta il non essersene più vedute, perchè anche di Milano niuna se ne ne vede, e pure attesta Ausonio che ricca Zecca vi era (opulensque Moneta). E chi può in oltre assicurare dove fosser fatte le medaglie che reggiam di quel tempo? poichè le lettere, quali per nomi di città s’interpretano, sono spesso ambigue molto ed incerte, ed alquante se ne trovano ancora che simil nota non hanno alcuna. Quelle che abbiam mentovate di Marc’Aurelio Giuliano, fur coniate nella Venezia sicuramente, e molto è probabile che alcune sien di Verona, dov’ei soggiornava, quando venne Carino a combatterlo: da lui è credibile avesse principio il batter moneta nella Venezia, il che si sarà poi trovato utile e comodo. Ma vedremo nel decorso che di niun’altra città d’Italia tanto si rammenta la Zecca ne’ mezzani secoli, come di questa; e vedremo che quando poi si cominciò ad accomunar questo privilegio, regola dell’altre Zecche fu la Veronese; onde Enrico Imperadore, concedendo l’anno 1049 al Vescovo di Padova il gius di batter moneta in quella città, ordina ch’esser debba secondo il peso della moneta di Verona, come si vede in un diploma dal Sigonio addotto (de Reg. It. l. 8: secundum pondus monetae Veronensis): tutte le quali cose concorrono a render molto probabile ch’anche nelle ultime età Romane qui si battesse.

Che la nostra medaglia non sia finora venuta a mano degli studiosi Antiquarii, non dee recar maraviglia alcuna a chi sa, come delle medaglie del secol basso poco conto si fece per lo passato, talchè solamente a’ dì nostri si son cominciate a ricercare, e ad esaminar con diligenza e con ugual cura delle anteriori. Che abbia epigrafe diversa dall’altre, e non più veduta, cioè il nome di Verona, e la memoria d’una Porta della città qui inalzata, non dee parimente parer punto strano a chi è pratico in questa materia dell’uso de’ tempi, e considera di qual età la medaglia sia. Il P. Banduri, che con utilissima fatica ha posta insieme una general raccolta delle Medaglie da Decio in giù, de’ tempi di Diocleziano e del nostro Galerio Massimiano, oltre alle molte sommamente rare, intorno a cinquanta ne riferisce, che non solamente rarissime, ma chiama singolari, cioè uniche, o quasi uniche: perchè mai dunque tanta maraviglia dovrà farsi, se un’altra ora ne dà fuori? Delle sudette medaglie nota il medesimo Autore intorno a venti volte, inusitata, e non per l’avanti osservata esserne l’iscrizione, e sovente il figurato ancora; per lo che ad una di Massimiano, che porta l’Imperadore a cavallo, e sotto esso una nave col bizzarro motto Virtus Illyrici, fa quest’annotazione (p. 51): niun altro secolo mise fuori tante Iscrizioni Nuove nelle monete. Non è dunque sì strano caso che dell’istesso tempo una iscrizione or si osservi dalle comuni diversa. Ma della diversità e rarità di questa e dell’altre buona ragione si può dedur da Lattanzio, se di lui è il libro delle Morti de’ Persecutori: poichè narra (cap. 7) che Diocleziano andò continuamente fabricando qua e là or Basiliche, or Circhi, ora Arsenali e ora Zecche: per la qual cosa ben si rileva, come Zecche avrà poste dove prima non erano; e non è però maraviglia, s’anche a Verona fu posta, e se la novità de’ luoghi novità partorì di motti. La nostra iscrizione, benchè nuova anch’essa, è però molto più Romana, e molto più accordata con la figura d’altre di que’ tempi. Nudi nomi di città, senza titolo ili Colonia, scritti a disteso nel contorno in Latino, oltre a quel di Roma, ch’è così frequente in ogni tempo, veggonsi in Traiano di Babilonia, in Adriano e in Antonin Pio d’Alessandria, in Massenzio di Cartagine, in Costante di Bologna nel Belgio, di Ticino in tempo di Giustiniano, di Ravenna in tempo di Foca. Memorie degli edifizj son frequentissime nelle medaglie, e il Rite Condita spira sincerità e verità a chiunque sia delle antiche forme imbevuto, e dell’ignoranza de’ falsarii ben inteso.

Rinunziato da Diocleziano e da Massimiano nell’anno 305 l’Imperio per ritirarsi a vita privata, dichiarando nell’istesso tempo Augusti Costanzo Cloro e Galerio, e Cesari per insidiosa machinazione di Galerio medesimo Severo e Massimino, vili persone e quasi ignote, in vece di Costantino c di Massenzio figliuoli di Costanzo e di Massimiano, fu dato l’Occidente a Costanzo, e quinci l’Italia a Severo. Mancato Costanzo di vita, e proclamalo Imperador da’ soldati Costantino, ch’era in Britannia, Massenzio nel 306, avendo dalla sua i soldati Pretoriani, fece sollevar Roma contra Severo, e si fece gridare Augusto. Venne Severo da Milano per combatterlo, ma restò abbandonato, e per fine ucciso: venne anche Galerio in Italia con pensiero di prender Roma; ma quando la vide, nè pur ebbe animo d’assediarla. Dichiarò poi Augusto Licinio in luogo di Severo; con che sei furon nel medesimo tempo gl’Imperadori: Massenzio, Massimiano, che con pretesto d’assistere al figliuolo era tornato in sede, e ben tosto con esso si ruppe; Galeno con Massimino, e Licinio e Costantino; e sarebbero stati sette, se Diocleziano avesse consentito di ripigliar la porpora, come Massimiano l’esortava efficacemente. Massenzio oltre all’Italia s’insignorì dell’Africa: ma nell’anno di Cristo 312 venne Costantino con poderoso esercito contra di lui, da due motivi indotto: l’uno, che entrato questi in pensiero di rimaner solo, meditava di muovergli guerra; l’altro, che gli doleva di sentir lacerata dai crudeli e perversi costumi suoi l’Italia e Roma; di cui, se crediamo a Zonara ed a Cedreno, ebbe ancora una legazione che a ciò lo sollecitava. Entrò in Susa a forza d’armi, ruppe presso Torino un corpo di cavalleria coperta di ferro non solamente gli uomini, ma ancora i cavalli, e fu ricevuto con festa a Milano: ma essendosi Ruricio Pompeiano, il più esperimentato e ’l più famoso de’ capitani di Massenzio, con la maggior parte delle sue milizie fatto forte in Verona (Naz. c. 25: tyrannicorum ducum columen, cc.), ed essendo in essa gran quantità di gente da più parti concorsa a salvarsi, non credè Costantino di dover proseguire la marchia verso Roma, senza prima combatter costui ed espugnar tal città. Prefetto di Verona vien dello Ruricio dal Panegirista, perchè tale era rispetto al presidio e alle milizie dentro raccolte (Anon. c. 8: pertinacissimoque Praefecto, ec.). Mandò egli fin presso Brescia, per incomodar la marchia al nimico, una parte della cavalleria, che arrivando l’armata, fu facilmente fatta retrocedere, e ritirare a Verona: dove giunto Costantino, e riconosciuta la situazione della città, molto premeagli di non poterla, senza passare il fiume, circonvallar d’intorno, e levarle il commerzio col paese di là, donde restava libero l’adito a ricever continuamente viveri e soccorsi: nè piccola impresa era il passar l’Adige in vista de’ nimici, impetuoso e pericoloso allora per sassi e gorghi (An. c. 8: saxis asper, et gurgitibus vorticosus, cc.). Mandò però Costantino una parte dell’esercito più sopra, e lontano dalla città, facendolo passare dove il fiume era men rapido e men difficile, e dove non c’era contrasto; con che ristrinse poi Verona anche dall’altra parte. Fece Ruricio esperimento della sua gente con valida sortita) ma respinto con molta perdita uscì nascosamente della città, e se n’andò per porre insieme maggior numero di soldati; co’ quali ritornando, Costantino senza intermetter l’assedio l’andò a incontrare, e giunti a vista nel cader del giorno, non ricusando Ruricio di combatter subito, seguì battaglia di notte. Avea Costantino disposta l’armata in due grosse linee (Anon. c. 9: aciem instruxeras duplicem, ec.); ma veduto il numero de’ nimici, rinforzò la prima, e spiegò più largamente la fronte. Nel combattimento accorse personalmente in ogni parte più pericolosa, come ogni privato duce avrebbe potuto fare, e riportò finalmente piena vittoria, morto combattendo Ruricio stesso. Soprastettero dopo questo alcun tempo gli assediati, e finalmente a discrezione si resero; il che si raccoglie, perchè non vi seguì uccisione alcuna, ma ordinò Costantino fossero i soldati ristretti in vincoli; e perchè per sì gran quantità di gente non si trovavano, ordinò che delle loro stesse spade manette si facessero e ceppi. Tanto ci narrano di quest’impresa Nazario e l’Anonimo ne’ Panegirici. Questa è la prima e la più antica espugnazion di Verona, della quale notizia ci sia rimasa; e per renderla non solamente memorabile, ma gloriosa, basta il gran nome di Costantino1.

Prima conseguenza di tal vittoria e della presa di Verona si fu il rimaner signore di tutta l’Italia di qua e di là dal Po, e di tutte le sue regioni e città, tra le quali nomina Nazario (cap. 27) distintamente Aquileia e Modana, perchè dovean essere più atte dell’altre a far resistenza. Cosa avvenne però che ha fatto continuar sempre e che fa rinovar d’ognora la memoria di tal fatto, essendone nata una spezie d’epoca che dura negli atti publici tuttavia; cioè il segnar l’Indizione, ch’è un giro di quindici anni, e forma una delle principali note cronologiche, dalla quale tanto sussidio si ritrae per giudicar de’ documenti, e per fissare il preciso tempo de’ fatti storici. Che dalla vittoria di Verona l’Indizione avesse principio, l’ha mostrato il Cardinal Noris nell’Istoria Donatistica da lui abbozzata, come si vedrà fra poco tempo in un di que’ pezzi di essa ch’egli distese, e che son per publicarsi nell’ultimo tomo dell’Opere sue. Incominciata nell’anno 312 la mostrano con certezza il Cronico Pascale, e la prima notazion di essa che si ritrovi, cioè quella del Sinodo Antiocheno dell’anno 341 tenuto nell’Indizione decimaquarta presso S. Atanasio; e così l’altre susseguenti, come si può conoscere per via del computo retrogrado. Da varj altri fatti hanno voluto desumerla molti dotti, ma senza poter accordare il sistema loro, e non tornando il mese, qual senza dubbio fu il settembre. Dalli 24 di esso credeva il Noris che si dovesse prenderne il primo punto, quando l’Istoria de’ Donatisti andava lavorando; ma avrebbe mutato quel luogo se avesse ripigliata per mano e terminata quella sua fatica, mentre nell’Epoche de’ Siromacedoni, che fece dipoi, conobbe doversi prendere dal primo di detto mese. Mostrò egli ancora, come per Indizione debba intendersi nuova ordinazion di tributo più lieve fatta da Costantino, per sollevar l’Italia dalle gravose imposte anteriori. Ma per verità non pare che sia finora stato compreso l’intero di questo fatto; onde un’osservazione ci faremo lecito d’aggiungere, senza la quale non potrebbe mai stabilirsi con sicurezza che in Verona, e dalla presa di essa avesse avuto l’Indizione cominciamento.

Di nuove e smoderate pensioni autori furono, non Massenzio, ma Diocleziano e Massimiano; e non caddero queste sopra l’Italia tutta, ma sopra la nostra Circompadana; e non consisteano in danaro, ma in vettovaglie. Li continui moti delle nazioni barbare, quali o invadevano per le vie dell’Alpi, o minacciavano queste parti, costrinsero gl’Imperadori a tenere armate in questa parte d’Italia, e a dimorarvi essi stessi frequentemente. Quinci nacque, che nuovo peso a queste regioni si addossò, affinchè non mancasse alla Corte e alle milizie la sussistenza. Insegnasi tutto ciò chiaramente per Aurelio Vittore, il quale esposta la ripartizion ne’ due Augusti e ne’ due Cesari per la mole delle guerre stabilita, di qua, dice, venne il gran male dei tributi a una parte dell’Itaglia; e appresso: nuova legge, fu introdotta nelle pensioni, perchè l’esercito e l'Imperadore, che sempre o per lo più vi erano, si potesse sostentare (Hinc parti Italiae invectum tributorum ingens maium.... quo exercitus atque Imperator, qui semper aut maxima parte aderant, ali possent, pensionibus inducta [F. indicta] lex nova). Non dunque all’Italia tutta, come si è creduto finora da tutti, ma a questa parte di essa il nuovo aggravio era stato dato, scemato poi e moderato da Costantino: la qual verità si rende anche più manifesta dall’intendere cosa si esigesse per via dell’Indizione; poichè non moneta, come si è parimente creduto, ma spezie comestibili, e singolarmente grano con essa si ritraeva: il che traluce dal dir Vittore, come serviva la nuova legge, perchè nodrir si potessero in questi paesi gli eserciti e gl’Imperadori; e più dal libro delle Morti de’ Persecutori (c. 7), il quale rammentata l’enormità delle Indizioni sotto Diocleziano, dice che si abbandonarono però per disperazione i campi, e la lor coltura. Contribuzion di biade intendeasi col nome d’Indizione fino a’ tempi di Traiano, come apparisce da Plinio (Paneg. c. 29), e così ne’ posteriori tempi, come da più leggi. Or dovendosi adunque alleviar dal soverchio peso la subalpina Italia, e moderata Indizione imporle, acconciamente il fece Costantino dopo reso con la vittoria Veronese signor di essa: nè con l’Italia tutta e con le provincie tale indulgenza avrebbe potuto usare per aver presa Verona, ma solamente dopo aver vinto Massenzio e conseguita Roma. Or siccome l’uso d’imporre e di regolar le Indizioni di quindici in quindici anni, che può raccogliersi avesse parimente allora principio, si rese poi stabile e comune in ogni parte non solamente dell’Italia, ma dell’Imperio; così venne quinci a desumersi una nota cronologica universale che nel fatto di Verona ha radice.

Siamo già entrati in quel secolo, nel quale il favellar degli Scrittori osservando, e de’ monumenti, del tutto cambiata ci si scuopre la faccia dell’Imperio Romano, trasformato il governo, impiccolite e però moltiplicate le provincie, mutati i nomi, variato l’ordine e il modo, in Italia singolarmente. Riuscirono all’Italia queste novità sommamente ingiuriose e pregiudiziali; conciosiachè venne finalmente allora a ridursi anch’essa in condizion di provincia, divisa in diciassette parti, e mandato a ciascheduna il Governatore, con nome di Consolare, o di Correttore, o di Preside. Quinci è che la provincia del Piceno, la provincia di Toscana, e così dell’altre regioni tutte ne’ Scrittori e ne’ monumenti del quarto secolo spesso s’incontrano. Tal nuovo sistema ci viene unicamente rappresentato nel prezioso documento intitolato Notizia delle dignità dell’Imperio. Ricavasi da questo, come da più provincie, amministrate ognuna dal suo Rettore, si formaron Diocesi. Alle Diocesi soprastavan Vicarj; ed i Vicarj erano immediatamente subordinati ad uno de’ Prefetti del Pretorio. Questi Prefetti, tra quali si ripartiva la suprema cura di tutto l’Imperio, fur quattro; e l’un di essi ebbe sotto di l’Italia e l’Africa. L’Italia fu divisa in due Diocesi, l’una della di Roma da dieci provincie composta, l’altra detta d’Italia, che comprendea l’altro sette: l’una e l’altra col suo Vicario. Alla Diocesi d’Italia restò assegnata la Venezia nostra. Ma siccome nell’accennato libro della Notizia, che dal Pancirolo, suo primo e dottissimo illustratore, fu giudicato de’ tempi di Teodosio il giovane, nulla si ha di quando tal ordine di governo e spezialmente in Italia fosse introdotto, resta ora questo, facendoci prima alquanto indietro, da investigare.

Novità in Italia, come da Sparziano s’impara, cominciò già a introdurre Adriano, quando costituì quattro Consolari Giudici per l’Italia tutta (per omnem Italiani Judices, ec.) Credibil cosa è ch’ei volesse sollevare i popoli delle lontane parti dal disturbo che recar dovea il passare a Roma per alcune cause più gravi e per alcune appellazioni. Fu in tal carica sotto di lui Antonino, che poi gli succedette nell’Imperio. Ma questo non fu stabile provedimento, vedendosi in Capitolino come dismesso. Marc’Aurelio volle in parte rimetterlo, non deputando però uomini Consolari, ma persone di minor riguardo con nome di Giuridici. Costoro avean limitata giurisdizione, poichè notasi di uno, come cosa singolare in una lapida, che fu Giuridico d’ogni somma (Grut. 1090, 13): tanto meno però è da credere avessero autorità nel criminale, onde s’accostassero alla figura di Presidi. Di Quinziano Giuridico per la Puglia abbiam nel Museo grandissimo piedestallo (v. Ins. XXXIX) che giacea prima in un villaggio a tre miglia da Treviso, e gli fu dedicato da alcuni servi suoi. Costui fu de’ tempi di Commodo, come in altra simile iscrizione si riconosce (Gr. 45, 9): era stato Proconsole della provincia Sardegna, perchè la Sardegna non era allora Italia, ma provincia. Un Giuridico per l’Emilia e per la Liguria ci diede il Fabretti (Ins. p. 411)· Questi Giuridici furono aboliti sotto Macrino, perchè volean prendersi maggior autorità della conferita loro da Marc’Aurelio. Tanto si ricava da un passo de’ Frammenti di Dione (Leuncl. p. 898: Δικαιονόμοι οἱ τὴν Ἰταλίαν), che pare a noi doversi render così: i Giuridici, che aniministravan l’Italia, ebbero fine, giudicando sopra il prescritto da Marco. Si tornò però all’ordine che avanti Adriano correa. Malamente ridotta da lui l’Italia in provincia, e continuata in tal condizione, hanno stimato molti, non meno per la deputazione de’ sudetti Giudici, che per aver detto Vittore come gli Ufizj publici e Palatini, e non meno i militari (Epit. in Adr. Officia publica et Palatina, ec.) continuavano fino a suo tempo nella forma per Adriano istituita, mutatine solamente alcuni da Costantino. E poichè la materia del governo de’ Romani non è per anco stata per verità ben presa nè pur dai maggiori Eroi, fino il Cardinal Noris disse, avere Adriano alle Provincie dell’Italia quattro Proconsoli imposti, in luogo de’ quali succedetter poscia i Presidi e i Correttori (Cen. Pis. Diss. i, c. 3). Proconsoli chiamògli disavvedutamente Appiano (Civ. l. i) in Greco nel passo altrove da noi spiegato, dal contesto del quale chiaramente risulta ch’ei volle dir Consolari: dice però quivi Appiano, come tal ordine dopo Adriano si tralasciò, onde non a que’ quattro Giudici successero li diciassette Presidi che si veggono dopo Costantino. Non aver Vittore per ufizj publici, e per dignità Palatine e militari inteso mai della distribuzione delle provincie, nè de’ Presidi loro, è tanto patente, che niente più, così per le sue parole, come per la considerazion generale dello stato d’Italia da Adriano a Costantino. Narra Svetonio, che nuovi Ufizj introdusse anche Augusto (Aug. c. 37: nuova Officia excogitavit) e dichiara appresso, doversi per Ufizj intendere la cura dell’opere publiche, delle vie, dell’acque, del frumento, del Tevere, ed altre dal governo di provincie molto diverse. Il libro de’ Persecutori (c. 7) distingue come due cose l’aver Diocleziano moltiplicati i Presidi, e raddoppiati gli Ufizj: fu inteso per Ufizj da chi comentò quel passo ministri subordinati e minori impieghi.

Ma per vedere in questo punto ben chiaro, e riconoscere quanto s’ingannasse il Panvinio (Imp. Rom.): e dietro lui tant’altri nel creder d’Adriano quella distribuzione dell’Italia, e delle provincie, ch’ei vide in Autore del quarto secolo, basta riflettere alla generalità delle cose e a tutto il complesso delle notizie. Lunga serie potrebbe addursi di passi d’antichi Giurisconsulti e Scrittori, ne’ quali apparisce, come per tutto il terzo secolo Cristiano si continuò a distinguer dalle provincie l’Italia, essendo quelle sotto i Presidi, ma non questa. Scorgesi parimente e ne’ monumenti e ne’ libri, come la division d’Italia in diciassette parti, che veggiam dopo Costantino, non si presenta mai per l’innanzi. Se tu osservi l’Epistole di Plinio il giovane, tu lo vedi passar per affari ora in Toscana, or ne’ Traspadani, cose quivi per interesse suo e degli amici operando, nelle quali senza i Presidi di dette parti non si sarebbe potuto fare: il che sia detto per chi crede anche prima d’Adriano amministrata come provincia l’Italia. Scrive Sparziano che Adriano diminuì alle Provincie la contribuzione dell’oro Coronario, e che all’Italia la donò del tutto. Della medesima imposta scrive Capitolino, che Antonino Pio la pagata per suo motivo agl’Italiani rese tutta, a’ Provinciali per metà (Italicis totum, medium Provincialibus). Di Adriano narra il sudetto Autore, come nell’abolire i debiti, che tanti aveano col Fisco, una regola tenne con le Provincie, un’altra con la città e con l’Italia (in Urbe atque Italia; in Provinciis vero, ec.). Stimò il Salmasio (ad Spart. p. 16) che la distinzione tra’ Romani o sia Italici e Provinciali cessasse per la legge di Caracalla, con cui fu data a tutto l’Imperio la cittadinanza; ma non consistea precisamente nella cittadinanza la differenza dell’Italia dalle provincie, ma bensì nell’esser esente da’ Presidi. A tempo di Severo vedesi in Sifilino Bula ladrone metter verso Brindisi molta gente in armi, e scorrer tutto il paese, per lo che convenne mandar da Roma chi lo mettesse in dovere e lo facesse prigione: se ci fossero stati Presidi, il reprimer costui di essi era ufizio e cura. Quando fu spedito al Senato il grato avviso d’essere in Africa stati eletti imperadori i Gordiani, acciocchè in favor loro fosse mantenuta l’Italia contra l’aborrito Massimino, il medesimo Senato venti Soggetti scelse per ripartir fra essi la cura e la difesa delle Italiche regioni (Capit. ut divideret his Italicas regiones): tanto bastava a far chiaramente conoscere, come in tutta Italia Preside non era alcuno. Di Massimiano collega di Diocleziano dice il libro delle Morti, che tenca l’Italia sede dell’Imperio, e che ricchissime Provincie gli eran soggette (cap. 8: ipsam Imperli sedem). Nell’istessa venuta di Costantino, il quale, come abbiam veduto, prese Susa a forza d’armi, fu accollo in Milano, attraversò con esercito tutta l’Italia circompaduna, e venne ad assediar Verona, non era possibile che rimanessero ignoti all’alto ed innominati i Presidi dell’Alpi Cozie, della Liguria, della Venezia.

Chiarissimo però è che del nuovo sistema dell’Imperio, per quanto riguarda il governo, autore fu Costantino; il che si manifesta ancora, perchè primo piano, e quasi base di esso fu il creare quattro Prefetti del Pretorio, dove prima eran due; ed il subordinare a ciascun di essi una quarta parte dell’Imperio separatamente, dove prima erano senza distinzione e senza assegnazion di paesi; e il rendergli Magistrali civili e di giudicatura, dove prima erano ufizj militari, non solamente comandando le guardie del Palazzo e della città, ma ad essi appartenendo l’arrolare in ogni parte i soldati, e il provedergli, e il castigargli; quale autorità fu trasferita in due Maestri della milizia, uno per l’infanteria, l’altro per la cavalleria. Or di tutto ciò insegna Zosimo ampiamente (l. 2, c. 32: συνετάραξε δὲ καὶ τὰς πάλαι καθεσταμένας άρχὰς, ec.), come primo inventore fu Costantino, dove d’aver però confuse e sconvolte le dignità anticamente costituite lo accusa. Secondo piano della nuova distribuzione fu lo stabilimento delle Diocesi. Si chiamarono nelle buone età con questo nome le divisioni fatte nelle provincie per comodo de’ litiganti con determinar più città, nelle quali a un tratto di paese si tenesse ragione: fuρ deτti Conventi in Latino. Però in ogni provincia Romana più Diocesi erano, onde mentova Cicerone (Fam. lib. 3, ep. 8: Illarum Dioecesium, ec. lib. 13, ep. 67), mentr’era Proconsole, quelle che nella sua provincia Cilicia erano di qua dal Tauro, e le tre staccate dalla provincia Asia, ed al suo governo attribuite: e mentova Strabone il modo Romano di stabilir le Diocesi senza riguardo alla division geografica delle genti (/. ι3: ’έτερον rpir.cv (J(a.τχζχι rà; Atc«-/Ì7eic, ec. ) 5 e nomina Cibira·, come tra le Diocesi più gratuli della provincia Asia: nel Latino mal si spiega Prefetture, perchè la forma del governo Romano 11011 è siala ancora, come avvertimmo, abbastanza compresa, nè messa in chiaro. Allora dunque di più Diocesi si componea una provincia, dove dopo Costantino ili più provincie si compose una Diocesi, e s’intese con questo nome un numero di provincie subordinato a un Vicario. Quindi è, che avanti Costantino Vicarj non trovansi con titolo di Diocesi a lor soggetta, come dopo si trovali sempre, e come di Costantino stesso leggi si hanno direlte a Massimo Vicario d’Oriente, a Verino c a Celso Vicarj d’Africa, a Tiberiano Vicario delle Spagne, a Basso e a Vero Vicarj d’Italia, a Filippo Vicario di Roma. Finalmente Presidi delle diciassette regioni d’Italia nè i libri ci presentano, nè i monumenti, se 11011 dopo Costantino, 0 sotto di lui: chi può dubitar perù che non avessero allora solamente principio, quando le leggi, le lapide, le storie cominciano a farne concordemente menzione? Nè già di rado, ma frequentemente poi tali menzioni s’incontrano j anzi veggonsi nelle leggi di Costantino stesso un Consolar dell’Emilia, tre Correttori della Lucania e de’ Bruzii, un Preside della Corsica, ed uno della Sardegna. Non ha moli’anni, che presso la terra d’Atripalda nel Regno fu scavata un’iscrizione {V. Ins. XL), copia della quale ci fu allora trasmessa, e Γ abbiam qui posla in serie con l’altre, per aversi in essa un de’ primi che in sì falli governi fossero impiegati; siccome quello che da Costantino slesso fallo ascrivere all’ordine de’ Consolari, fu poi Correttóre di Toscana c d’Umbria, e Consolare dell’Emilia, della Liguria e della Campagna. Costui si dice figliuolo di Giulio Rufiniano Oratore, del quale alcuni scritti ci rimangono intórno alle figure rettoriche: l’onor della lapida gli fu fatto dai Decurioni e dal popolo d’Avellino. Da Costantino adunque venne la ripartizion dell’Italia in diciassette parli, e il sottoporle al governo di Consolare, o ili Correttore, o di Preside. Il nome di Consolare, ch’era di maggior dignità, fu preso dai Legati Consolari, che solean mandarsi nelle provincie; quel di Correttore diventò allora titolo di Rettore ordinano; e quel di Preside, ch’era propriamente generale per qualunque governo di provincia Romana, si cominciò ad usar in particolare per grado inferiore agli altri due.

Per isgombrare ogni difficoltà in punto così importante, alcuni avvertimenti è necessario soggiungere. Potrebbesi in primo luogo facilmente prender errore, nell’incontrar Correttori talvolta mandati per l’Italia avanti Costantino. Ma toccammo già, come oltre agli ordinarj Magistrati 1l’aveano i Romani di straordinarj, clic non si creavano e non si spedivano se non per occasioni nate e per motivi particolari, c di questo genere erano prima i Correttori. Il medesimo istituto continua appunto nella Republica Veneta, clic ili moli’ altri usi Romani fu l’unica erede. Quest’avvertenza avrebbe fatto intendere molli passi, e schifata confusion più volle; ma perdi’ altri del nuovo termine non si offenda, il fondamento di così fatta distinzione mostreremo con pochi versi. Menzione espressa ne fa Svetonio, ove dice d’Olto.ic che i comandi, o sia le dignità cd ufizj straordinarj severamente amministrò e sostenne (c. i: Imperia extraordinaria). A tempo di Nerone, essendo in Pozzuolo arrivate fino all’armi le dissensioni tra i Senatori e la plebe, onde al Senato di Roma legazioni ne verniero separate, fu scelto Caio Cassio, perchè andasse a calmar la città, riducendo tutti a dovere ( Tac. Ann. lib. 13). Per ristorare le città d’Asia sotto Tiberio dal terremoto, fu spedito da Roma Aleio dell’ordine Pretorio {Ann. lib. a). Tali Magistrati qualche volta si chiamavano Curatori 3 così nomina Svetonio ( Tit. c. 8) gl’inviati da Tito per riconfortar la Campagna desolata in gran parte da incendio del Vesuvio (Curatores restituendae Campaniae e Consularium nuincro sorte duxit... post coiiflagralionein Vesevi)3 ma l’ordinario titolo era di Correttori. Cicerone, nel difender Balbo, chiama l’avversario per giuoco Correttore ed emendatore della nostra città. Altrove Correttor nostro ed emendatore chiama alfislesso modo Marc’Antonio (Phil. 2): dal che ben traluce, come questa era già parola solenne, ed ufìzio usato per regolar le città, e rimediare a’ disordini de’ paesi. Dice Gioseffo ( Ant. lib. 18, c. ) che il Senato mandò Germanico per correggere tutti gli affari della Siria. Di Adriano disse Sparziano, che nella Bretagna molte cose corresse. Or tanto più proprj e ben adattati erano i rettori nell’Italia, quanto che appunto si mandavano ne’ paesi liberi, ove particolare occorrenza il richiedesse. Perciò in tempo di Traiano iti mandato Massimo nell’Acaia a riordinare lo stalo delle città Ubere, come si legge in lettera a costui diretta (Plin. I. 8, ep. 24 )■ Abbiam da Filostrato, ch’Erode Sofista correggeva le città libere nell’Asia ( otcp-curc)· ed Arriano sopra Epitelio ha in un titolo al Correttore delle città Ubere (lib. 3, c. η: Atef&arjji/): così parla il testo Greco di questi Autori. Per questo è, che quando in Italia speziai bisogno nasceva, vi si soleano mandar Correttóri. Abbiam veduto poc’anzi in tal ufizio Giuliano nella Venezia; e col medesimo fu Tejrico nella Lucania, se crediamo ad Aurelio Vittore; ma ch’ci· iti Correttore di tutta Italia, dichiaratamente scrive Pollionc. Clic le regioni Italiche non avesser Presidi in quel tempo, questi stessi Correttori dimostrano; poiché dei pochi che si veggono nelle iscrizioni, Postumio Tiziano fu Correttore dell’Italia traspadana (Grut. 459,7); Ebo Dionigi il fu dell’una e l’altra Italia (Fab. p. 209: utriusque ilaliae; 269, 4)j bi qual espressione ha fatto assai fantasticar molli, ma dee intendersi traspadana e cispadana; Onoralo, che abbiam nel Gruferò, c Numidio, che abbiam nel Codice di Giustiniano, l’ur Correttori d’Italia assolutamente, e l’istessa dignità ebbe Volusiano per anni otto (log. 3, C. qui bus non ob, ec.; 38, 5). Ecco però, come nè costoro di veruna delle diciassette provincie erano Presidi, sopra tutta Italia, o sopra una gran parte di essa essendo caduta l’ispezion loro 5 nè altri Presidi v’erano allora, perchè in tal caso non ci sarebbe stato di essi bisogno. Abbiam poco fa accennato che in più antica età a cotesti straordinari ufizj nome si dava alle volte di Curatori: Curatore della region Traspadana trovasi però in una lapida del tempo de’ Gordiani [433, 1]2

Non occorre perder tempo nel confutar leggende di bassa età, e documenti falsi o interpolati, che nominali Consolari e Presidi nelle regioni Italiche in ogni secolo3: ma trasandar non si può una famosa iscrizione dal Suaresio data fuori, e dallo Sponio {pag. 177) nelle sue Miscellanee inserita, in cui si legge, come Celio Rufo, ch’ebbe la cura del trionfo di Settimio Severo, era stato Consolare della Campagna e della Puglia due volte, e Correttore della Toscana, e dell’Umbria e del Piceno. Secondo tal iscrizione ri negar converrebbe tutta la fede dell’Istoria, e tutto il complesso delle autorità e delle notizie finora esposte: ma il fatto sta che quell’iscrizione è falsa e adulterina, nè si è mai veduta in pietra, ma fu tratta da un inanuscritto, dal quale trasse le molte legitime Fabretti ancora, ma rifiutò questa, come da lui ben conosciuta per falsa. Molle son le ragioni che per tale la faranno conoscere a chiunque con acutezza di lapidaria critica saprà riguardarla; ma qui, per non deviarci, accenneremo solamente, come basta da se il dirsi di costui ch’era stato allora Preside di regioni Italiche quattro o cinque volte: conciosiachè se tal ordine di governo fosse stato così comune e famigliare in quel tempo, non una ed altra, ma molte e molte ne avremmo di somiglianti; nè di costui unicamente, ma di molt’altri ci sarebbe rimasa memoria in tanta quantità d1 iscrizioni. Consolari e Correttori ordinarj di provincie d’Italia forse in sessanta marmi ci si presentano: nè pur uno di questi anterior si palesa a tempi di Costantino, ma posteriori tutti o sicuramente appaiono, o facilmente si raccolgono. Or perché mai tal meraviglia accaderebbe, se fin da tempi d’Adriano le regioni tutte dell’Italia tra Consolari e Correttori fossero state divise? Egli è infallibile che in tal caso molto maggior numero si avrebbe di lapide a onor de’ Presidi, o con menzion di essi, ne’ dugent’anni avanti Costantino erette, quando l’Italia era più Romana, che nelle basse età a lui posteriori. Finché un’arte critica non si fondi per distinguere le false iscrizioni dalle vere, potranno bensì andar tutto dì crescendo mercantilmente a dismisura i volumi, ma non cresceranno per questo le notizie sincere e pure, nè si svilupperanno da moltissime ambagi gli studj migliori. Sovvienci ora d’altra iscrizione recitata nella Prefazione dell’Almeloven a’ Fasti Consolari, nella quale si ha un Procuratore della Provincia Campagna; il che ripugnerebbe in qualche parte a quanto sopra si è dimostralo: ma quell’ iscrizione è parimente falsa; e non sol quella, ma l’altre venti non meno, quali per sussidio della Cronologia Consolare con Γ autorità del Cupero c del Grevio e del Gudio quivi si registrano, s’è lecito parlar francamente, sono apocrife tutte e supposte, come potrebbe molto agevolmente farsi conoscere, se questo ne fosse il luogo. Nè si pecca già solamente in creder vero il falso, ma ugualmente talvolta in creder falso il vero. Giuseppe Scaligero, per cagion d’esempio, in lettera al Grutero, c nelle Osservazioni al Cronico Eusebiano, tanto si fece belle delle due famose lapide di Pisa, ampiamente illustrale poi dal Cardinal Noris, clic nel gran corpo delle Iscrizioni nè pur tra le spurie stimo bene il Grutero di ammetterle e di registrarle; indubitatamente false un altro Scrittoi’ le asserì a’ giorni nostri (Hard. A’uni. Erod.); 11011 pertanto monumenti 11011 si vider mai più incontaminati c più certi. Cade qui in acconcio di sottrarci al rimprovero die ci potrebbe esser fatto d’avere in quest’istoria tralasciate molte singolari particolarità e notizie die spiccano da iscrizioni per famosi uomini divulgate c applaudite: vale a dire, la Verona Vera del Grutero e del Velscro; il Sere il io Copione co’ Giudicj de’ Veronesi Rimessi presso Appiano, Smezio, Agostini, Grutero, Scaligero, Ruperto, Streinio, Freinsemio, cd altri; i Cimbri Trucidati del P. Mabillonc; i’Ipsitilla Catulliana della giunta a Panvinio, c del Malvasia; il Plinio Autor delle Storie del Cellario; Orcivia Marcella sua moglie, del Panvinio e del Grutero; il Preside della Provincia Traspadana del Grillerò e del Reinesio: il Curatore de _ / gV-Jstrumenti Veronesi, c il Petronio Prefetto di Verona pur del Grutero; il Manisnavio del Reinesio e ilei Tomasini; il Filippo Intelletto del Baronio; il Genio della Giocondità dello Spouio; il Mausoleo del Fabretli; XUstrinà del Grulero e del Fabrctti: XAnfiteatro di Flaminio, le Terme, ΓEdile della Plebe, ed altri frammenti o dal Grutero accettati, e da’ suoi correttori, o in altri volumi addotti. Tutte queste belle cose abbiain noi nel silenzio sepolte, perchè le iscrizioni, dalle quali si ricavano, stimiamo illegitime e false. Dobbiamo avvertire ancora, come di molte sincere e bellissime, ch’ora labbiam qui, non si è fatta in quest’istoria menzione, perchè non sono native nostre, ma d’altri paesi portale.

Ma quanto è falso che avanti Costantino l’accennato sistema di governo si stabilisse, altrettanto è vero che a più cose introdotte sotto di lui fu fatto strada, e in certo modo data l’idea da Diocleziano, il quale non meno dell’Italia c di Roma, che della Cristiana religione si mostrò acerbo nimico. Il divider l’amministrazione in quattro Prefetti sembra un’imitazione della division dell’Imperio fatta poco prima in due Augusti e in due Cesari. Fransi anche per Γ avanti trovati Imperadori clic si aveano eletti nel peso di tanto governo compagni e colleglli; ma 11011 mai chi avesse pazzamente smembrato e fatto in parli l’Imperio, come Diocleziano, clic prima con Massimiano il divise, poi per sò l’Egitto e quanto in Asia possedeano i Romani ritenendo, diede a Galerio Tracia, Dacia, Grecia, Pannonia cd Illirico; a Costanzo Gallic, Spagna, Germania e Inghilterra; e diede a Massimiano Γ Italia e Γ Africa, potendosi sospettare ili lezion falsa, ove il libro do’ Persecutori a lui attribuisce la Spagna. Poco differente fu la prima ripartizione che tra i quattro Prefetti del Pretorio recita Zosimo (lib. i, c. 33). Primo fu altresì Diocleziano a dar l’esempio d’impiccolire i governi e di moltiplicar le provincie; c fu primo a darlo di ciò, che all Imperio e all Italia riuscì sovra ogni altra cosa nocivo c fatale; cioè d’abbandonar Roma del tutto, quale come fonte c centro della podestà, così dovea sempre esserne il domicilio e la sede. Degno del barbaro c vilissimo lignaggio di Diocleziano e di Massimiano fu l’odio che per l’autorità del Senato, c per la libertà e forza dell’infinito popolo concepirono l’uno e l’allro verso Roma, da cui per altro la lor dignità dipendeva. Ma degno di lui fu singolarmente il pensiero di Diocleziano, che fissò a Nicomedia in Bilinia sua residenza, e si mise in capo di renderla a forza di fabriche uguale a Roma (Mor. Per. c. 7: studens urbi Romite coacquare). Queste novità però non si può dire che stabilissero nel governo il sistema dalla sopradetta Notizia espresso; perchè altro fu moltiplicar gl’Impcradori, ed allro il moltiplicare i Prefetti, e il rendergli di militare ufizio civile: nè sotto Diocleziano trovasi che si formasser le Diocesi, c si preponesse ad ogni complesso di provincie un Vicario. Le sue provincie ancora assai arbitrarie e diverse sembra che fossero, mentre dice il libro ile Persecutori che quasi ad ogni città soprastava un Preside allora. Così dell’Italia tra diciassette Governatori riparlila non si trova riscontro ne’ tempi suoi; ma 11011 è da dubitare ch’egli anche di lai novità 11011 gettasse i semi, cd al gran torto di trattar da provincia l’Italia non aprisse con le sue disposizioni la strada.

Ci ammonisce il tempo, eli cui abbiamo in questo libro trattato, d’incominciar a parlare di quanto spetta alla Cristiana religione, e ili principiar a investigare quanto intorno ad essa si può per la città nostra secondo l’ordine de’ tempi raccogliere. Con difficoltà si andò propagando 111 Italia la verità della sua predicazione, perchè come dell’Imperio, così era qui la sede e la maestà della rcligion de’ Gentili; e gl’Imperadori ed i Magistrali 11 eran fieramente nimici; il che nasceva principalmente per la somma diversità dalla rcligion di Roma e di tutti gli altri paesi: Γ istesso motivo fece chiamar da Tullio (prò Flac. c. 28 ) superstizion barbara la religione Giudaica, e credere che mollo aliena esser non dovesse la gravità del nome Romano, e gli antichi istituti, e lo splendore dell’Imperio. Vera cosa è clic pelle relazioni avute da Pilalo propose Tiberio al Senato di onorar Cristo qual Dio, come si ba da Tertulliano; c avere Adriano eretti tempj senza alcun simulacro, con animo di consecrargli a lui, scrive Lampridio; e scrive altresì clic uno volea dedicargliene Severo Alessandro. Ma 11011 per questo, raggio di grazia dee dedursi in costoro, perché voleano mandare a mazzo con le varie superstizioni la rcligion vera, e riporre il Salvator nostro tra i loro Dei. Così volea Elagabalo nel suo tempio Palatino, per ambizione che tutti i riti vi fossero, introdurre anche il Giudaico e il Samaritano e ’l Cristiano (Lampr.). Quanto lungi fosse Adriano dall’intendere il Cristianesimo, appar nella sua epistola riferita da Vopisco (in Satumin.).D’Antonin Pio si ha un rescritto alle ciltà d’Asia, in cui permise la loro religione a’ Cristiani, e di Marc’Aurelio si sa che vieto l’accusargli sotto pena della vita; ma il lor favore 11011 tiro a maggior conseguenza. Alessandro, eli è il primo di cui si noti, come permise a’ popoli generalmente d’esser Cristiani (Lampr. Christianos esse passus est), teneva il simulacro di Cristo con quel d’Àbramo e d’Orfeo; c contra i Pasticcieri, che prctcndeano un luogo del Publico ila’ Cristiani occupalo, giudicò, esser meglio che Iddio vi si venerasse, in qualunque maniera si fosse (melius esse, ut quomoaocumque illic Deus colalur); dove ben si vede, come la sua era una tolleranza, e come ogni religione quasi culto divino metteva in fascio, e minor conto della Cristiana facca, che della Gentile; onde poco gli giovò clic fosse Cristiana Mammea sua madre, come Eusebio ed Orosio affermano. Finalmente primo tra gl’Imperadori ad abbracciar la rcligion nostra, ma senza clic perciò mollo benefizio a lei ne tornasse, credon molti fosse quello di cui abbiami notato, che morì in Verona, cioè Giulio Filippo. Vera cosa è che primo di lutti essere stato Costantino, asseriscono Lattanzio, Sulpizio Severo, Teodoreto, ed altri; ma nacque forse tal grido dall averla lui professala solennemente, e resa trionfante. Forti per verità son le ragioni del Baronio (ad ami. 2.{G), con cui comballe tal opinione, e mostra essersi equivocalo da Filippo Imperadore a Filippo Prefetto Auguslale; tuttavia parve difficile al Tillemont 11 rigettare l’antiche autorità che la proteggono; e sembra a noi, lasciando quelle di San Giovan Crisostomo, di S. Girolamo, di Ruffino c d’Orosio, doversi considerar grandemente quella d’Eusebio, che non avrebbe mai, se non dalla verità costretto, lolla in questo modo o posta in dubbio la gloria d’essere il primo al suo Costantino. Ma quando in Verona venisse la Fede a gettar le prime radici, non è in alcun modo possibile di rilevare: clic vi principiasse però ben tosto, una iscrizione ci persuade, quale abbiam nel Musco, e dalla figura della lapida, dalla bellezza del carattere, dalla purità del dettato si riconosce sicuramente di buona età, e quando gl’istituti Romani fiorivano: ciò non ostante, che da uomo Cristiano fosSe fatta incidere, forte persuasione ci ha sempre inclinato a credere; poiché in essa Lucio Stazio Diodoro scioglie il voto a Dio Grande Eterno per essere staio esaudito nelle sue preci ( v. Ins. XLJ: quod se precibus compotem fecissct) [ V. Tao. /, n. 6]. La forinola in lapida Gentile non mai veduta, e Γ innominato Dio grande ed eterno, aggiunta una bella palma eli’è scolpila sopra d’un lato, e una bella corona d’ulivo clic si vede nell’altro, in vece della patera e del vaso, che soglion vedersi nelle Gentili, ci hanno sempre fatto aver questa pietra in venerazione; mollo ragionevole essendo il credere che a onore del vero Dio, prima che i modi e le costumanze Gentili del tutto si abbandonassero, fosse scolpita, e non di leggieri mostrar polendosi lapida Cristiana più antica.

Il primo illustre fallo Cristiano che in Verona avvenisse, e di cui memoria ci sia cimasa, fu il glorioso Martirio de’ SS. Fermo e Rustico, con la notizia del quale si accoppia quella ancora della santità e del valore di Procolo nostro Vescovo, ch’è il primo di cui per gli Atti di delti Martiri ci sia nolo il preciso tempo in cui resse la nostra Chiesa. Questi Alti furono publicali dal Mombrizio, el11 ebbe alla mano quantità d’antichi e sani codici, e poco fa da noi, presi da due insigni Lczionarii, c con la giunta del racconto della traslazione. Abbiam notalo quivi, come pezzi hanno legitimi, i quali posson credersi derivati in parte da quell’istesso criminal processo che si suol intendere col nome d’Atti Proconsolari, benché per allro d’inserimenti e viziature 11011 manchino, massimamente ne’ miracoli replicati. Nella persecuzione adunque di Diocleziano e di Massimiano fu accusato Fermo, nobil cittadino ch Bergamo, a quest’ultimo che dimorava allora in Milano; il clic può credersi avvenisse nell’anno di Cristo 3o4, avendo rinunziato ambedue l’Imperio solamente nel 3o5, ed essendo probabile non infierisse le persecuzione in Italia, se non dopo la celebrazione fatta in Roma de’ Vicennali. A ritener Fermo mandò Massimiano 1111 Questore con soldati. Essendosi volontariamente lasciato prendere anche Rustico, furon condotti 1 uno e l’altro all’Imperadore, il quale gli fece consegnare ad Anolino suo consigliere, perchè fossero custoditi. La dignità di Consigliere non si annovera nella Notizia dell’Imperio, dove poche se ne veggono delle mere Palatine; ma Consiglici· degli Augusti si ha in una lapida Gruteriana (458, η). Se gli fece poi Massimiano condurre innanzi nel Circo, e tentatigli in vano con tormenti e con lusinghe, furon rimessi in prigione. Gli diede poi e gli lascio in balia d’Anolino medesimo, perchè o gl’inducesse a idolatria, o gli uccidesse. Doveva costui allora per alcuna particelar commissione portarsi con comando nella Venezia. Oppone però il Tillemont a questi Atti, non potersi render ragione dell’aver 1 Imperadore dati i Martiri ad Anolino da condurre per la Venezia: ma la ragione è in pronto dagli Alti stessi, che dicono, come costui gli richiese a Massimiano, e ottenutigli, comando fossero subito condotti a Verona, e quivi tenuti fino al suo arrivo. Il famoso Anfiteatro, che in questa città era, gli fece venire in mente di far con poca spesa puhlico spettacolo, coin’era uso allora ne’ supplizii. Giunsero a Verona in tre giorni, e furon consegnali, secondo si legge negli Alti, a Cancario Milite, ch’era Vicario della Città, cioè luogotenente e comandante del Presidio. Costui però non Cancario, gente non più intesa nelle Romane memorie, ma sarà stato Caio Ancario, nome che si trova in più lapide e in più Scrittori. L’uso antico di scrivere senza distinzioni ha fatto legger male più volte i nomi, attaccando al gentilizio il prenome con una sola lettera espresso. Così Aulo Gcliio passò in Agellio, così Marco Apicio in Mapicio, e Marc’Aurelio in Maurelio. Il nostro Ancario si dico Milite, quasi in modo di dignità: comincio questo nome molto il’antico a suonar non so clic ili nobile e di distinto, poiché si osserva in più Storici 11011 venir così chiamati i soldati delle nazioni, ma solamente i Romani, o clic almeno servivano sotto i vessilli Romani. Milite di Tiberio chiamò se stesso Γ [storico Patcrcolo fatto Prefetto nella cavalleria ( Veli. lib. 11 ).

Arrivò dopo sei giorni Anolino, che fece subito invitar dal banditore il popol Veronese a spettacolo. Ma in quella stessa notte il sanko Vescovo Procolo, il quale nel suo monastero, cioè in luogo appartato e solitario, non lungi dalle mura della città con pochi Cristiani stava nascosto (cum paucis Christianis non longe a muris Civitalis in monasterio suo latibabat), infervoratosi di spirito maggiore nell’orazione, si portò in città, e visitò i Martiri; nel (jual mentre essendo venuti i ministri, il santo Vescovo professandosi Cristiano, fece istanza per esser condotto con essi, e così fu fatto. Giunti davanti ad Anolino, che stava nel tribunale in presenza di tutto il popolo concorso, osservando il vcnerabil vecchio con le mani legate addietro, chiese chi fosse; e udito ch’era 1111 Cristiano spontaneamente offertosi, non volendo far altro sangue, e mosso forse anche dall’età, ordinò che fosse rilasciato, affermando che delirava per la vecchiezza. I ministri però percolendolo di schiaffi, lo cacciarono dalla città, ritornando lui a’ suoi tutto atllillo del 11011 aver conseguito il bramato martirio. Ma Fermo e Rustico eccitali in vano a sagrificare, furono rotolali sopra acuii rottami, indi minacciati col fuoco; il che riuscito per divina grazia senza lor danno, e gridando il popolo contra ili loro, quasi fossero maliardi ed incantatori, ordinò Anolino fossero tratti fuor delle mura, e percossi a morte con bastoni, si tagliasse loro la Lesta. Così fu eseguito su la riva dell’Adige il dì nove agosto. Fecesi poi Anolino portar le scritture ile’ Cristiani, e tutti gli Alti, cioè i processi de’ Martiri anteriori, che potè avere, e gli lece abbruciare, dicendo clic da quelli veniva il cader gli altri nell’istesso errore, e Yesser venerati i lor sepolcri più de’ tempj degli Dei. Forse perirono allora gli Atti di quaranta Martiri, de’ quali si è fatta un tempo memoria dal Clero Veronese, e menzion se ne vede in Autore anonimo de’ tempi ili Pipino. Aggiungesi negli Atti, che stando i corpi di Fermo e Rustico insepolti, perchè lòssero dalle bestie consumati, c facendovi la notte Ancario convertito veglia e custodia, insieme con due lor parenti venuti di Bergamo, alcuni Cristiani, che si dieean mercanti, vennero a prendergli, e involtigli nobilmente, gli posero in una barca, e via gli condussero. Segue ne’ manuscritti nostri la Storia di questi corpi, da ignoto e diverso Autore soggiunta, e si legge in essa, come fossero poi riportati a Verona, di che parleremo a suo tempo. 11 Martirologio del Fiorentini mette questi Santi in Oriente, perchè in quelle parli saranno stali allor portati, e venerati i lor corpi.

Tornando al nostro Vescovo, i dotti Padri Bollandisti su la lede di moderni Autori adducono che facesse gran viaggi in Oriente, e ne’ Luoghi Santi, e in Pannonia; ma di questo nè si ha fondamento, nè sarebbe ciò stato conveniente alla sua vecchiaia, nò all’uffizio suo di Pastore, e tanto meno in tempi così bisognosi d’assistenza. Non dovea però da questo lasciarsi indurre il Tillemont a riguardar ili poco buon occhio i nostri Atti; e nè pure dall’essersi Procolo dichiarato da se Cristiano, e volontariamente fatto prendere, il che non era veramente nè di precetto nè d’uso, ma operava molle volte nell’anime sante straordinario spirito e speziale impulso. Non è parimente incredibil punto, nò senza esempio, che un giudice non volesse far inquisizione sopra uomo non accusato, e credendolo o mostrando ili crederlo rimbambito per la vecchiezza, da se il cacciasse. Ben improbabil sarebbe tal fatto, se l’Imperadore fosse stato presente, o se ad Anolino fosse stalo noto che Procolo era Vescovo, come il soprannominato dottissimo Autore obietta; ma di tutto ciò niun cenno si trova negli Alli. Nel sotterraneo della chiesa di S. Procolo conservasi tuttora antica lapida di marmo Greco, da cui il suo corpo, insieme con reliquie de’ santi Martiri Cosmo e Damiano e di S. Martino, assai tempo dopo sua morte fu ricoperto (v. Ins. XLI1 ). L’insigne iscrizione principia con due imperfetti versi, che fanno intendere, come invecchiò presto il santo Vescovo sopra la terra, ma viverà in perpetuo nel ciclo. Quando si tratterà delle Antichità Cristiane che in Verona abbiamo, congettura proporremo del luogo nel quale par verisimile che il nascondiglio fosse, ove co pochi fedeli dicesi negli Atti eli ci dimorava.

Km* DELLA P. I, $BZ. t 
  1. Nell’Arco di Costantino a Roma si vede la città assalita e difesa.
  2. Marni. Pisaur. p. 3*aG. Avvedi die il marmo dice IVR, non CVR; c con questo impara la correzione.
  3. V. nel P, Lupi, p. 120, un Legato Augusti PP. Hegiunis Transpadana* in tempo di Traiano.
Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.