< Versione dell'Iliade d'Omero (Maffei)
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Omero - Versione dell’Iliade d’Omero (Antichità)
Traduzione dal greco di Scipione Maffei (XVIII secolo)
Canto primo
Versione dell'Iliade d'Omero (Maffei) Canto secondo

CANTO PRIMO

     Canta lo sdegno del Peliade Achille,
o diva, atroce sdegno che infiniti
produsse affanni a’ greci e molte ancora
anzi tempo a Plutone anime forti
5mandò d’eroi e d’essi pasto ai cani
fece e agli augelli; ma cosí di Giove
adempieasi il voler, per cui da prima
venner fra sé a contrasto Atride il sommo
rege e ’l divino Achille. Or qual de’ numi
10trassegli a l’aspra lite? Il di Latona
figlio e di Giove: ei fu che, d’ira ardendo
contra del re, malor destò mortale
ne l’oste, onde perian le turbe, a Crise
il sacerdote perché oltraggio ei fece.
15Questi a le navi degli achivi alate
per liberar venne la figlia, e immenso
seco riscatto avea, portando in mano
d’Apollo arciero la corona e insieme
l’aurato scettro. I greci tutti e i due
20pregava piú che altrui del popol duci:
— Atridi e voi ben gambierati achei,
dianvi pure gli dii, che ne’ celesti
alberghi sono, d’espugnar la reggia
di Priamo altera ed a le patrie vostre

25felicemente di tornar; la cara
rendere a me figlia vi piaccia e il prezzo
non ricusare, onor facendo al figlio
di Giove il lungi saettante Apollo. —
Qui gli altri favorian tutti, parlando
30il sacerdote rispettare e i doni
prender doversi egregi; ma non piacque
giá questo a Agamennon, che bruscamente
anzi cacciollo ed aspri detti aggiunse:
— Ch’io non ti colga, o vecchio, a queste navi
35per tardar ora o per ritornar da poi,
ché non per certo gioveranti punto
né la sacra ghirlanda, né lo scettro.
Costei non scioglierò, pria che vecchiezza
lungi dai lari suoi la prenda in Argo,
40mentre stará ne’ nostri alberghi oprando
tele ed avendo del mio letto cura.
Ma vanne e piú non m’irritar, se sano
di girten brami. — Cosi disse, e il vecchio
paventò forte ed ubbidi, prendendo
45lungo il lido del mar romoreggiante
tacito e afflitto; ma poiché discosto
alquanto fu, molto a imprecar si mise,
al di Latona benchiomata figlio
Apollo re caldi volgendo prieghi.
50 — O da l’arco d’argento, o tu che Crisa
difendi e Cilla e Tenedo e che il nome
di Sminteo porti, odi il mio dir: se mai
ornando il tempio tuo grato ti fui,
se mai di tori e capre i pingui lombi
55t’arsi e t’offersi, questo sol desire
m’adempí: paghin con le tue saette
gl’inesorabil greci il pianto mio. —
Cosi pregava, e Febo udiHo e d’ira
acceso scese da l’eteree cime,
60l’arco avendo in sugli omeri e la intorno

chiusa faretra. Mentre si movea,
si udian le frecce tintinnar, ma egli
sen giá qual ombra occulto e dirimpetto
a le navi s’assise; indi uno strale
65scoccò, ronzando orribilmente l’arco
argentato. Di mira avanti ogni altro
prese i giumenti e gli oziosi cani;
ma di poi contra gli uomini vibrando,
il mortifero strai spinse, onde molte
70avvampavano ognor pire ferali.
Volar per nove di sopra l’armata
le celesti saette, e al fine Achille
chiamò il popol nel decimo a consiglio,
ché glielo pose in cor la bianchibraccia
75diva Giunone, cui de’ greci increbbe
che osservava perir. Poiché venuti
furono e in un raccolti, in vèr di loro
parlò rizzato in pié il veloce Achille:
— Atride, or noi di nuovo errando io stimo
80dovere addietro ritornar, se pure
fuggir morte saprem, giá che la guerra
e combatte la peste a un tempo i greci.
Su via però qualche indovino o almeno
sacerdote s’interroghi e fors’anco
85interprete di sogni (ché da Giove
anche il sogno procede), il qual ci dica
perché mai tanto in sen raccolga sdegno
Febo Apollo, se preci o tralasciate
ecatombe l’inasprino e se forse
90d’agnelli e capre scelte odore e fumo
placare il possa, onde cotanto danno
da noi discacci. — Cosi detto, Achille
si ripose a seder. Levossi allora
il buon figlio di Testore Calcante,
95il piú insigne tra gli áuguri ed a cui
il presente il passato ed il futuro

noto era, ed avea, per l’indovina
virtú di cui dono gli fece Apollo,
le navi degli achei guidate a Troia,
100Questi lor saggiamente a parlar prese:
— O Achille, ordini tu di Giove amico
che del saettator Febo io l’atroce
ira discuopra? Ecco il farò, ma prima
in mia pronta difesa e con la voce
105e col braccio vegliar prometti e giura,
perché colui dolor n’avrá che sopra
gli argivi tutti impera e lor dá legge;
e allor che un grande col minor s’adira
benché quel di sua rabbia celi, in petto
110pur la ritien di poi, perfin che un giorno
la sfoghi. Or di’, se mi farai sicuro. —
Cui disse rispondendo il ratto Achille:
— Punto non dubitar; sicuramente
di’ quanto sai, ché non per Febo a Giove
115caro e per cui valor vaticinante
ti mostri, finch’io spiro e veggo, offesa
uom giá mai ti fará, né chi le mani
osi pór sopra te ritroverassi
fra tutti i greci mai, non se lo stesso
120Agamennone intendi il qual suprema
ne l’esercito tiensi aver possanza. —
Prese allor cuore il buon profeta e disse:
— Né per voti ci accusa il dio negletti,
né per piacer di sacrifici; ei duolsi
125del vilipeso sacerdote a cui
render non volle Agamennon la figlia,
né il riscatto accettar. Perciò tai mali
vibrò l’arciero e vibrerá, né prima
da la peste il vedrem ritrar la mano
130che l’occhinegra al genitor fanciulla
senz’alcun prezzo non si renda e a Crisa
non si mandi ecatombe; allora forse

l’espugnerem placandolo. — Si assise
dopo questo, ed in pié tosto levossi
135l’altro signor Atride eroe, nel cuore
attristato e con mente per grand’ira
ottenebrata. Avea sembianti a fiamma
ardente le pupille, e pria Calcante
torvamente guatò, poi così disse:
140 — Dei malanni indovin, cosa che in grado
si fosse a me tu non dicesti ancora.
Sommo è a te sempre il predir guai diletto,
né buon presagio mai fatto o adempiuto
fu mai per te. Or declamando i greci
145oracoleggi, quasi tante Apollo
ci mandi angosce sol perché il riscatto
di Criseide i’ non volli, assai bramando
presso me averla, a Clitennestra mia
giá destinata e uguale a lei per certo
150d’indole, di sembianze e per lavori.
Ma non pertanto, se pur darla è il meglio,
darla i’ non niego; preservarsi io voglio
il popol, non perir; ma voi fra tanto
apprestatemi tosto altro compenso,
155ché senza parte ne la preda io solo
restar non vo’, né che ci resti è onesto:
il mio premio sen va, ben lo scorgete. —
Riprese allora il piévalente Achille:
— Supremo Atride, sovra ogn’altro sempre
160avidissimo, e come or nuovo i greci
premio daranti? Di ragion comune
esserci cose non sappiam riposte,
ma quanto in piú cittá predossi tanto
si divise, né giusto ora è per certo
165di far che ognun tutto ritorni in massa.
Costei però tu di presente al nume
coftcedi, ché da poi, se Giove mai
di debellar la benmurata Troia

ci dará, ben tre volte e quattro il danno
170di compensare a te fia nostra cura. —
Replicò il re Agamennone: — Non crederti,
benché si bravo, o a’ dèi conforme Achille,
con questo tuo bel modo a voglia tua
d’aggirarmi; l’intento non avrai
175né persuader mi lascerò. Vuoi dunque
per ritenerti tu la tua mercede,
spogliar me de la mia? Tu giá comandi
che colei per me rendasi; farollo,
s’altro che sia daranno a me gli achei
180di mio eguale piacer, di pregio eguale;
ma se noi danno, io prenderolmi, io stesso
o il tuo premio o d’Aiace o quel d’Ulisse
verrò a tórmi, ed allora poi dorrassi
quegli a cui me ne andrò. Ma di cotesto
185parleremo altra fiata; or negra pure
gettiamo nave in mar e i remiganti
collochiamvi raccolti ed ecatombe
vi si metta e Criseide istessa poi
guancifiorita ascendavi; de’ capi
190o l’uno o l’altro, o Aiace, o Idomeneo,
o ’l saggio Ulisse, o tu che sopra tutti
terribil sei, Pelide, a la condotta
presieda e il nume a noi lungivibrante
benigno al fin sacrificando renda. —
     195Bieco mirollo allora Achille e disse:
— O d’impudenza armato e di volpina
mente! Or come tra noi trovasi mai,
per compiacere a te, chi negli aguati
o ne le zuffe oprar la man consenta?
200Impercioché per li troiani io certo
qua non men venni a guerreggiar, ché in nulla
m’offeser mai, né a me cavalli o armenti
carpirono, né in Ftia pingue, ubertosa
toccaron frutto, mentre molti e molti

205framezzan monti ombriferi e mugghiante
pelago; ma te sol tutti, te solo,
o sfrontato, seguiam per farti lieto
con punire i troian, di Menelao
in grazia e di te ancor, ceffo di cane,
210che non ci hai punto di rispetto e il premio,
che a me diedero i greci e per cui molto
sudai, minacci di rapirmi. In vero
uguale al tuo premio io non ho giá mai,
se ostil cittá di popol piena accade
215di depredar; ben la mia man d’ogn’aspra
mischia gran parte fa, ma se a le parti
viensi, molto maggior ti tocca ed io
con picciol premio, se ben caro, ai legni
soglio tornar di battagliar giá stanco.
220Ora io men vado a Ftia, ché meglio è molto
con le rostrate barche a le sue case
girsen, che stando qui con poco onore
le mie lasciarti dissipar sostanze. —
     Replicò il re Agamennon: — Fuggi pure
225se voglia n’hai; perché, rimanga al certo,
prieghi io non ti farò, che onor mi faccia
non però è per mancare, e sopra tutti,
Giove. Fra tutti i re non ho il piú avverso
di te, poiché contrasti e liti e risse
230t’è caro ognor di suscitar. Se forte
di molto sei, dal ciel tal dono avesti;
va non per tanto co’ compagni tuoi
e con tue navi; a’ mirmidoni impera,
ch’io né curo di te, né di tuo sdegno
235fo caso. Anzi odi omai: giá che il dio Apollo
toglie Criseida a me, qual con mia nave
e con mia gente or or spedisco, io stesso
n’andrò a la tenda e il premio tuo, la bella
Briseide prenderò, perché t’avvegga
240quant’io di te maggior mi sia, né altri

si trovi piú ch’osi agguagliarsi e meco
venire in paragon. — Cosi egli disse,
e dolor feri Achille e ne l’irsuto
petto gli stette ambiguo il cor, dal fianco
245se traendo omai fuor l’acuta spada
gli altri sgombrasse e trafiggesse Atride,
o se l’ira vincesse ed affrenasse
il suo desir. Mentre ciò volge in mente,
sguainava giá il ferro; ma vi accorse
250dal ciel Minerva, cui premise innanzi
la candida Giunon ch’ambo di core
amava e d’ambo cura avea. Si pose
dietro d’Achille e per la bionda chioma
il prese, da lui sol veduta e nulla
255 veggendo gli altri. Ebbe spavento Achille,
e rivolto, la dèa d’Atene a un tratto
riconobbe, cui splendidi fiermente
folgoreggiavan gli occhi. Allor nomolla
e disse: — O de l’Egioco Giove figlia,
260perché vieni? A mirar forse gli oltraggi
che Atride fa? Ma giá il ti dico (e certo
cosi avverrá) per la superbia sua
l’alma ei ci lascierá ben tosto. — A lui
l’occhiazzurra Minerva: — Io fin dal cielo
265per sedar l’ira tua, se m’avrai fede,
qua men venni e la candida Giunone
mi premise, ch’ambo ama e d’ambo ha cura.
Or t’arresta, né al ferro aspro dar mano,
ma parole di’ pur villaneggianti
270quante t’incontra. E ti vo’dire e tanto
avverarsi vedrai: superbi doni
ti verranno a tre doppi un di per questa
offesa, ma or trattienti e d’ubbidire
non ricusa. — Soggiunse allora Achille:
275 — Vostri detti osservar conviensi, o Dèa;
e bench’io sia forte crucciato, il meglio

questo pur è, ché di colui che pronto
mostrasi al lor piacere odono i numi
le preci. — Disse e, su l’argenteo pomo
la grave man tenendo, addentro spinse
280il gran ferro, né fu di Palla ai detti
restio. Sali di nuovo essa a l’Olimpo
di Giove egidarmato e d’altri dèi
negli alberghi. Ma Achille ancor da l’ira
non cessava e oltraggiò di nuovo Atride:
     285 — Pien di vin, cor di cervo, occhi di cane,
tu né vestir l’usbergo e gir con gli altri
in battaglia giá mai, né a perigliose
portarti insidie co’ migliori osasti.
Questo a te par sicura morte; meglio
290di molto al certo è ne l’armata starsi
e a chi si opponga al tuo voler suoi premi
rapir. Divorator del popol sei,
perché su gente vil regni; per altro
l’ultima or certo avresti ingiuria fatta.
295Ma io ti dico — (ed altamente il giuro
per questo scettro che mai rami e frondi
non metterá, mentre lasciò ne’ monti
il tronco, e verdeggiar piú non vedrassi,
poiché di scorza fu spogliato e i greci
300giudici in mano il portano e coloro
che da Giove han le leggi in guardia; questo
gran giuramento per te sia): — disio,
disio d’Achille verrá certo un giorno
a’ greci tutti e lor soccorso in vano
305di portar bramerai misero, allora
che folti sotto l’omicida destra
d’Ettore andranno a terra, e interno duolo
ti roderá di non aver, piú saggio,
al miglior degli achei prestato onore. —
     310Cosi parlò di Peleo il figlio e, al suolo
il brocchettato d’or baston gittando,

fosco s’assise. Infuriava Atride
da l’altra parte. Ma invèr essi allora
il dolce parlator Nestore sorse,
315ne’ pilii nato, dicitor facondo,
da la cui lingua piú che mel soavi
scorreano le parole. Erano a lui
due giá d’uomin diversi etá trascorse
nati in Pilo o nodriti e allor su i terzi
320signoreggiava. Or questi ad ambeduo
con saggi sensi a ragionar si mosse:
     — O numi! Alto dolore inver minaccia
la terra argiva, rideran per certo
Priamo e suoi figli, ed i troiani tutti
325sommo nel cuore avran giubilo, queste
se per ventura aspre udiran contese
di voi che per valore e per consiglio
primeggiate. Ma or datemi fede,
ch’ambo di me piú giovin siete ed io
330con maggiori di voi giá tempo usai,
né m’ebber essi in verun modo a vile.
Certo io non vidi, né vedrò giá mai
uomin qual era Céneo e Piritòo
Essadio e Dronce e ’l non minor dei dèi
335Poliferno e Teséo sembiante ai numi.
Vincean quei di valor tutti i mortali;
d’estrema forza e’ furo e con montane
d’estrema forza fere imprendean pugna
e trafiggeanle arditamente. Io spesso
340a conversar con lor, Pilo lasciando,
fin dal suol apio men venia, poich’essi
stessi così volean, e mia battaglia
secondo mio poter faceva anch’io,
né verun de’ mortali a questa etade
345viventi battagliar con lor potrebbe.
Pur miei consigli udiano e a me parole
prestavan fede; or voi però non meno

la mi prestate, ché prestarla è il meglio.
     Né tu, benché si grande, la donzella
350tórre a costui, ma quel gli lascia omai
premio che i greci a lui dieder; né contro
il re tu, Achille, voler far contrasto,
ché troppo è disugual di re scettrato,
cui dare onor Giove pur volle, il grado.
355E se tu se’ piú forte, a quella dèa
che ti fu madre il dèi; ma piú possente
questi è però, perché a piú gente impera.
Tra il tuo sdegno, Atride, cessa ch’io
di depor l’ira sua pregherò Achille,
360il qual ne l’aspre guerre a tutti i greci
alto è riparo. — Allor pronto rispose
Agamennone re: — Da saggio in vero
tutto dicesti, o vecchio; ma costui
vuol soprastare a tutti gli altri, tutti
365soprafar vuole e dominar su tutti
o a tutti comandare; in che non credo
sia per riuscir, ché se possente in guerra
lo fèr gli eterni numi, aspri per questo
permetton lui di proferire oltraggi? —
     370Ripigliò interrompendo il divo Achille:
— Timido e vil potrei ben esser detto,
se in ogni cosa io ti credessi; e gli altri
ordina pur, ma non giá a me che in questo
d’ubbidirti non penso. Un’altra cosa
375ti dirò e tu in tuo cor fanne conserva:
né teco ora verrò, né con altrui,
per la fanciulla a me giá data e tolta,
a le man; ma di quanto altro mi tengo
in ratta e nera nave a mio dispetto
380non prenderai tu nulla, e in ogni caso
pruòvati, ché imparar così potranno
costoro ancora: giú per l’asta mia
tuo nero sangue correrá ben tosto. —

     Tenzonando in tal modo, ambo levarsi
385e l’assemblea disciolsero a le navi
tenuta. A le sue tende e ai propri legni
con Meneziade se ne gi e co’ suoi
Achille, ma Agamennone spalmata
nave fe’ trarre in mar e venti scelse
390remiganti ed al dio sacra ecatombe
vi pose e vi le’ poi guancifiorita
salir Criseide. Andò per duce il saggio
Ulisse. Ma poiché l’acquose vie
ivan essi solcando, di ben tosto
395purificarsi ordinò a tutti Atride.
II che fecero, e quanto di bruttura
c’era gettaro in mare; indi ad Apollo
sul margin pur de l’infruttifer’onda
ecatombe di capre e tori intere
400offersero: sen giá col fumo al cielo
de le carni l’odor. Tai de Tarmata
eran le cure, ma fra tanto Atride
non obliò sua lite e la di lui
fatta poc’anzi contra Achil minaccia.
405Ma a Taltibio e ad Euribate ordin diede
pronti sergenti e araldi suoi: — D’Achille
itene al padiglione e per man presa
Briseide bella a me guidate, e s’egli
darla negasse io stesso (il che piú duro
410a lui sará) con folta turba io stesso
a prenderla verrò. — Con si feroce
ordine gli spedi. Contra lor voglia,
del mar radendo inseminato il lido,
se n’andaro e a le tende ed a le navi
415giunser de’ Mironidoni e lui non lungi
dal padiglione e da la negra barca
sedente ritrovar. Non rallegrossi
per certo Achille in veggendoli, ed essi
di riverenza e di timor ripieni,

420né favellar né interrogare osando,
ristettero. Il conobbe egli e lor disse:
— Salute araldi, messagger da Giove
e dagli uomini usati; d’appressarvi
non dubitate, ch’io non voi ma Atride
425incolpar debbo, il qual per la donzella
vi manda. Su via, Patroclo bennato,
guida Briseide fuori ed a costoro
dalla a condur; ma innanzi uomini e dèi
e dinanzi al tiranno ambeduo voi
430siatemi testimon, se in avvenire
uopo verrá che il popol da l’orrenda
salvar si debba per mia man ruina.
Colui per certo è fuor di senno e nulla
scorge piú del presente o del futuro,
435né piú pensa al pugnar securi i greci. —
     Si disse, ed ubbidí Patroclo al caro
amico e trasse fuor la guancibella
del padiglion Briseide e da condurre
la diede; vèr le navi essi il cammino
440presero e insiem con loro di mala voglia
la fanciulla sen giá. Ma lagrimando
in disparte da’ suoi, del mar spumante
su la riva, a seder si pose Achille,
e riguardando la brun’onda, stese
445le mani e senza fin la cara madre
supplicò: — Posciaché per durar poco,
o madre mia, mi partoristi, almeno
dovea l’olimpio altitonante Giove
non essermi d’onor parco; ma ora
450né pur d’alcun pago mi volle onore,
ché oltraggiami Agamennone il gran sire
con tormi il premio mio, che a me rapito
ci si tiene. — Cosi dicea piangendo,
e l’ossequiabil genitrice udillo,
455qual presso il vecchio padre ne’ profondi

del pelago si stava. Prontamente
del bianco mar, qual nuvoletta, alzossi
e innanzi al lagrimante assisa alquanto
con mano il carezzò, chiamollo a nome,
460indi gli disse: — Perché piangi, o figlio?
Qual t’assalse dolor? Dillo e nel cuore
noi mi celar, perché il sappiamo entrambi. —
Profondamente sospirando allora
cosi rispose il piéveloce Achille:
465 — Tu il sai; ché dirlo a te cui tutto è noto?
A Tebe, sacra d’Eczion cittade,
n’andaimno e saccheggiatala, le spoglie
qua recammo e tra’ greci a giusta lance
divise fur, scelta Criseide bella
470per Atride. Ma Crise, del saettante
da lungi Apollo sacerdote, ai snelli
de le caterve ferrocinte abeti
per liberar venne la figlia e immenso
seco riscatto avea, portando in mano
475d’Apollo arciero la corona e insieme
l’aurato scettro: i greci tutti e i due
pregava, piú che altrui, del popol duci.
Gli altri allor favorir tutti, parlando
il sacerdote rispettare e i doni
480prendersi doversi egregi; ma non piacque
giá questo a Agamennon, ché bruscamente
anzi cacciollo ed aspri detti aggiunse.
Sdegnato il vecchio se n’andò ed Apollo
sue preghiere esaudí, però ché accetto
485gli era di molto, e orribil contra’ greci
scoccò saetta, ond’ivan folte a terra
le genti ed ampiamente in tutto il campo
volar gli strali. A noi di Febo arciero
spiegò profeta i vaticini, ed io
490esortai primo di placare il nume;
ma infiammò sdegno Atride, onde in pié sorto

vibrò minaccia ch’adempiuta è ancóra;
poiché colei su ratta nave a Crise
mandasi giá per gli occhibruni argivi,
495doni a Febo portando, e questa araldi
preser pur or da la mia tenda e seco,
a me da’ figli degli achei concessa,
menan Briseide giovinetta. Or dunque
reca tu al figlio tuo, se puoi, soccorso;
500vanne in ciel, prega Giove, se pur mai
con la voce e con l’opra a lui giovaste,
ché darti vanto io ben t’udii sovente
nel paterno palagio infra gli eterni
sola a male aver tu sottratto orrendo
505il nubipadre di Saturno figlio,
allorché gli altri dèi, Giunon, Nettuno
e insiem Pallade Atena di catene
stringer voleanlo; ma dai ceppi accorsa
schermo gli festi tu, chiamando in cielo
510il centomani che Briarco dai numi
ed Egeon dagli uomini si noma.
Poiché colui vince di forza il padre
che lieto de l’onor siede appo Giove,
ne paventaro i numi e da’ legami
515s’astennero. Ora dunque a lui da presso,
membrando tutto ciò, siedi e i ginocchi
gli abbraccia se a’ troiani in alcun modo
dar favor consentisse e fino al mare
cacciar gli argivi malmenati, a fine
520che si godano il re loro e il suo danno
lo stesso Agamennon senta, de’ greci
poiché superbo a vile ebbe il piú prode. —
     Tetide lagrimando allor rispose:
— Ahi figlio mio, perché allevaiti a duro
525destin pur nato? Senza pianto e senza
offesa ben veder vorreiti, poi
che breve e corto è il corso tuo; ma ecco

di presta morte e tuiser sopra tutti
tu se’; con tristo io ben ti diedi in luce
530augurio. Or per ciò dire al fulminante
dio sul nevoso io giá mi porto Olimpo,
se persuader potrollo. Tu fra tanto
statti a le navi rapide e tuo sdegno
mantieni e in guerra non gir punto. Giove
535dagli etiopi irreprensibil ieri
su l’Ocean sen gi a convito; i dii
seguirlo tutti: fra due volte sei
giorni a l’Olimpo ei tornerá ed allora
a sua magion bronzifondata andronne
540e prostrerommi e d’espugnarlo io spero.
Ciò detto si parti, lasciandol quivi
per la donzella in cintola gentile
lui tolta a forza pien di rabbia interna.
     Ma Ulisse intanto a Crisa giunse, avendo
545l’offerta seco. A l’entrar nel profondo
porto le vele ripiegare e, ne la
bruna barca ripostele, adattaro
l’alber nel suo ricetto, raccogliendo
prestamente le sarte: innanzi allora
550spinser co’ remi e l’ancore gittaro,
legando a poppa. Uscir gli uomini poi
e le cento sbarcar vittime a Febo;
da la nave poi scese ondivogante
Criseide ancora, ed il prudente Ulisse,
555verso l’altar guidandola, ne fece
cosi dicendo al genitor consegna:
— O Crise, Agamennon re de le genti
per ricondurre a te la figlia e sacra
per immolar ampia ecatombe a Febo
560mandommi, accioché omai placato il Nume
tendasi ch’alte sopra i greci angosce
scagliò. — Ciò detto, in man gli diede (ed egli
tutto lieto accettò) la cara figlia;

quinci il superbo a nobil ara intorno
565sacrificio disposero, a le mani
l’acqua fu data e il sai presero e il farro.
Ma alzando al ciel le mani, fervida Crise
facea preghiera: — Odimi, o tu che l’arco
argenteo tieni e Tenedo proteggi
570e Crisa e Cilla: i voti miei poc’anzi
gradir ti piacque e darmi onor, facendo
di greci danno; ora quest’altro ancora
disio m’appaga: la crudel da loro
peste rimuovi omai. — Cosi pregava,
575ed esaudillo Apollo. Ma fornite
le preci, e il farro e il sai gittato e sparso,
trasser le bestie in prima addietro e tosto
scannaronle, di poi le scorticaro
e partiron le cosce e le coprirò
580di grasso. Doppie fèr cataste e sopra
ponean le carni, su le Iegne il vecchio
ardeale e rosso vin spargea, tenendo
giovani presso lui cinquepuntati
schidoni. Ma poiché abbronzate furo,
585assaggiaron le viscere e de I’altre
parti fèr pezzi e le infilzar ne’ spiedi,
con molta cura le arrostirò e quinci
le trasser. Ma il lavor cessato e il tutto
apprestato, mangiar; né ben partito
590cibo s’ebbe a bramar. Poiché di esso
e insiem di bere pago fu il talento,
garzoni incoronar coppe di vino
ed a tutti le porser, fatto il saggio
co’ bicchier. Ma col canto i giovinetti
595achei tutto quel di gian raddolcendo
il nume ed in bell’inno il lungioprante
risonavano. Il dio godeva udendo.
Quando tramontò il sole e l’ombra venne,
presso le corde, onde la poppa tiensi,

600preser sonno; ma allor che del mattino
figlia ditirosata apparve l’alba,
verso il gran campo acheo mossero ed aure
lor propizie mandò Febo. Inalzaro
l’albero e bianche dispiegar le vele
605sovr’esso, il mezzo ne gonfiava il vento
e ne l’andar del legno l’onda bruna
a la carena gorgogliava intorno.
Suo cammin fe’, le vie del mar correndo,
il ner naviglio, e giunti al campo, in terra
610su l’alta arena tiraronlo e sotto
lunghe trave ci stesero; ma essi
per le tende spargeansi e per le navi.
     Presso i veloci abeti intanto, d’ira
fremente ancor, l’egregio si tenea
615di Peleo figlio piévalente Achille;
né al parlamento che dá lustro a molti,
né in battaglia ir volea, ma si rodeva
internamente, né moveansi e strida
bramava e zuffe. Ma gli eterni dèi,
620giunta che fu la dodicesim’alba,
unitamente, precedendo Giove,
su l’Olimpo n’andár. Del figlio allora
Teti non obliò le brame e fuori
usci de Tonde e matutina ascese
625al vasto cielo ed a l’Olimpo. Il lungi
veggente ritrovò Saturnio scevro
dagli altri, di quel monte eccelso ed ampio
su la piú alta sommitá sedente.
Innanzi a lui s’assise e le ginocchia
630con la sinistra prese e sotto il mento
il vezzeggiò con la destra e pregando
al re così parlò saturnia prole:
     — Giove padre, se mai tra gl’immortali
con la voce e con l’opra util ti fui,
635questa mia brama adempir al figlio mio,

che si breve avrá vita, onor concedi.
Ora Atride il gran re oltraggialo e il premio
suo gli tolse e’l ritien; però all’incontro
onorai tu, sapiente olimpio Giove.
Tanto a’ troiani dá valor che onore
rendere i greci e raddoppiarlo ancora
debbano al figlio mio. — Cosi dicea,
ma non rispose il nubipadre Giove
e muto stette un pezzo. Teti allora,
siccome prese le ginocchia avea,
cosi teneale abbracciate e di nuovo
ripigliò: — Il vero tuo senso mi spiega
e assenti o niega ancor, poiché riguardo
piú non hai, tal ch’io a pien conosca come
tra tutti i dèi la piú spregiata io sia. —
     Con profondo sospir favellò allora
Giove nubiadunante: — Pessim’opra
è questa tua, poiché odiosa a Giuno
mi renderai, la qual con aspri motti
suolmi irritar e giá per sé tra’ numi
riotta ognor, quasi a’ Troiani in guerra
diasi per me favor. Ma tu dá volta,
né differir, talché di te Giunone
non s’avvegga. Eseguir quanto dicesti
sará mia cura ed ecco, accioché fede
tu m’abbia, il capo io muoverò: supremo
è questo mio tra gl’immortali segno,
né rivocabil mai, né mai fallace
o vano è mai quant’io col capo accenno. —
Disse e co’ neri cigli il segno diede
e le chiome si mossero immortali
dal divin capo e ne tremò l’Olimpo.
Dopo tal ragionar si dipartirò;
ne’ profondi del mar dal chiaro cielo
quella saltò, Giove a’ suoi tetti andonne,
e tutti incontra al padre lor rizzarsi

i numi, né verun fermo l’attese,
ma incontrárlo ciascun. Quinci s’assise
egli sul trono; né a Giunon fu occulto,
675ché con la figlia del marino veglio
piéargentea Teti conferir consigli
aveal visto. Però pungenti a lui
tosto lanciò parole: — Or chi di nuovo
machine teco, o fraudolento, ordisce?
680Sempre t’è caro da me lungi occulti
tramar disegni, né tu a me giá mai
ciò che hai nel cor partecipar volesti. —
     Rispose il genitor d’uomini e dèi:
— Giunon, non isperare i miei pensieri
685di saper tutti quanti; ardui saranno
a scoprirsi da te, benché sii moglie.
Ciò che pur lice altrui d’udir, niuno
prima di te saprallo, uomo né dio;
ma ciò che divisar scevro dai numi
690piacerammi né chieder, né far pruova
d’investigar. — La maestosa allora
occhiampia Giunon: — Che parli (disse)
tremendo Giove? Or ben piú non m’inoltro,
né cerco piú; quanto t’aggrada in pace
695raggira, ma assai temo co’ suoi detti
non ti travolga del marino veglio
la figlia Teti piédargento, mentre
matutina a te venne e tue ginocchia
prese e dato le avrai segno, mi penso,
700Achille d’onorar e molta presso
l’argive navi di far strage. — A lei
Giove nubiadunante allor rispose:
— Mirabil diva, tu sospetti sempre
e tutto scuopri; né però sortire
705potrai l’intento, ma al mio cuore avversa
diverrai sempre piú, di che a te forse
danno verrá. Se come di’ sta il fatto,

tal sará il mio piacer; però t’accheta
e cedi al mio voler, ché s’io le invitte
710mani ti pongo intorno, quanti in cielo
son numi accorran pur, non ti varranno. —
     Così parlava e da timor fu presa
la boviocchiuta Giuno, e il cor piegando
sedette e tacque, ma i celesti dèi
715nel palagio divin n’ebber sconforto;
e tra lor cominciò l’insigne mastro
Vulcano a ragionar, dolci rinfreschi
a la bianca Giunon diletta madre
portando: — Trista ed insoffribil certo
720condotta è questa, se pur tal per conto
d’uomin mortali suscitar contesa
vi dá il core e tra i dèi destar tumulto;
non dará piú diletto il gran convito,
se il mal trionfa. Ma la genitrice,
725qual ben da sé l’intende, io pure esorto
al caro padre presentar rinfreschi,
perché di nuovo non contrasti e a noi
turbi il convito; poiché può, se vuole,
il dio folgorator che troppo tutti
730di forza vince, da le nostre sedi
travolgerci. Or però fa con soavi
parole di ammollirlo, ché ben tosto
dolce vèr tutti noi fia che ritorni. —
Dopo ciò alzossi e una rotonda coppa
735pose a sua madre in mano e si le disse:
     — T’accheta, o madre, e benché afflitta soffri,
perch’io sugli occhi miei, se ben si cara,
non ti vegga percossa, ché niuna
col mio dolor porger potreiti aita.
740Ir contra Giove è troppo arduo; altra volta,
che dar soccorso i’ volli, ei per un piede
preso gittommi da l’eterea soglia.
Stetti per aria tutto il di ed in Lenno

al tramontar del sol caddi, ben poco
restandomi ancor fiato: ivi da terra
la sintia gente mi raccolse. — Ei tacque,
e sorrise Giunon candida e prese
sorridendo la coppa. Ma egli agli altri
numi tutti non men, girando a destra,
versava il dolce nettare, attignendo
dal vaso. In molto riso i dèi beati
dieder veggendo nel palagio fatto
Vulcan sergente. Così il giorno intero
fino al cader del sol tenean convito,
né vivanda mancò degna, né ornata
lira cui Febo avea, né parimente
le Muse che a vicenda con soave
voce alternando si facean risposta.
Ma poiché tramontò la chiara luce
del sole, a sua magion ciascun sen giva,
u’ l’ambizoppo inclito nume eretta
con dotto magistero a ognun l’avea.
Al proprio letto, ove posare er’uso,
quando prendealo il dolce sonno, andonne
anche l’olimpio folgorante Giove,
sopra il quale ascendendo egli si giacque
e l’oriseggia accanto a lui Giunone.

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