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Le Torri del Silenzio
I III

Le Torri del Silenzio.


Non è il titolo di un volume di versi decadenti.

The Towers of Silence: è la passeggiata che propone qualunque Cook’s boy di Bombay al viaggiatore incerto sulla sua mèta. La Torre del Silenzio: anzi, le Torri, poichè sono cinque le Dakmas, dove i Parsi espongono i cadaveri agli avvoltoi. Io le credevo un’invenzione di quei romanzi di avventura, già cari alla nostra adolescenza, dove, per gli occhi languidi della figlia di un Marajà, un esploratore giovinetto era narcotizzato a tradimento, avvolto in un lenzuolo ed esposto agli avvoltoi dell’edificio favoloso, ma veniva salvato da un servo fedele e unito a giuste nozze con l'oggetto dei suoi desiderî.

Le Torri esistono invece e sono intatte, come mille anni fa; tutto è intatto in quest’India britanna, tutto è come nei libri e nelle oleografie: danze di bajadere, templi colossali, ciurmerie di fakiri; e guai per chi soffre la ripugnanza dei luoghi comuni, o la nostalgia delle cose inedite; qui il letterato è esposto di continuo al rammarico acuto, al dispetto indefinibile che si prova quando la realtà imita la letteratura; non c’è altra salvezza che uscire dall’albergo senza guida e senza amici, perdersi nella vasta metropoli luminosa dagli edifici a ogive, a terrazze, a verande, a scalee, coronate di fiori e di palme; edifici di uno stile gotico inglese, illeggiadrito dalle esigenze del clima, immuni dal lercio stile liberty che appesta le metropoli europee; edifici che appaiono come tanti castelli della Bella Addormentata e sono invece il Demanio, l’Archivio, il Lazzaretto, il Tribunale, la Posta, ecc. E allora si trova il nuovo nelle piccole cose della strada: il cipay, che si mette sull’attenti se lo richiedete di un’informazione, e ha gli occhi dipinti di azzurro, prolungati sino alle tempia, contro i malefizi degli sconosciuti; lo chauffeur, che porta sotto la visiera di celluloide, disegnato in rosso vivo, il tridente di Wisnu; un tram zeppo di passeggieri indigeni, che siedono invariabilmente sulle calcagna incrociate, così che si ha l’illusione penosa di veder passare carrozzoni elettrici interamente occupati da infelici senza gambe; un ramo di orchidee malefiche, che si protende dalla cancellata di un giardino; due bimbi Indù, che sono venuti alle mani per una latta di sardelle vuota; un santo, che medita, seduto sui gradini del monumento alla Regina Vittoria; i bengalini minuscoli, che nidificano nell’elsa della spada di Re Edoardo....

*

I miei amici di Bombay si adoperano invece per farmi vedere dell’India le cose che si lessero nei libri e che si videro dipinte. Esistono anche queste. Così, per cortesia di Monsieur Lebaut, l’agente famoso del famoso Hagembeck, assisterò, forse, ad una caccia alla tigre; per i buoni offici del dottor Faraglia, il medico italiano notissimo di Bombay, vedrò una danza di bajadere in una famiglia bramina tra le meno accessibili all’europeo. Da tre giorni mi si vuol condurre alle Torri del Silenzio. Ma non muore nessuno.

Quest’oggi Lady Harvet, una signora attempata e bellissima, tutta bianca, vestito, volto, cappello, capelli, con non altro di colorito che gli occhi azzurri, entra esultando nella sala di lettura del Majestic Hôtel: — È morto! — E seguìta dal figlio e dal dottor Faraglia, tutti esultanti: — È morto! È morto, ieri sera, un parsi di qualche importanza, l’architetto Donald-Antesca-Cabisa; i funebri saranno oggi, alle 18: siete fortunato; abbiamo il tempo di fare una gita sull’Esplanade e di salire alla collina di Malabar per assistere alla cerimonia; faremo il lunch nel Tower’s Garden; abbiamo le provviste con noi....

Ed eccoci in auto a tutta corsa, — io che vado così volentieri a piedi, lentamente, gustando in questi primi giorni la gioia di premere la nuova terra, — e la città ci sfugge ai lati come una film svolta troppo vertiginosamente. Ecco l’Esplanade, dove l’ansare delle automobili, lo scalpitìo degli equipaggi, si fonde col vociare di una folla composta di dieci razze diverse e il suono di venti bande militari. È la passeggiata, il Bois de Boulogne di Bombay: interessante, misto, illogico, come un quadro futurista: tutti i veicoli: carrozzelle indigene, tirate da zebu gibbosi, dalle corna dorate, elefanti gualdrappati fino a terra di velluti ricchissimi, dai quali non emergono che i quattro zoccoli enormi, le zanne tronche, la proboscide, gli orecchi agitati di continuo come due ventagli; carrozze dai cavalli candidi precedute da araldi ansanti e vocianti: e dentro è adagiata la moglie, la figlia di un funzionario inglese, e la biondezza della signora, stilizzata secondo l’ultimo figurino europeo, fa uno strano contrasto con la magnificenza esotica ed arcaica dell’equipaggio, con i turbanti e i velluti dei cocchieri, con la nudità bronzata degli araldi. L’auto di un ricco Parsi, l’auto del Vescovo di Bombay, che sorride fra due prelati e benedice con la mano alzata di continuo la folla che s’inchina o s’inginocchia riverente.

In quest’ora di grande animazione, non ostante le rotaie, le automobili, le vesti parigine, la città ricorda Babilonia ed Alessandria, Roma e Bisanzio, i tempi favolosi; dà un senso di ricchezza e di abbondanza; dà un senso d’invidia inevitabile, fanciullesca, di rancore ingiusto, contro questi Inglesi, così forti e così ricchi, padroni di mezza la Terra....

*

I secondi padroni di Bombay, dopo gli Inglesi, sono i Parsi. I Parsi, da non confondersi con gli Indu (io li confondevo addirittura con i Paria: è desolante l’ignoranza di chi muta d’improvviso venti gradi di latitudine senza qualche studio preventivo), da non confondersi con i Maomettani, gli Afgani, dai quali differiscono come un tedesco da un arabo. I Parsi sono i discendenti degli antichi Persiani emigrati dalla Persia in India, dopo la conquista di Maometto. È veramente biblico e grandioso il destino di questi seguaci di Zoroastro, che, per non rinnegare il Sole, loro divinità, abbandonarono, dodici secoli or sono, la patria, giunsero raminghi e perseguitati in India, rifugiandosi prima a Diu; poi a Tabli; trattando con i Marajà per avere un’ospitalità non molestata. Furono, invece, molestatissimi per quasi un millennio, e la loro pace e la loro floridezza non data che dalla conquista degli Inglesi, i quali riconobbero le loro qualità, li incoraggiarono e li protessero. Oggi sono nelle mani dei Parsi i più grandi capitali di Bombay. Dipende dai Parsi gran parte del movimento politico, escono dai Parsi i migliori commercianti e i migliori laureati. Eppure, nessuno è più del Parsi ligio al suo passato, nessuno è meno di lui affetto da anglomania. Molti Indù vanno in tuba e in isparato. I Parsi vestono come mille anni fa, quando vennero profughi da Persepoli; gli uomini con una larga zimarra bianca, sul capo un’alta tiara nera simile ad una mitra (la cosa che più colpisce l’europeo sbarcato da poco); le donne si avvolgono di sete a vivi colori, giallo-zolfo, gridellino, rosso ciliegia, verde-salice, che danno rilievo ai capelli nerissimi e al pallore ambrato del volto. Come alle loro foggie millenarie, così sono ligi alla loro fede e ai loro riti: la dottrina di Zoroastro, ispirata alla religione degli elementi creatori e conservatori, il Sole prima di tutto, e il Fuoco, imagine del Sole sulla Terra. L’Inghilterra, che tollera tutti i riti, tollera anche la Torre del Silenzio e le usanze funebri dei Parsi, che sono certo le meno conciliabili col nostro sentimento occidentale.

*

Si sale lungo il Colle di Malabar; la città si abbassa rapidamente, si offre tutta allo sguardo che la domina e ne gode come si gode di Napoli dall’altura di Posillipo: una Napoli tripla, adagiata tra le montagne del Dekan, il Borg-Hat, il Golfo di Bak-Baj e l’Oceano Indiano; coronata da una vegetazione barbara, inconciliabile col nostro clima, immersa in una luce intollerabile sotto il nostro cielo. L’automobile ascende lungo la strada rossiccia, corre all’ombra dei cocchi, dei baniam: gli alberi dalle radici multiple, ascendenti, discendenti, moltiplicanti i tronchi all’infinito. Si riesce all’aperto, si scende in un giardino lindo, fra grandi ajuole di rose del Bengala. Prendiamo posto sotto una veranda intrecciata di grosse campanule strane, e subito son tolte dall’automobile la tavola portatile, le provviste, che Lady Harvet dispone in un grande vassoio: quei vassoi, che sono la tavolozza gastronomica dell’invidiabile appetito inglese, contenenti venti prodotti di tutti i climi: latte, miele, thè, marmellate indigene ed europee, canditi, sott’aceto, salati, e frutti tropicali.... Spolpo un frutto, un mangustani, che si mangia nella sua corteccia come un sorbetto, mitigando col succo di limone la sua dolcezza troppo aromatica; guardo intorno: il giardino ridente domina tutta Bombay, ma è deturpato dalla Società del Gaz, che ha insediato tra gli alti fusti delle palme-palmira un serbatoio colossale.

— Un gazometro? È la Torre del Silenzio, la maggior Torre; quelle altre sono le Dakmas minori, usate in caso di pestilenza.

La mia delusione è grande. Tower of Silence: il nome shelleyano mi prometteva non quel cilindro imbiancato a calce, ma quanto di più fantastico ha scolpito nella pietra la poesia della morte.

Un vallo senz’acqua circonda la torre e due ponti vi sono sospesi, che dànno ad una porticina ovale, minuscola, unica apertura nella mole bianca. Ed ecco fra il candore dell’edifizio e l’azzurro del cielo un’enorme forma nera e sinistra: il primo avvoltoio; poi un secondo, un terzo; poi sei, sette coronano la Torre, danno al suo squallore un tetro motivo ornamentale. Questi grifoni funerari superano veramente l’orrore di ogni aspettativa; si direbbe che la Natura li abbia foggiati secondo il loro tetro destino; hanno ali immense, possenti al volo, fatte per gli abissi del cielo, ma che nel riposo lasciano pendere lungo il corpo, trascinano nella polvere con una sconcia stanchezza, artigli formidabili, ma senza la linea nobile dell’aquila, artigli fatti per affondare nella carne putrida, non per lottare con la preda viva. E alla base del petto, sopra una collarina di piume fitte, si innesta un altro animale, un tronco di serpente ignudo, gialliccio, grinzoso, dalla testa calva, con un becco oscuro ed occhi dallo sguardo insostenibile, dove s’alterna la ferocia ingorda alla viltà e alla malinconia.

La Dakma si corona di avvoltoi, non più calmi nel loro pensoso atteggiamento consunto, ma frementi, con i colli serpentini protesi verso una cosa nuova. Lungo la strada, a mezza costa della collina, biancheggia tra la polvere fulva e il verde del fogliame, il corteo funerario. E tutto candido: strana usanza opposta alla nostra, che ammanta di veli bianchi il dolore dell’ultimo addio.

— Entreremo anche noi nella Torre? — domando, non senza inquietudine d’una tale proposta.

— Nessuno, nemmeno l’Imperatore, potrebbe penetrarvi; soltanto una speciale setta di necrofori e il dastur accompagnatore, possono entrare.

— Il modello è molto semplice. — E il dottore mi disegna a matita un anfiteatro, diviso in tre circoli concentrici, suddiviso da raggi che formano tante cellette aperte: — Ecco: il cerchio interno, dalle celle minori, è per i bimbi, il mediano per le donne, l’esterno per gli uomini. Questo è il pozzo centrale, dove si raccolgono le ossa ignude, che un acquedotto sotterraneo trasporta al mare. La logica della barbara usanza? E barbara, perchè? Per i Parsi il fuoco è la manifestazione divina, anzi, la divinità stessa, come per il cristiano l’Ostia Consacrata. Rifuggono dunque dall’abbandonare il cadavere al rogo, come fanno gli Indù, per non offendere con la putredine la divinità; rifuggono dall’inumazione, perchè l’Avesta, il loro testo sacro, proibisce di lasciare alla decomposizione lenta della terra quel corpo, che fu l’agente di un’anima. Gli avvoltoi, gli uccelli sacri per rito millenario, sono forse i più adatti ad annientare la misera sostanza morta e a ritornarla nel ciclo vitale....

Ecco il corteo. Forse venti persone, interamente vestite di bianco, con la testa, il volto velati di veli candidi. Quattro portatori recano il cadavere resupino, coperto da un sudario leggiero, sotto il quale traspaiono le spalle aguzze, il profilo fine, le gambe scarne. I seguaci si tengono uniti a due a due con un fazzoletto attorto: il crati funerario, emblema di alleanza nella sventura. Il quadro è molto semplice e molto grandioso, quasi non triste; ricorda certe teorie cimiteriali sculpite nel marmo. Al primo ponte tutto il corteo si arresta, come per intesa, e solo qualche figura bianca segue il cadavere; parenti più consanguinei, la madre, il padre, un fratello. La barella è deposta dinanzi alla porticina aperta; i seguaci sostano pochi secondi dinanzi al cadavere, forse per una preghiera di addio. Di fronte è il dastur, il sacerdote Parsi con due addetti. Non altri, non altro; nessun gemito, nessuna lacrima, nessun gesto tragico; forse anche nella religione dei Parsi, come in quella dei Bramini e dei Buddisti, è cancellato il senso che noi occidentali abbiamo dell’io, e la loro filosofia millenaria attenua lo strazio del distacco senza ritorno. La barella è scomparsa nella porticina, che si è chiusa silenziosa, le ombre candide ritornano a due a due, unite sempre dal lino funerario, si allontanano senza volgersi indietro, come il rito prescrive, dispaiono fra i tronchi dei palmizi.

Ma in alto, nell’aria, è il turbinio fitto, spaventoso delle ombre nere. Dalle profondità dell’azzurro si avvicinano, ingrandiscono, precipitano con la velocità della pietra che cade, i grifoni funerari; sull’azzurro del cielo, sul candore della torre, le ali fosche sembrano attratte e respinte da un turbine avverso, fanno pensare alle grandi ali degli angeli maledetti. Ma nessun grido, nessuna lotta, uno stridìo querulo e sommesso, quasi timoroso di svegliare un dormiente.

Io ho un tremito leggiero, ho l’orrore dello strazio che non vedo.

— .... Un ottimo giovine. Prometteva di farsi un architetto valoroso, aveva vinto il concorso per il palazzo del Museo di Igiene. Suo zio l’avvocato Makalla....

Un architetto, un avvocato: uomini come noi, dunque, che hanno studiato i nostri libri, assimilate le nostre formule e le nostre idee, e le hanno potute conciliare con sentimenti remoti, ripugnanti dal nostro sentire, come quelli del selvaggio più sanguinario. E l’abisso tra uomo e uomo mi appare sempre più terribile ed incolmabile, e il mondo sempre più stridulo e buffo ed assurdo. Buffa ed assurda questa torre, circondata di alti palmizi, alternati alle aste della luce elettrica e del telegrafo, buffi ed assurdi quest’automobile e noi che sostiamo su questo pendìo come dinanzi ad un aereodromo, un ippodromo occidentale....

— .... Nessuno strazio. Il cadavere è finito in venti minuti, — mi spiega il dottor Faraglia, addentando un terzo sandwich, — ed è spolpato con una delicatezza veramente religiosa; lo scheletro resta intatto nella sua cella, composto come se preparato per un gabinetto anatomico. Con un sol colpo di becco il cranio è aperto dove l’osso frontale s’incastra alla nuca....

— Ma il vostro amico non mangia, non beve, — osserva cortesemente Lady Harvet. — Non sopporterete il clima di Bombay se non raddoppierete i vostri pasti.

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