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È bene che il lettore, chiuso questo libro del nostro caro morto Guido Gozzano, indugi un poco prima di giungere ad una conclusione sul suo significato e sul suo valore.
Udrà allora molti suoni fievoli e sordi comporsi in una triste armonia seduttrice; vedrà molte macchie di colore, che parevano buttate a caso, connettersi pei margini e formar quadro. Le tinte, elementari e franche, parevano, finché leggevamo, giustaposte. Il ricordo le modula, così come fa la distanza per certe tele del Segantini o del Previati.
Da principio non si vede altro ordine e legge che quelli della curiosità esotica. Si pensa a un De Amicis meno colto e ardito, a un Barzini meno esperto e potente. L’Italia deve molto a questa strana categoria di scrittori, tutta italiana. Dopo secoli di piè di casa, di provincialismo non senza odore d’aglio, ecco l’Italia nuova e avida di novità, un po’ giapponese per l’ansietà d’avvenire, un po’ americana per il disdegno delle catene tradizionali. V’è già un accenno di futurismo in questo viaggiare per viaggiare, così diverso dai viaggi intimi e psicologici dei romantici, in queste esplorazioni del settentrione e dell’Oriente, delle capitali brumose e dei fronti di battaglia. Sciami di circumnavigatori e di grandi reporters, ritornando in patria, non contribuivano soltanto a introdurvi il whisky and soda e il rasoio automatico; ma anche un certo numero d’impressioni fresche e d’idee elastiche, utili per mettere bene a fuoco l’obbiettivo dell’attenzione nostra; ed anche un certo numero di parole giovani, d’immagini acri, di temerità sintattiche, delle quali la tecnica sperimentale delle nuove scuole poetiche ha fatto un’orgia, ma che daranno qualche buon frutto nella poesia di domani. Lo stesso d’Annunzio dell’inno ad Ermes, il d’Annunzio di Corrado Brando e degli Ulissidi, si ricollega, almeno in parte, a questa tendenza, ch’era già preannunziata nel Carducci innografo della locomotiva.
Il Gozzano del viaggio in India desume le occasioni e i metodi da questa scuola. Ma, dentro di sé, è assai più romantico e sentimentale, con molto maggiori affinità ai viaggiatori sterniani. In India cercava soprattutto se stesso, il se stesso fisico e morale: un po’ di buona salute, un po’ di quiete e d’oblio promessigli dalla dottrina vagamente intravveduta del nirvana, e forse un ampliamento del suo dolce orizzonte canavesano. Cercava anche le farfalle — ch’egli adorava, egli così magro e fragile e occhiuto, egli così simile a una povera farfalla dall’ali bruciate — : le farfalle sotto archi anche più grandi che quello di Tito.
I suoi tentativi d’interessarsi alle cose esterne, quali sono realmente, non mancano: ma scissi, deboli, abbandonati ben presto quasi col gesto pallido e febbrile con cui l’incurabile rifiuta la pozione accostata alle labbra in una velleità di speranza. Né la salsedine può rifabbricargli i polmoni, né le lontananze esotiche possono nutrirgli l’anima che ha ormai compiuto il suo ciclo e si consuma in sé medesima. Non ignora certo Kipling, eppure non lo ricorda mai, perfino temendo la vicinanza di quell’imperiale britannico appetito di esistere; e i suoi occhi, già colmi di penombra, non sostengono le policromie fragorose che Gauguin cercava pei mari australi. Ammira gl’inglesi conquistatori e organizzatori, senza che questa ammirazione oltrepassi l’accento giornalistico e tocchi la soglia della storia. Ha appreso lì per lì, non senza sazietà e noia, le alcune cose che ci riferisce; e a lui, così vicino al gelo dell’eternità, la storia non è ormai che una lacrimevole commedia di equivoci in uno scenario orpellato. E tale gli era parsa, anche prima, immutabilmente; e non v’è nulla che neghi il carduccianesimo epico quanto L’Amica di Nonna Speranza: obbiezione nichilistica pronunciata con tanto più radicale decisione quanto più semplice e cordiale vi è la modestia del discorso. Perciò quasi non gli costa fatica la lealtà di confessare che, prima di sbarcare in India, confondeva i Parsi coi Paria. Nessuna dissimulazione d’ignoranza, nessuna pretesa di sapienza. Le cose che guarda sono spesso «buffe ed assurde». «Buffa ed assurda questa torre, circondata di alti palmizi, alternati alle aste della luce elettrica e del telegrafo, buffi ed assurdi quest’automobile e noi che sostiamo su questo pendio come dinanzi ad un aereodromo, a un ippodromo occidentale...» Tra l’incomprensibile passato e l’impossibile avvenire egli vacilla in un’ondulazione inconsistente — che è il ritmo lirico di queste sue prose — come uno che vada innanzi, su una passerella tarlata, certo in cuor suo che da un istante all’altro cadrà nell’abisso.
Poi tornò in Italia. E vennero i giorni di questa immensa rappresentazione storica. Bisognava credere nella realtà della storia, o sparire. Ma egli, Gozzano, già da tanto tempo amava le farfalle, il simbolico animale della rinunzia nel fuoco trasfiguratore. Già da tanto tempo aveva detto addio alle donne, agli amici, alle immagini care. Partì silenzioso — per un viaggio più lungo — verso il mitico buio Occidente, questa volta, ove tramonta il desiderio.*
Anche allora, in India, aveva sperato questa pace. Sapeva delle dottrine orientali, vagamente. Ma era troppo stanco e sfiduciato per un pellegrinaggio ascetico; e, in fondo, soffriva troppo per imporsi penitenze. Nella terra ove fu rinnegata «la ruota delle cose» e fu celebrato il silenzio, udiva invece il frastuono di una barbarica idolatrica polifonìa. E doveva oscuramente riconoscere d’essere troppo artista perché gli riuscisse facile la condanna dei sensi.
Un odore di sensualità esotica circola qua e là per queste pagine. Ma ha qualcosa di chiuso, di stantìo, ed è come punteggiato da acredini di preziosa putrefazione. «Mi sono avvezzo agli strani frutti che si spaccano offrendo una polpa gelida, mantecata come un sorbetto, odorosa di muschio e di creosoto: strani frutti che si direbbero preparati da un confettiere, da un profumiere e da un farmacista. E da un orefice si direbbero ideate le orchidee che ho dinanzi; petali di lacca policroma, polverizzata di mica, gole fantastiche e sogghignanti di draghi nipponici, petali gibbuti, cornuti, panciuti, nell’interno iridescenti come le tinte intraviste nei toraci aperti delle bestie macellate; il fascino dà l’incubo della peste e del malefizio, e nell’afa pomeridiana emana un odore fetido insostenibile». Senza ambizioni metafisiche, per associazioni forzose e istintive cui vediamo seguire sul suo viso un pallore madido, una contrazione di agonizzante, appanna anche altre volte il desiderio della vita con l’alito della corruzione. Ecco la danza della Devadasis, ed ecco le due misere cortigiane francesi che vorrebbero prostituirsi al Gran Mogol, morto trecent’anni prima. Ecco nudità intravvedute, così perfette che il poeta s’esalta, riconoscendosi puro e immune di lascivia: ed ecco lo stridulo ricordo di Madame Angot.
La volontà di vivere era già quasi esausta, e il desiderio di morire tardava ancora. Lo vedo tutto freddoloso e rattrappito, povero caro fanciullo esangue, davanti al focherello malcerto della sua vita, come già lo vidi, in una giornata di nevischio, davanti al camino della salle à manger, in un alberghetto di montagna, ove, prima che in India, era venuto a cercare un po’ di salute.
*
Lo ricordo ancora altrimenti, come lo vidi in un giorno d’agosto 1913, in riva al mare ligure. La memoria del bene che mi volle e della stima ch’ebbe per me (gli parevo un luminare di scienza: caro, umile, timoroso fanciullo che temeva i compiti e riveriva i professori e i primi della classe!) è fra le cose buone e nobili che m’ha date la vita. Era venuto per vedermi e parlarmi. Aveva ancora il volto abbronzato dal lungo viaggio, con una maschera illusoria di floridezza. Parlava piano, fissando la lontananza e il queto Occidente che s’oscurava, con uno sguardo leopardiano. Progenie di Leopardi, aveva varcato la siepe, aveva navigato verso l’infinito. Era freddo, deluso, risoluto.
Credeva nelle farfalle, per la sua gioia; nella pellicola cinematografica, pel suo pane; in qualche amico. Anche, soprattutto nella poesia; ma in una poesia fatta sibi et paucis, stampata in pochi esemplari non venali, condotta fino all’ultima nudità d’espressione, ridotta a sé medesima: senza risonanza pratica e senza gloria. Mi parlò delle poesie, candide e ignude, che aveva scritte in India: e che non conosco.
In questo volume non mancano echi di canto. Vi è il Tai-Mahal coi suoi cipressi di bronzo e il suo cielo di cobalto (un po’ di quel «soprannaturale» che sperava di trovare in India); vi è Giaipur («nessuna cosa è più inutile di questa grande città color di rosa» — «mi ricorderò di Giaipur...»); e quella pagina dei frutti e dei fiori; e il conquistador di Goa (p. 54). E v’è «la demenza beata che accompagna le agonie senza fine di certi consunti», e, sulla fine, il gracidìo conclusivo dei corvi: «l’altro romore che è la nota acustica dell’India, alla quale bisogna abituarsi come in certi paesi al fragore del mare o dei torrenti: il gracidìo dei corvi così monotono, assiduo, che non rompe, ma sottolinea il silenzio: inno alla putredine, dove prorompe la gamma di tutte le r, dove l’orecchio sembra discernere tutte le parole non liete: Ricordati! Ricordati! Morire! Morte! Morirai!». E v’è, soprattutto, quell’occulta accentuazione lirica che sorregge tutta questa prosa piana; ma l’una e gli altri, la musica occulta e gli echi percettibili, indipendenti dalla volontà dello scrittore, permeati nella quieta e modesta prosa quasi suo malgrado. Giacché non amava più (non aveva forse mai amato) questi intarsî equivoci, e spregiava, senza indignazioni oratorie, le cose brillanti da bazar. Qui voleva dare notazioni semplici e opache, diarî di curiosità forestiere, per molti lettori: un po’ di buona cinematografia, se si vuole. La poesia doveva essere altrove, nella sua anima e nel suo cassetto, per il poeta e per pochi cari. Doveva essere, ormai, tanto più schiva quanto più veritiera: una nudità pudica che non si mostra in piazza, una lealtà che non ricorre all’enfasi, perché non le giova di persuadere le folle.
Ho già detto pocanzi la parola lealtà per Gozzano. E non mi dolgo della ripetizione. Soprattutto per questo egli è e rimane un maestro: per avere contribuito a restaurare nella nostra lirica il gusto del parlare sobrio e a bassa voce, del riferire l’esperienza interna qual’è, del collocare il valore poetico nell’accentuazione più che nel lessico: per aver dunque lavorato a rimettere in onore la verità dell’emozione e la lealtà della parola.
Parigi, aprile 1917.
G. A. Borgese.