< Verso la cuna del mondo
Questo testo è stato riletto e controllato.
Giaipur: città della favola
XI XIII

Giaipur: città della favola.

Giaipur, 3 febbraio.

Paese dell’imprevisto! Dopo tante città marmoree abbacinanti di candore, ecco una città tutta rosea: Giaipur. L’occhio stanco di troppa luce riverberata da pareti bianche si riposa su questi palazzi come sulla dolcezza di certe stoffe attenuate dal tempo. E la nostra fantasia trova finalmente la città della favola, sognata nell’infanzia prima. Doveva avere l’anima d’un fanciullo e d’un poeta quel Maraja Suvni-Ge-Sing II che nel 1670 abbandonò l’antica capitale: Amber, e ordinò che una città nuova gli fosse costrutta dal suo popolo, una città quale aveva visto nei sogni dell’oppio, nelle favole persiane o nelle leggende vediche. Tutto un popolo fu all’opera e la città sorse per incantesimo: vastissima, con vie lunghe tre, quattro chilometri, ampie e regolari come le nostre più belle vie europee, tracciate, ornate, colorite sul modello unico, secondo la dispotica volontà del sovrano. Giaipur è un’immensa città costrutta pel capriccio di un solo, come si eseguisce una veste, una collana, uno stipo. Tutto è color di rosa a delicati fiorami bianchi: rosa le case, gli archi, le cupole, i minareti delle moschee, le guglie delle pagode.

Dalla veranda dell’albergo osservo sbigottito e non so darmi pace. Siamo giunti da un’ora, dopo tre giorni di ferrovia, in mezzo all’India desolata, stanchi dall’ardore polveroso, rattristati dal paesaggio che si fa sempre più squallido, come un’infinita pianura di scorie avvolta da un’atmosfera non più terrestre, non più respirabile. Quale differenza dalla verzura, dalla fresca penombra degli Stati del Sud! Tutto muore negli Stati Rajputi: anche gli agavi, i palmizi-palmira, i cacti a candelabro, questa tenace vegetazione di stoppa, di cuoio, di zinco.

E sarebbe la carestia classica, la Fame dei tempi andati, la sorella del Colera e della Peste, quella che secondo il poeta «viene a tracciare in India sul libro mastro della natura il dare e l’avere, a grandi segni di matita bleu», sarebbe la fame classica se l’Inghilterra non avesse chiusa tutta l’India in una fitta rete ferroviaria, arterie nelle quali scorre, più vitale del sangue, con la velocità degli espressi americani, il grano giunto da tutte le parti del mondo. Grano, grano, infiniti sacchi tondeggianti che s’accumulano in piramidi colossali ad ogni stazione piccola e grande. E il vecchio ottuagenario e il bimbo di sei anni, la danzatrice ed il paria, tutti passano al dispensiere per la provvista quotidiana, senza nemmeno dir grazie, senza nemmeno capire da chi e perchè giunga quel bene. E quando ognuno ha ricevuta la sua misura di frumento o di farina candida attende all’occupazione prediletta: sognare. Chi ha un’ultima moneta: un’anna, mezz’anna si compera trenta rose, le rose che si vendono già decapitate, in piramidi irrorate di continuo, e le infilza su una cordicella d’argento per la ghirlanda quotidiana, o passa dal profumiere parsi per mezz’oncia di benzoino (tutti si profumano e s’infiorano in questo paese: anche i cocchieri, anche i bovari) o compera una pasticca di mastice o un grano d’oppio o un bolo di betel.

Città di sogno e popolo adorabile, che ha la poesia del superfluo e la scienza delle cose inutili. Nessuna cosa più inutile di questa grande città color di rosa. Certo mi ricorderò di Giaipur, se un giorno dovrò scegliere una patria alla mia pigrizia contemplativa. Il dolce far niente italiano è, al confronto, un vortice di attività spaventosa.

Dalla veranda dell’albergo guardo i palazzi che si succedono regolari, all’infinito, fasciati, si direbbe, dello stesso damasco color salmone a fiorami candidi. Non so darmi pace, scendo, attraverso la via, voglio vedere vicino, palpare con la mano le strane pareti. È una specie d’intonaco tre volte secolare, più duro, più liscio dello smalto; le case sono strette, contigue l’una all’altra, come i palazzi classici di Venezia, ma tutte intonacate dello stesso color di rosa sul quale i disegni soltanto variano all’infinito. Oh! I delicati motivi che si possono ottenere con un po’ di bianco sul fondo gridellino! Motivi rievocanti le antiche stoffe dette indiane: losanghe minutissime, zebrature ondulate, mazzolini settecenteschi, ghirlande di nodi d’amour: ogni facciata varia all’infinito, pur fondendosi nell’armonia dell’insieme, e si ha l’impressione che debba cedere sotto la mano come un immenso lembo di stoffa tesa per un giorno di gala.

Rosa, tutto color di rosa per compiacere il gusto di un Re! E la folla che passa per queste vie si direbbe pur essa scelta, istruita, abbigliata per uno scenario coreografico. In nessuna città indiana, nemmeno ad Haiderabad, nemmeno a Delhi ho ritrovato così intatto l’Oriente di maniera. Non rotaie di tram, non automobili, non europei in casco e gambali, ma elefanti da nolo, dalle gualdrappe numerate, elefanti nuziali gualdrappati di rosso e d’oro, dipinti di tutti i colori più vivi come giocattoli di Norimberga, cammelli, dromedari che passano di corsa, col collo proteso, ricordando la figura e l’aire di certi polli spennati, muletti candidi dagli occhi rosei e dalle ciglia mansuete, e cavalli — i cavalli che mancano nell'India meridionale — cavalli bai, pomellati, bianchi: destrieri classici, dal tipo arabo, la criniera e dalla coda ondulata e prolissa, montati da cavalieri fantastici che si direbbero eroi cinematografici o comparse d’operetta se non si vedesse, se non si sentisse che sono veri: veri nonostante la scimitarra gemmata e lo scudo all’arcione, il casco — turbante adorno di penne svolazzanti, la barba imbiondita al hennè, i sopraccigli, le ciglia annerite con l’inchiostro di kool. Ma per chi, ma per che cosa questo abbigliamento scenico da principi di Mille e una notte? Forse non tanto per piacere alle loro donne mansuete, quanto per servire degnamente la Dea Illusione, la Dea Poesia, la Maja-Devi della teogonia indiana: quella che pone tra noi e le cose quali sono il velo delle cose quali devono apparire. Certo io penso con un sogghigno al nostro sommario vestito occidentale: un unito nero o bigio, un solino rigido, un cappello a cencio o a staio: non altro è concesso, non una tinta vivace, una penna, un velluto per illeggiadrire la nostra già sempre più scarsa avvenenza mascolina. Tutti hanno qui una eleganza principesca: principi e bovari; ma non per l’abbigliamento soltanto. Tutti hanno la pura bellezza del tipo ariano, hanno innata la grazia del gesto, del passo, dell’atteggiamento.

La bellezza e la grazia raggiunge nelle donne una perfezione forse eccessiva: si direbbe che avanzano per via a un passo di danza, avvicendando i piedi nudi e gemmati sulla stessa linea retta, il che fa ondulare le anche con un ritmo procace, mentre le braccia ignude, cerchiate di smaniglie, sono sollevate in alto ad equilibrare strane anfore di argilla variopinta o di rame. Sono vestite di stoffe e di veli vivaci, fasciate, inorpellate pudicamente fino alla gola: la scollatura, se così si può dire, traspare invece alla vita, dove il giubbino e la sottana disgiunti, s’allontanano talvolta scoprendo una buona parte del torso bronzeo e la base dei seni: una scollatura alla rovescia, che non dà nessun brivido sensuale, tanto l’atteggiamento è dignitoso, e perfetta la bellezza dei volti. Forse eccessiva, forse un po’ monotona la bellezza di queste indiane raiputi: sembrano tutte sorelle. E tutte ricordano singolarmente la Vergine Maria: non la Vergine bionda della tradizione occidentale, ma la Vergine nigra sed formosa dei musaici bizantini e degli smalti copti: l’ovale eccessivo, la bocca dal sorriso triangolare, il naso anche troppo minuscolo tra gli occhi lunghissimi, custoditi dai capelli ordinati con cura impeccabile, simili a due bende di raso nero e lucente.

Città della favola! Passano i veicoli più strani: vetture triangolari, semicircolari ricordanti la forma delle bighe, e l’auriga di bronzo ignudo grida ed incita, in piedi, non i cavalli, ma gli zebu, il bue indiano, piccolino, gibboso, dai garretti impazienti e velocissimi, dallo sguardo mansueto, fatto più dolce dalle lunghe corna ricurve ripiegate lungo la gobba, quasi col timore prudente di ferire qualcuno. Altre vetture passano, simili a piccole berline tutte d’oro, dalle cortine di broccato rosso; e passano portantine singolari, sormontate da una specie di guglia a pagoda, dov’è adagiato un ricco mercante parsi, una bajadera d’alta casta, un dignitario dal vestito e dalla barba candida, con non altro di nero che gli occhi imperiosi: ed ogni veicolo è preceduto e seguito da otto, dieci servi che avanzano su una canzone d’allarme, agitando a destra e a sinistra flabelli di palma dipinta o bastoni con un lungo pennacchio di seta candida e nera che è la coda di un’antilope di specie rara. Turbanti di tutte le forme e di tutti i colori: candidi enormi, fatti di tela rozza per i Camili e gli uomini di bassa casta, turbanti minuscoli piegati e pieghettati con arte sopra una forma interna come i cappellini delle nostre signore: circolari, triangolari, o rialzati audacemente da una parte, o scendenti a custodire le gote e adorni di fermagli gemmati, dai quali zampilla un’aigrette o una paradisea che farebbe la delizia delle nostre più raffinate mondane.

Città della favola! Avanzo lungo le belle vie spaziose, sui larghi selciati di marmo a figure geometriche, e sfioro a quando a quando con la mano i muri delle case color di rosa, sempre color di rosa, a delicati fiorami candidi. Quale meraviglia che in una città fantastica come questa si sia conservato intatto l’Oriente dei bei tempi andati? Ecco dignitari di corte, ecco scudieri, falconieri che passano ridendo, sollevando in alto i girafalchi incappucciati — avevo letto di questi, in guide sommarie e in descrizioni di pregio, ma non avevo creduto — ecco falconieri quali si potevano ammirare in Toscana o in Provenza, in un bel mattino del secolo XIV, ed ecco le tigri, le famose tigri del Maraja di Giaipur, delle quali tanto m’avevano parlato a Bombay e a Calcutta. Non sono tigri: sono pantere: non meno belle e formidabili; m’appaiono d’improvviso, al crocevia del Palazzo dei Venti, condotte al guinzaglio da una schiera di custodi: fanno parte delle belve che sfilano nei cortei di gala, pubblicamente. Per questo, per abituarle alla folla, sono condotte in giro ogni giorno, dopo i pasti abbondanti; sono cinque nel gruppo, tre color d’ocra a chiazze nero-pece, un’altra chiarissima, che si direbbe stinta, un’altra tutta nera, d’un bel nero lucente, dove le chiazze appaiono marezzate, come nel damasco. Camminano a scatti improvvisi come se avanzassero sopra una lastra di metallo rovente, ammusando a destra e a sinistra, con bonomia giocosa, i monelli ignudi che s’affollano intorno. Poichè m’arresto incuriosito e guardingo, a distanza dente, uno dei custodi mi sorride, mi fa cenno cortese di avanzarmi senza esitare, m’accosta lui stesso la belva al guinzaglio; e sul suo esempio accarezzo la nuca folta, mentre la belva s’abbioscia, gli occhi obliqui socchiusi nella luce del giorno, il muso depresso e baffuto come certe maschere giapponesi. Altre pantere mi sono intorno, con i loro custodi, si strusciano ai miei gambali, con un ron-ron beato di grosse micione ben pasciute....

Giaipur, 5 febbraio.

Città dei colori! Si direbbe che il popolo abbia voluto ripagarsi dell’unica tinta imposta dal tiranno, sfoggiando tra queste pareti color di rosa tutte le tinte più vive: uomini, donne, principi e mendicanti: vestiti di cenci o di sete, di percalli o di velluti: passa per queste vie una fiumana incessante di colori inconciliabili sotto il nostro cielo, ma che si fondono con questo sole, su questo scenario, in una concordia discorde che è un vero tripudio visivo: giallo zolfo, giallo ocra, rosso, carminio. porpora, verde biacca, verde salice azzurro, turchino.

Il sobborgo dei tintori è una delle cose più singolari di Giaipur. I tintori esercitano il loro mestiere all’aperto, con mezzi primitivi e raffinatezze secolari, sconosciute tra noi. S’aggirano seminudi tra le tinozze, i barattoli, i lambicchi fatti di grosse zucche e di noci di cocco unite con una storta di bambù, pestano i loro semi e le loro polveri in mortai millenari, di marmo o di bronzo, dov’è scolpita la testa elefantina di Ganesa o il sorriso di Parvati dagli occhi di pesce. E ne tolgono tele, tulli che appendono a corde tese al sole e affidano a garzoncelli che le fanno prosciugare correndo, gonfiandoli nella corsa come grandi aquiloni o turbinandovi dentro come in una danza serpentina.

A questo popolo il colore è necessario come la luce. Donne specialmente, donne d’ogni casta s’affollano intorno alle tintorie. E la giovinetta più povera trova sempre la monetina per far gettare nella tinozza tre metri di tulle stinto, che le è reso dieci minuti dopo, vivo della tinta che ama. Sull’unito del fondo l’artista sovrappone con meravigliosa sveltezza il disegno e la tinta preferita, adoperando certe spate di setola a spruzzo, o certi rulli di bosso o semplicemente le dita intinte: e ne risultano marmoreggiature, zebrature, disegni pomellati, o zone ondulate, delicatissime. E i tulli popolari, avvolti con una grazia che ricorda in queste donne Raiputi il ceppo comune, le remote sorelle di Atene, acquistano per trasparenza sovrapposta, per gioco del sole e del movimento una luminosità che moltiplica gli effetti come nei cristalli, e fa di queste creature sfamate quotidianamente dalla carità governativa tante principesse da leggenda.

Giaipur, 7 febbraio.

E anche i piccioni sono tutti ritinti come arlecchini dell’aria. Quasi non bastasse il verde naturale dei pappagalli, il bagliore dei pavoni, il nero lucente dei corvi. Così che le case color di rosa hanno il marmo candido delle cimase coronato da pennuti di tutti i colori.

Un’altra cosa non avevo osservato, che mi piace e m’intenerisce. Ad ogni crocivia è una specie di tempietto ad una colonna, dove la carità dei passanti depone il becchime per gli uccelli anch’essi affamati nell’intristire dell’ultime gramigne. Sotto le piccole cupole a pagoda è un vero turbinìo di pennuti minuscoli: cocorite, passeri bengalini che vengono, vanno trillando di letizia riconoscente. Anime delicate di fanciullo e di francescano, questi indù raiputi, che hanno la fame alle porte, e sentono la necessità d’un profumo e d’un fiore, e dividono il pugno di grano giunto d’oltremare con le piccole creature di Brama!

Giaipur, 10 febbraio.

I giardini del Maraja sono di una malinconia cimiteriale che pure ha il suo incanto sotto questo cielo non nostro. Le palme, i cipressi, gli aranci sono tagliati a forme geometriche, tra siepi di busso, di rose bengali, moderate secondo lo stile francese del secolo XVIII. Anche le piscine per gli elefanti, gli stagni per i coccodrilli e le testuggini hanno sagome Luigi XV; a questi motivi occidentali s’alternano, con bizzarria che non dispiace, le linee indiane: chioschi a guglia, cupole tre volte panciute, ponticelli di marmo traforato come trina che cavalcano stagni quasi asciutti dove intristiscono le ultime ninfee e gli ultimi papiri. Visitiamo il Palazzo Reale — la parte accessibile al forestiero — ed anche qui è l'anacromismo orientale e occidentale: sale parate di damasco europeo, sovrapporte settecentesche con episodi ellenici e pastorali, pendoli Robert, fiori sotto campana, alte finestre e telaietti; e si passa da questi appartamenti in corridoi dalle finestre ad ogiva moresca, a verande di marmo lavorato a stalattiti, a sale non arredate che di tappeti e di cuscini orientali, dalle pareti candide non decorate che dì affreschi effigianti le incarnazioni di Brama. Si sale dall’uno all’altro piano di questi appartamenti di sogno in placidi ascensori elettrici costrutti a Manchester, mentre, per compenso, ci attende in giardino un elefante messo a nostra disposizione dal gran Cerimoniere della Maraja assente. Visitiamo i giardini vastissimi, ma dalla magra vegetazione senz’ombra. Sugli spalti della città, a grandi aranci dalle foglie accartocciate dall’arsura, s’alternano cannoni dorati e inargentati, inutili e grotteschi come le soldatesche che fanno i loro esercizi nel cortile sottostante: uomini alti e snelli come fanciulli, dalle strane divise miste di rigidezza britanna e di cenciosità orientale. Cose di una malinconia esotica intraducibile a parole.

E più malinconico di tutto il grande edifizio dell’Osservatorio Astronomico, fondato dal Maraja Ge-Sing, l’innamorato delle stelle, l’astronomo che diede alla scienza un contributo riconosciuto anche dalle società occidentali. Nel cortiletto interno, in mezzo ad una vasca senz’acqua, un immenso sferisterio sembra girare sulle spire arcuate del serpente in marmo che lo sorregge. E intorno sono attrezzi e costruzioni strane, in metallo ed in pietra, incise a formule misteriose non meditate più che dagli scoiattoli. In alto, il muro di una specula è tutto coronato di scimmie piccoline, strette l’una all’altra, freddolose al vento polveroso della sera. E i segni zodiacali s’alternano ad un’infinità di musetti pensosi e di code pendule.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.