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Il fiume dei roghi.
Benares, 23 febbraio.
— Benares.... il Gange....
Devo ripetere i due nomi favolosi per convincermi che veramente risalgo in barca il fiume sacro, con dinanzi lo scenario della Città santificata.
— Il Gange.... Benares....
Devo liberarmi dal ricordo di troppe descrizioni — da quelle deliziosamente arcaiche di Marco Polo a quelle moderne e sentimentali di Pierre Loti — per rientrare nella realtà, vedere la cosa troppo attesa con occhi miei. Vano è scrivere, vano è leggere; una bellezza non esiste se prima non la vedono gli occhi nostri. L’aforisma wildiano è giusto. Ma prima ancora di saper leggere, io sognavo di Benares. Se risalgo alle origini prime della mia memoria vedo la città sacra in un’incisione napoleonica, nella stanza dei miei giochi. E il ricordo è così chiaro che il sogno d’allora mi sembra realtà e la realtà d’oggi mi par sogno....
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— Slowly! Adagio, più vicino, — ripeto di continuo al barcaiuolo frettoloso.
Benares va vista dal Gange, come la ribalta dalla platea. L’interno della città è un dedalo infinito di viuzze laide, degno vivaio di tutte le epidemie del mondo. La città fu costrutta sul Fiume, protende tutta la sua bellezza verso le acque deificate.
La mia barca costeggia i ghati: così si chiamano i gradi più bassi delle immense scalee. La stagione asciutta scuopre la città quasi alle fondamenta ed appaiono gli immensi cubi di granito, i templi tozzi, le teste elefantine dei Ganesa, le braccia multiple dei Siva, le statue massiccie destinate ad un’immersione annua di molti mesi e patinate ora da un limo rossiccio, di bellissimo effetto. La patina rossa colora la città fluviale, indica il regno delle acque fino all’altezza di venti e più metri; dopo comincia la città abitabile, dalla fantastica architettura. Duemila sono i templi di Benares eretti come una selva lungo i dieci chilometri che la città occupa sulla riva sinistra del Gange: templi a pagoda buddista, piramidi e guglie bramine, cupole panciute, minareti maomettani, chiese eurasiane, sinagoghe, tutto è tollerato in questa «Terra dell’Indulgenza» pur che si creda. Tu non dirai che la tua religione sia migliore delle altre. Colui che dice: io sono nella verità, colui non è nella verità....
Ecco il noto profilo dei templi e dei palazzi, con le scalee, le verande, le specule, le infinite finestre tutte rivolte verso il fiume, ecco le strane «cupole a pigna», così caratteristiche nella architettura indiana. Gran parte dei superbi edifici appartengono a marahja delle terre più lontane, sono residenze di espiazione. Come nel Medio Evo i principi andavano ad espiare i loro trascorsi in Terra Santa, così i signori indiani visitano Benares una volta all’anno o si ritirano in vecchiaia per esalare l’anima in cospetto del Fiume-Dio, che assolve di tutto. È risaputa la credenza; colui che muore a Benares, lasciando le sue ceneri al Gange, foss’anche un infedele, è dispensato dal martirio d’ogni reincarnazione, raggiunge la felicità dell’Increato. Malati, diseredati, vecchi d’ogni genere giungono dalle contrade più remote, dalle foreste equatoriali di Ceylon, dalle vette nevose del Cachemire, per aver pace nel seno di Brama.
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Sono le sette, l’ora della preghiera mattutina. Il sole illumina obliquamente la zona più alta degli edifici; accende l’oro superstite delle cupole e delle guglie attorno alle quali nugoli neri, verdi, rossi di corvi, di tortore, di pappagalli, turbinano salutando la luce con un inno assordante. E tutto ciò che vive scende verso il fiume. Dalle scalette tortuose tra palagio e palagio, dalle immense scalee che dànno alla riva del fiume non so che profilo assiro o babilonese, scende una folla varia, densa, incessante; uomini, donne, fanciulli, vecchi, giovani fachiri, pellegrini. E tutti recano ghirlande di fiori; grosse magnolie, gardenie, corolle sconosciute dal profumo acutissimo, infilzate come rosarii, e prima di scendere nell’acqua le gettano al fiume, pel rituale quotidiano. I turbanti, le sete, i velluti sono appesi a cespugli o sotto certi ombrelli immensi, senza nervatura, simili a funghi singolari; gli uomini entrano nell’acqua quasi ignudi, le donne conservano una lunga tunica che dopo la prima abluzione aderisce alla pelle e rivela più ancora l’ambra delle carni, l’armonia delle forme stupende. E tutti pregano e meditano. Meditano su che? La mia barca passa loro innanzi, deve deviare per non urtarli, ma quelli mi fissano e non mi vedono. Il loro sguardo è al di là, la loro anima è perduta negli abissi dell’ineffabile. Strana città dove tutti credono!
Perchè molti di costoro non sono fachiri, nè santi, nè pellegrini. Sono uomini di venti, di trent’anni, vigorosi e sani: artigiani, mercanti, soldati, operai che risaliranno le scalee per riprendere la lotta consueta, che rientreranno nella vita, ma che ogni giorno, due volte al giorno, scendono nella morte, s’immergono nel fiume a colloquio con la propria anima, per prepararsi quotidianamente al trapasso bile. Odioso confronto con i nostri uomini, con i nostri borghesi occidentali che ignorano ogni cosa dell’anima, deridono ogni scienza dello spirito, bestemmiano Dio, ostentando un ateismo fatto più odioso dal vigliacco ravvedimento dell’ultim’ora!
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Turba infinita che sempre si rinnova, magnificenza di bronzi cupi, di bronzi chiari, di forme stupende! Ma non tutto è forza e giovinezza. Gli aspetti della vecchiaia, della malattia, della morte, così necessari alla perfetta meditazione buddista, offrono sotto questo cielo magico un contrasto non descrivibile. Poichè è bene ricordare che gran parte di questa folla è qui giunta per morire, per «morire in salute» come mi spiega con bisticcio atroce il buon rematore. Tutti i più crudeli martirii con i quali Siva distruttore ritorna al nulla la povera carne umana si son dati convegno sulle rive del fiume luminoso, offrendo al visitatore un campionario strano, interessante come la nuova flora, la nuova fauna: scabbie, lebbre, eczemi tropicali (framboesia, albinite ecc.), che disegnano le pelli bronzate di chiazze candide e regolari, di chiazze vermiglie come lamponi, di zebrature ondulate; piaghe orride, tumori che hanno corroso un torace, mettendo a nudo i precordi lividi o hanno corrose le gote scoprendo tutta la dentatura candida in un sogghigno che non si potrà dimenticare più mai; elefantiasi che tumefanno le gambe, il seno, le pudenze in modo incredibile, tanto che la vittima sembra scomparire tra otri immensi e non può muoversi senza il soccorso di qualche devoto, portatore del singolarissimo pondo. Un gruppo di questi miserabili è adunato intorno ad un santo ancora giovane, dalla bruna barba divisa, dallo sguardo di fiamma; che può mai predicare quel veggente per consolare tante miserie, per far tacere i gemiti di quel carname senza nome? Forse ripete a quei moribondi le parole dell’Illuminato: «....il saggio si rallegra della sua carne che si sfascia, come il prigioniero impaziente si rallegra della prigione che si schiude. Beata la musica che si diparte per sempre dallo stromento, beata la fiamma che si diparte dalla fiaccola, beata l’anima che abbandona la carne....».
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Passiamo oltre. Il sermone non è per noi. Mai come oggi mi son sentito schiavo della apparenza, innamorato folle di tutto ciò che è forma, colore, ombra, luce: bellezza viva, preda della morte.
La città è interminabile: ancora templi, ancora torri, terrazzi, scalee. Intorno, sul fiume galleggiano infinite le ghirlande votive e le corolle vivaci, i gioielli, i denti, gli occhi abbaglianti, le chiome nere lucenti formano tra il riverbero dell’acqua e lo splendore del sole un musaico a chiazze vive come nelle tele di certi impressionisti. Lo sguardo si stanca. Passiamo in una zona d’ombra riposante, lungo i ghati interminabili. L’acqua lenta orla di bava sordida i cubi di granito decrepito. Un fetore sinistro di fiori maceri, di carne putrefatta, di umidità febbricosa e di pestilenza mi fanno ricordare — con un brivido — che da questo focolaio unico si dipartono a quando a quando, nei secoli, il colera, la peste, i peggiori flagelli del mondo.... E non meraviglia. Ecco un tronco di palma morta che ha fatto diga nel pattume e contro vi s’accumula una putredine varia: ghirlande di queste corolle carnose che l’acqua converte in viscidume fetido, buccie, carta, cenci, tizzi di carbone, rami, un osso candido, una tibia umana che il remo solleva lentamente: un misero avanzo sfuggito ad un rogo troppo povero. E poco oltre la Marayana di Kandaba fa le sue abluzioni sotto un baldacchino sorretto da quattro servi in turbante; intorno le sue donne reggono le vesti, le collane, l’immenso pettorale di gemme, mentre l’augusta sovrana — una pingue signora attempata — immerge nel fiume le carni vizze, fa coppa delle mani, beve l’acqua fetida alternando ogni sorso con un breve gesto d’offerta verso il Cielo.
Più oltre una frotta di bimbi corre ridendo, cerca nel pattume gli avanzi del legno e del carbone; oltre ancora alcune donne immergono le anfore di rame lucente, di classica forma, e equilibrandole sul capo con l’una mano, s’avviano la sponda, l’altra mano al fianco, onduleggiando le anche con un incedere di procace eleganza.
Proseguiamo, passiamo dinanzi ad un’altra piattaforma di roghi — sono molte, ma quasi tutte deserte in quest’ora — altri templi, altri palazzi dominanti il fiume dall’alto come castelli feudali. Strana città rimasta intatta nei millennii, intatta nella sua pietra e nella sua fede! Altre città favolose esistono al mondo, dinanzi alle quali si esalta la nostra fantasia; ma sono il fantasma di quelle che furono. Benares è oggi qual’era nella notte dei tempi ariani. Quando in Grecia si celebravano i riti dionisiaci, quando a Roma le feste arvali, quando Tebe offriva olocausto a Ita, Benares già splendeva sulla riva del Fiume-Dio, come oggi; come oggi la sua folla scendeva nelle acque sacre a meditare il mistero del divenire.
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Un’altra piattaforma che si protende sul fiume: un’altra serie di roghi; ma son quasi deserti in questa stagione salutare. Quale carname in fiamme deve fornire a queste rive l’ora della peste!
Approdiamo. Due cadaveri sono in molle nel fiume, legati ad una corda, fluttuanti nel sudario candido per l’ultima abluzione di rito. Un altro finisce di ardere, irriconoscibile ormai; solo i due piedi si protendono fuori delle fiamme, contratti, le dita divaricate come in uno spasimo estremo; saranno gettati nelle fiamme per ultimi, poichè è consuetudine di lasciare i piedi fuori del rogo, rivolti verso il fiume, simboleggianti l’ultimo avvio. Questi roghi non sono grandiosi.
La nostra fantasia immagina cataste eccelse, nubi avvolgenti ogni cosa in vortici odorosi, cerimoniali e preghiere solenni: i roghi dei martiri e dei poeti. Nulla di tutto questo. Una semplicità che sa lo squallore. I roghi sono piccoli, simili a lettucci, a fornelli in cemento, appena capaci d’un corpo umano, e il legno si direbbe misurato con parsimonia, in questo paese delle grandi foreste! E negli addetti, quale frettolosa indifferenza! Ecco: il cadavere è tolto dal fiume con una specie di barella a grate, è disteso sul letto di cemento tra due strati di legno sottile: un indù versa una piccola latta d’olio resinoso, un altro accende. Il rogo avvampa, e ai quattro lati i quattro necrofori in giubba e turbante candido vigilano la cremazione, armati ognuno di una lunga spatola ricurva con la quale respingono i tizzi crepitanti: lo spettacolo è misero, profanatore; i quattro messeri in bianco, chini sul braciere modesto, con quei cucchiai singolari, mi fanno pensare a quattro cuochi affaccendati, e non hanno nulla di tragico. Ma è qui, come altrove, la completa indifferenza degli indiani per la salma, la nessuna venerazione pel corpo quando l’anima s’è involata per sempre. Una sola cura frettolosa, darlo alle fiamme, ritornarlo al nulla al più presto. Intorno ad ogni rogo, poco distante, ricorre un sedile di granito ricurvo dove siede la famiglia del defunto. Ma nessuna lacrima, nessun commiato straziante; i congiunti assistono all’incenerimento per vigilare che il rito sia compiuto esattamente, che il legno sia sufficiente, che tutta la cenere sia data al fiume.
Un terzo cadavere è giunto. Un fanciullo di forse dodici anni, bellissimo, falciato dalla morte d’improvviso, poichè il volto ha la calma del sonno placido e il braccio oscilla pendulo e la testa dalle chiome bluastre s’arrovescia sulla spalla dei portatori non per anco irrigidita. Un uomo — il fratello forse — una donna ancora giovane — forse la madre — assistono all’opera, scambiano con gli addetti poche sillabe, discutendo certo sulla resina che la donna annusa e trova di qualità non buona. E il piccolo attende resupino sulla catasta, il profilo perfetto fatto più delicato dal sonno senza risveglio, le frangie tenebrose delle palpebre solcate dallo smalto candido dell’occhio socchiuso. Non so che dolore indefinibile mi stringa il cuore fissando quel volto adolescente, fissando l’altro volto di vegliardo che già le fiamme disfanno. Forse riconosco nell’uno e nell’altro — attraverso le remote analogie d’un’unica stirpe — i volti di fanciulli e di vecchi che mi furono cari. Noi amiamo il volto, questo specchio dell’io; amiamo le rughe, la canizie dei vecchi, i capelli biondi, gli occhi sereni dei bimbi. Non possiamo concepire il ritorno d’un caro defunto senza il suo volto, il suo sorriso, la sua voce. La nostra religione (con un dogma tra i più medievali e puerili, è vero, ma che mi piace non discutere), soddisfa questa nostra illusione promettendoci la resurrezione della carne.
Come costoro sono lontani da noi! Prima di nascere, prima di morire si sono già detto addio. Si sono rassegnati serenamente, dai tempi dell’origine ariana, a questa disperata certezza «Nulla è; tutto diviene». L’io ed il non io sono il frutto d’una mera illusione terrestre. Perchè se così non fosse sarebbe mostruosa, rivoltante la calma di questa giovane madre che compone tra le braccia del fanciullo il piccolo elefante d’ebano, il mulino minuscolo, un rotolo di carte: preghiere forse, o forse quaderni di scolaretto diligente! e tutto questo fa senza una lacrima, senza che una fibra del suo volto abbia un sussulto! Certo costei è una bramina compiuta, migliore assai di quell’altra madre, quella Marayana citata nei sacri testi che si strappava le chiome, ululando sul cadavere del suo unico figlio. E i yogi — si racconta — cercavano invano di richiamarla alla verità, di strapparla al demone dell’illusione. E tanto era lo strazio della donna che, per il potere d’un fachiro, l’anima ritorna al cadavere già disteso sul rogo. E la madre si getta sul resuscitato, folle di gioia. Ma il principe giovinetto s’alza sulla catasta, respinge la donna con un gemito, si guarda intorno sbigottito, dice: «Chi mi chiama? Chi mi strazia? Dove sono? Chi ha spezzato in me l’armonia della Ruota? In quale delle innumerevoli apparenze del mio passato mi ebbi per madre questa forsennata? Portatela dall’esorcista! Mara, il tentatore, ulula in lei!». Così parlato il giovine ricade resupino e l’anima s’invola nell’ineffabile. La madre, la marayana Kritagma, fu quella che andò penitente fino ad Anuradhapura, nel centro di Ceylon, la Roma buddista, ed ebbe la grazia somma d’essere illuminata da Gotamo in persona, come racconta il poeta Kalidasa....