< Viaggio al centro della Terra
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Jules Verne - Viaggio al centro della Terra (1864)
Traduzione dal francese di Anonimo (1874)
I
Viaggio al centro della Terra II

VIAGGIO AL CENTRO DELLA TERRA

I.


Il 24 maggio 1863, una domenica, mio zio, il professore Lidenbrock, ritornò precipitosamente verso la sua casetta posta al N. 19 di Königstrasse, una delle più antiche strade del vecchio quartiere di Amburgo.

La buona Marta dovette credersi in ritardo, poichè il desinare incominciava appena a cantarellare sul fornello della cucina.

«Ahi! dissi tra me, se ha fame, mio zio, che è il più impaziente degli uomini, getterà gridi da disperato.

— Già il signor Lidenbrock! esclamò la buona Marta stupefatta, socchiudendo la porta della sala da pranzo.

— Sì, Marta; ma il desinare ha diritto di non essere cotto, poichè non sono ancora le due; la mezz’ora è appena suonata a S. Michele.

— Allora perchè il signor Lidenbrock rincasa?

— Egli ce lo dirà probabilmente.

— Eccolo! io scappo via, signor Axel; voi gli farete intendere la ragione.»

E la buona Marta ritornò nel suo laboratorio culinario.

Rimasi solo. Ma far intendere la ragione al più irascibile dei professori, gli è ciò che la mia indole alquanto titubante non mi permetteva; però io mi accingeva a ritrarmi prudentemente nella mia cameretta al piano superiore, quando la porta di strada cigolò sui cardini; passi pesanti si udirono su per le scale di legno e il padron di casa, attraversando la sala da pranzo, si precipitò nel suo studiolo.

Ma durante quel rapido passaggio egli aveva gettato in un cantuccio il suo bastone dal pomo a schiaccia-nocciole, sulla tavola il largo cappello a peli arruffati e al nipote queste parole rimbombanti:

«Axel, seguimi!»

Io non aveva ancora avuto il tempo di muovermi che già il professore mi gridava con vivo accento d’impazienza:

«Ebbene, non sei ancora qui?»

Mi slanciai nel gabinetto del mio formidabile maestro.

Otto Lidenbrock non era un cattivo uomo, ne convengo volentieri; ma, a meno di improbabili mutamenti, egli morrà nella pelle d’un terribile stravagante.

Era professore all’Joannæum, e vi faceva un corso di mineralogia, durante il quale andava regolarmente in collera un paio di volte. Non già ch’egli tenesse ad aver allievi assidui, nè che si desse gran pensiero del grado d’attenzione che gli accordavano, nè del successo che potevano ottenere per tal via; questi particolari non lo inquietavano punto. Professava soggettivamente, secondo un’espressione della filosofia tedesca, per sè e non per altri. Era uno scienziato egoista, un pozzo di dottrina la cui carrucola strideva quando si voleva trarne alcuna cosa: in una parola un avaro.

In Germania di siffatti professori ve n’ha qualcuno.

Mio zio, disgraziatamente, non godeva di grande facilità di pronuncia, se non nell’intimità, per lo meno quando parlava in pubblico, spiacevole difetto per un oratore. Infatti nelle sue dimostrazioni all’Johannæum, soventi volte il professore s’arrestava di botto, lottava contro un vocabolo ricalcitrante che non voleva uscirgli dalle labbra, uno di quei vocaboli che resistono, si gonfiano e finiscono col venir fuori nella forma poco scientifica d’una bestemmia. D’onde gran collera.

In mineralogia ci sono molte denominazioni semigreche, semilatine, difficili a pronunciare, rudi appellattivi che scorticherebbero le labbra d’un poeta. Io non voglio già dir male di questa scienza; il cielo me ne guardi! ma quando si hanno dinanzi le cristallizzazioni romboedriche, le resine retinasfalti, i gheleniti, i fangasiti, i molibdati di piombo, i tungstati di manganese e i titaniati di zircone, è permesso alla lingua più abile di far fallo.

Ora, nella città, era notoria questa perdonabile infermità di mio zio, e se ne abusava, e lo si attendeva nei passi pericolosi, ed egli infuriava e si rideva, la qual cosa non è di buon gusto nemmeno per i Tedeschi. Se vi era quindi gran concorso di uditori alle lezioni di Lidenbrock, molti dei più assidui venivano specialmente per darsi spasso alle amene collere del professore.

Checchè ne sia, mio zio, non l’avrò mai detto abbastanza, era un vero scienziato. Tuttochè spezzasse talvolta i suoi campioni nell’assaggiarli troppo bruscamente, congiungeva al genio del geologo l’occhio del mineralogista; col suo martello, colla sua punta d’acciaio, col suo ago calamitato, col suo cannello e colla sua boccetta d’acido nitrico, era uomo validissimo. Alla frattura, all’aspetto, alla durezza, alla fusibilità, al suono, all’odore e al gusto d’un minerale qualunque, egli lo classificava senza esitazione fra le seicento specie che la scienza conta oggigiorno.

Laonde il nome di Lidenbrock era ripetuto con onore nei ginnasi e nelle associazioni nazionali. I signori Humphry Davy, De Humboldt, i capitani Franklin e Sabine, non tralasciarono di fargli visita quando si trovarono di passaggio ad Amburgo, e i signori Becquerel, Ebelmen, Brewster, Dumas, Milne-Edwards, usavano consultarlo circa le questioni più nuove della chimica. La qual scienza gli andava debitrice di bellissime scoperte; perocchè nel 1853 era apparso a Lipsia un Trattato di Cristallografia trascendente, del professore Otto Lidenbrock, un bel volume in-foglio con tavole, che tuttavia non coprì le spese.

Aggiungete a questo che mio zio era conservatore del Museo mineralogico del signor Struve, ambasciatore di Russia, preziosa collezione che ha una rinomanza europea.

Quest’è adunque il personaggio che mi chiamava con tanta impazienza. Figuratevi un’uomo alto, magro, d’una salute di ferro, d’un biondo giovanile che toglieva dieci buoni anni alla sua cinquantina; i suoi occhi grossi erano senza riposo stralunati dietro gli enormi occhiali; il suo naso lungo e smilzo aveva l’aspetto d’una lama affilata; i maldicenti pretendevano perfino che fosse calamitato e che attirasse la limatura di ferro. Calunnie; non attirava che il tabacco, ma in grande abbondanza, convien dirlo.

Quando avrò aggiunto che mio zio faceva passi matematici d’una mezza tesa, e se dico che nel camminare teneva i pugni fortemente stretti, segno di temperamento impetuoso, lo si conoscerà quanto basti per non mostrarsi ghiotti della sua compagnia.

Egli abitava la sua casicciola di Königstrasse, abitazione metà legno, metà mattoni, a cornicione dentato; affacciava sur uno di quei canali sinuosi che s’incrociano nel mezzo del più antico quartiere d’Amburgo che l’incendio del 1842 ha per buona sorte rispettato.

La vecchia casa pencolava alquanto, è vero, e tendeva il ventre ai passanti, portava il suo tetto inclinato sull’orecchia come la berretta d’uno studente della Tugendbund; l’appiombo delle sue linee lasciava molto a desiderare, ma tutt’insieme essa si portava bene in grazia d’un vecchio olmo vigorosamente incastrato nella facciata, il quale gettava in primavera le sue gemme fiorite attraverso i vetri delle finestre.

Mio zio era ricco per essere un professore tedesco. La casa, contenente e contenuto, gli apparteneva interamente. Il contenuto era la sua figlioccia Graüben, giovane irlandese di diciassette anni, la buona Marta ed io. Per la mia doppia qualità di nipote e di orfano divenni l’aiutante preparatore delle sue esperienze.

Confesserò che io addentai con appetito le scienze geologiche. Avevo sangue di mineralogista nelle vene e non mi annoiavo mai in compagnia dei miei ciottoli preziosi.

Insomma, si poteva vivere felici in questa casicciola di Königstrasse, non ostante l’impazienza del suo proprietario, perocchè costui, sebbene me lo dimostrasse in maniera alquanto brutale, mi amava tuttavia molto. Ma quell’uomo lì non sapeva attendere, era più frettoloso della natura.

Quando in aprile aveva piantato nei vasi di porcellana del suo salotto la reseda o il convolvulo, ogni mattina andava regolarmente a tirarli per le foglie pensando di farli crescere più presto.

Con un originale di questa fatta, il meglio era obbedirlo: però io mi precipitai nel suo gabinetto.

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