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Jules Verne - Viaggio al centro della Terra (1864)
Traduzione dal francese di Anonimo (1874)
IX
VIII X

IX.

Venne il dì della partenza. Alla vigilia il compiacente signor Thomson ci aveva dato lettere di raccomandazioni per il signor Trampe, governatore dell’Islanda; per il signor Pictursson, coadiutore del vescovo, per il signor Finsen, podestà di Reykjawik. In ricambio, mio zio gli largheggiò caldissime strette di mano.

Il 2, alle sei del mattino, i nostri preziosi bagagli si trovavano a bordo della Valkyrie; il capitano ci condusse ai nostri camerini, che erano abbastanza stretti.

«Abbiamo buon vento? domandò mio zio.

— Eccellente, rispose il capitano Bjarne; vento di sud-est, usciremo dal Sund con tutte le vele spiegate.»

Da lì a pochi istanti, la goletta spiegò la vela di trinchetto, la brigantina, la vela di gabbia e quella di perrocchetto, e si cacciò nello stretto. Un’ora dopo la capitale della Danimarca sembrava sprofondarsi nei flutti lontani e la Valkyrie rasentava la costa di Elseneur. Io avea i nervi così agitati che mi aspettava di vedere l’ombra di Amleto errante sulla leggendaria terrazza.

«Sublime insensato! dicevo io, tu certo ne approveresti, e ci seguiresti fors’anco per venire al centro della Terra a cercarvi una soluzione al tuo dubbio eterno!»

Ma non apparve nulla sulle antiche muraglie; e d’altra parte il castello è assai più giovane dell’eroico principe di Danimarca e serve oramai di alloggio sontuoso al custode di questo stretto del Sund, dove passano ogni anno quindicimila navi di tutte le nazioni.

Il castello di Krongborg sparve bentosto nella nebbia, così come la torre di Helsinborg che sorge sulla spiaggia svedese, e la goletta s’inchinò lievemente sotto la brezza del Cattegat.

La Valkyrie era una brava veliera, ma colle navi a vela non si sa mai su che contare. Essa trasportava a Reykjawik carbone, utensili domestici, stoviglie, vesti di lana e un carico di frumento. Cinque uomini d’equipaggio, danesi tutti, bastavano alla manovra.

«Quanto durerà la traversata? domandò mio zio al capitano.

— Una decina di giorni, rispose quest’ultimo, se non troviamo troppi nembi di nord-ovest nel passaggio delle Feroë.

— Ma voi non andate già soggetto a ritardi molto gravi?

— No, signor Lidenbrock, state tranquillo, arriveremo.»

Verso sera la goletta oltrepassò il capo Skagen alla estremità nord della Danimarca. Attraversò durante la notte lo Skager-Rak, costeggiò l’estremità della Norvegia in vista del capo Lindness ed entrò nel mare del Nord.

Due giorni dopo eravamo in vista della coste della Scozia all’altezza di Peterheade, e la Valkyrie si diresse verso le isole Feroë passando fra le Orcadi e le Seetland.

Non andò molto che la nostra goletta fu flagellata dalle onde dell’Atlantico, e dovette bordeggiare contro il vento del nord fino a che ebbe raggiunto con molta fatica le isole Feroë. Il giorno 8 il capitano riconobbe Myganness, la più orientale di coteste isole, e da quel momento egli tirò dritto fino al capo Portland, situato sulla costa meridionale dell’Islanda.

Il viaggio non offrì alcun incidente degno di nota: so ch’io sopportai con sufficiente disinvoltura le prove del mare, e che mio zio, a suo gran dispetto ed a sua maggiore vergogna, non cessò un istante d’essere ammalato.

Egli non potè perciò interrogare il capitano Bjarne circa lo Sneffels, i mezzi di comunicazione e le facilità di trasporto, e dovette differire siffatte spiegazioni al suo arrivo, passando intanto tutto il suo tempo steso nella cabina, i cui tramezzi scricchiolavano ad ogni barcollamento della nave.

A dire il vero egli aveva meritato la sua sorte.

Il giorno 11 fummo in vista del capo Portland. Il tempo allora sereno permise di vedere il Myrdals Yokul, che lo signoreggia. Il capo consta d’un grosso picco a ripide balze, che sorge solitario sul lido.

La Valkyrie si tenne a debita distanza dalle coste rasentandole verso l’ovest in mezzo a numerose frotte di balene e di pescicani. Presto ci apparve un’immensa roccia forata da parte a parte, attraverso la quale le onde schiumose passavano, frangendosi con impeto. Gl’isolotti di Westman parvero uscire dall’Oceano come un gruppo di roccie sulla liquida pianura. La goletta prese il largo per girare, in distanza conveniente, il capo Reykjaness, che forma l’angolo occidentale dell’Islanda. Il mare assai agitato impediva a mio zio di salire sul ponte per ammirare le coste frastagliate e battute dai venti di sudovest.

Quarantott’ore dopo, passata una tempesta che forzò la goletta a fuggire, si scorsero nell’est i segnali della punta Skagen, i cui scogli pericolosi si prolungano a gran distanza sotto i flutti. Un pilota islandese venne a bordo, e tre ore dopo la Valkyrie gettava le ancore innanzi a Reykjawik nella baja di Faxa. Il professore uscì finalmente dal camerino; era alquanto pallido ed abbattuto, ma sempre entusiasta e gli brillava negli occhi la soddisfazione.

La popolazione della città singolarmente interessata dell’arrivo d’una nave, nella quale ciascuno ha qualche cosa da prendere, si affollava sulla riva.

Mio zio aveva fretta di uscire dalla sua prigione galleggiante, per non dire dal suo ospedale, ma innanzi di lasciare il ponte della goletta egli mi trascinò alla prora e quivi mi mostrò col dito al settentrione della baia un’alta montagna a due punte, un doppio cono coperto di nevi perpetue.

«Lo Sneffels, sclamò egli, lo Sneffels!»

Indi, dopo avermi raccomandato col gesto un silenzio assoluto, discese nel canotto che l’aspettava; io lo seguii e non andò molto che noi premevamo col piede il suolo islandese.

A tutta prima apparve un uomo di bell’aspetto che vestiva l’uniforme di generale, ma non era altro che un semplice magistrato, il governatore dell’isola, il barone Trampe in persona. Il professore riconobbe subito con chi avesse a fare, consegnò al governatore le sue lettere di Copenaghen, ed appiccò con lui una conversazione in danese, alla quale io aveva le mie ragioni di non prendere alcuna parte. Il risultato di questo primo colloquio fu che il barone Trampe si metteva tutto a disposizione del professore Lidenbrock.

Mio zio ebbe un’affabilissima accoglienza dal sindaco, il signor Finsen, non meno militare per l’uniforme del governatore, ma del pari pacifico per indole e per stato.

Quanto al coadiutore, il signor Pictursson, egli faceva presentemente un giro episcopale nel baliaggio del Nord; noi dovevamo rinunciare provvisoriamente ad essergli presentati. Ma un carissimo uomo, e il cui aiuto ci riuscì prezioso, fu il signor Fridriksson, professore di scienze naturali alla scuola di Revkjawik. Questo scienziato modesto, non parlava che l’islandese e il latino: egli mi offerì i suoi servigi nella lingua di Orazio, ed io sentii ch’eravamo fatti per comprenderci, e fu infatti la sola persona colla quale io potessi intrattenermi durante il mio soggiorno in Islanda.

Delle tre camere, ond’era composta la sua casa, l’eccellente uomo ne pose due a nostra disposizione; noi vi ci alloggiammo dopo avervi fatto trasportare i nostri bagagli, la cui quantità fu cagion di stupore per gli abitanti di Reykjawik.

«Or bene, Axel, mi disse mio zio, la cosa procede benissimo, il più difficile è fatto.

— Come, il più difficile? esclamai.

— Senza dubbio, non ne rimane altro che scendere.

— Se voi vedete le cose a questa maniera, avete ragione; ma infine dopo essere discesi converrà risalire, mi pare?

— Oh! questo non m’inquieta punto. Vediamo, non c’è tempo da perdere; vo’ recarmi alla biblioteca; può darsi che vi ritrovi qualche manoscritto di Saknussemm, e sarò lieto di consultarlo.

— Quand’è così, durante questo tempo, io visiterò il paese. Non farete voi altrettanto?

— Oh! ciò m’interessa mediocremente. Ciò che vi ha di curioso in questa terra d’Islanda non è già al disopra ma al disotto.»

Uscii ed errai a caso.

Smarrirsi nelle due vie di Reykjawik non sarebbe stato facile, Però io non fui obbligato a domandare la mia strada, cosa che nella lingua del gesti espone a molti errori.

La città si stende sopra un suolo basso e paludoso fra due colline; un immenso canale di lave la copre da un lato e discende per dolci declivi verso il mare. Dall’altra parte si stende la vasta baia di Faxa limitata al nord dall’enorme ghiacciaio dello Sneffels, e nella quale la sola Valkyrie era in questo momento ancorata. Di solito le navi inglesi e francesi che invigilano le pesche se ne stanno al largo, ma esse erano allora di servizio sulle coste orientali dell’isola.

La più lunga delle due strade di Reykjawik è parallela alla spiaggia; quivi abitano i mercanti e i negozianti in capanne di legno fatte di travi rosse disposte orizzontalmente; l’altra strada situata più all’ovest corre verso un laghetto fra le case del vescovo e delle altre persone estranee al commercio. Io ebbi ben presto misurato queste vie tristi e monotone: intravedevo a volte una zolla scolorita, simile ad un vecchio tappeto di lana consumato dall’uso, o alcun simulacro di verziere i cui rari legumi, patate, cavoli e lattughe avrebbero fatto una brava figura sopra una mensa lilliputiana. Alcune viole malaticcie s’ingegnavano di bevere alcuni raggi di sole.

Verso il mezzo della strada non commerciale, trovai il cimitero pubblico, ricinto da un muro di terra, nel quale non mancava certo il posto. Poi in pochi passi giunsi alla casa del governatore, una topaia al paragone del palazzo civico di Amburgo, un palazzo appetto alle capanne della popolazione islandese.

Fra il laghetto e la città sorgeva la chiesa, fabbricata secondo il gusto protestante, di pietre calcinate, di cui i vulcani fanno le spese di estrazione. Coi grandi venti di ovest il suo tetto di tegole russe doveva evidentemente disperdersi nell’aria con gran danno dei fedeli.

Sur un’eminenza vicina vidi la scuola nazionale dove, come seppi più tardi dal nostro ospite, s’insegnava l’ebraico, l’inglese, il francese e il danese, quattro lingue di cui a mia vergogna non conoscevo sillaba. Sarei stato l’ultimo dei quaranta allievi di questo piccolo collegio e indegno di dormire con essi in certi armadi a due scompartimenti dove allievi più delicati morrebbero soffocati nella prima notte.

In tre ore ebbi visitato non solo la città, ma anche i suoi dintorni, L’aspetto ne era singolarmente triste. Non alberi, e per così dire, non vegetazione di sorta; da per tutto le creste vive delle roccie vulcaniche. Le capanne degl’Islandesi sono fatte di terra e di torba, ed i loro muri piegano innanzi; hanno l’aria di tetti collocati sul terreno; solo che questi tetti sono praterie relativamente feconde, poichè in grazia del calore dell’abitato l’erba vi cresce con una certa perfezione e vien falciata con cura a suo tempo, per impedire che gli animali domestici si arrampichino a pascolare sopra le abitazioni verdeggianti.

Durante la mia escursione, incontrai pochi abitanti; ritornando alla strada commerciale, vidi la maggior parte della popolazione intenta a disseccare, salare e caricare merluzzi, oggetto principale di esportazione. Gli uomini mi parevano robusti, ma pesanti, specie di tedeschi biondi, dall’occhio pensieroso, che si sentono alquanto fuori dell’umanità, poveri esiliati su questa terra di ghiaccio, che avrebbero fatto bene a nascere Eschimesi, poichè la natura li aveva condannati a vivere sul limite del circolo polare! Cercavo invano di cogliere sulla loro faccia un sorriso; essi ridevano tal fiata con una specie di contrazione involontaria dei muscoli, ma non sorridevano mai.

Il loro abbigliamento consisteva in un giacchettone di lana nera, nota nei paesi scandinavi col nome di vadmel, in un cappello a larghe falde, in calzoni listati di rosso ed in un pezzo di cuoio ripiegato in forma di scarpa.

Le donne, dalla faccia triste e rassegnata, dal tipo abbastanza piacevole ma senza espressione, erano vestite d’un corsetto o d’una giubba di vadmel di colore scuro; fanciulle portavano sui capelli intrecciati a foggia di ghirlanda una bruna cuffietta lavorata a maglia; maritate, avviluppavano la testa con un fazzoletto di colore, sormontato da un cimiero di tela bianca.

Dopo una lunga passeggiata, rientrai nella casa del signor Fridrikson, dove mio zio era già in compagnia del suo ospite.

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