< Viaggio al centro della Terra
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Jules Verne - Viaggio al centro della Terra (1864)
Traduzione dal francese di Anonimo (1874)
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XXII.

La discesa ricominciò stavolta nella nuova galleria. Hans camminava dinanzi secondo la sua abitudine, Non avevamo fatto cento passi, che il professore facendo scorrere la lampada lungo la muraglia, sclamava:

«Ecco i terreni primitivi! siamo sulla buona strada! camminiamo! camminiamo!»

Allorchè, nei primi giorni del mondo, la Terra si raffreddò a poco a poco, la diminuzione del suo volume produsse nella sua scorza spostamenti, rotture, restringimenti e crepacci. Il corridoio per cui c’eravamo messi, era una fessura di questo genere per la quale sfuggiva un tempo il granito eruttivo. I suoi mille giri formavano un labirinto inestricabile attraverso il suolo primordiale.

Più discendevamo e più la successione degli strati componenti il terreno primitivo, appariva con chiarezza. La scienza geologica considera il terreno primitivo siccome la base della scorza minerale ed ha riconosciuto che si compone di tre strati differenti, gli schisti, gli gneiss, i micaschisti, riposanti sulla roccia irremovibile che si chiama granito.

Ora non mai mineralogisti si erano trovati in condizioni così meravigliose per studiare la natura sul luogo. Ciò che lo scandaglio, macchina brutale e senza intelligenza, non poteva dire alla superficie del globo intorno alla sua struttura interna, noi stavamo per istudiarlo coi nostri occhi e per toccarlo colle nostre mani.

Attraverso lo strato degli schisti colorati di belle gradazioni verdi, serpeggiavano filoni metallici di rame e di manganese, con qualche traccia di platino ed oro. Io pensava a tante ricchezze nascoste nelle viscere della Terra e di cui l’avida umanità non potrà giammai godere, poichè i cataclismi dei primi giorni hanno seppellito siffatti tesori a tali profondità che non vi sarà zappa, vanga o piccone che possa strapparli alla loro tomba.

Agli schisti succedettero gli gneiss di struttura stratiforme, notevoli per la regolarità e per il parallelismo delle loro pagine; poi i micaschisti disposti a gran lamine poste in evidenza dallo scintillio del mica bianco.

La luce degli apparecchi, ripercossa dalle faccette della massa rocciosa, incrociava i suoi raggi in tutte le direzioni, e mi pareva di viaggiare attraverso un diamante vuoto, nel quale la luce sì frangesse con mille bagliori.

Verso le sei di sera questa luminaria diminuì grado grado fin quasi a cessare; le pareti presero una tinta cristallina ma cupa; il mica si mescolò più intimamente al feldspato ed al quarzo per formare la roccia per eccellenza, la pietra dura più d’ogni altra, quella che sopporta senza essere schiacciata i quattro piani di terreno del globo. Noi eravamo murati nell’immensa prigione di granito.

Erano le otto pomeridiane. L’acqua mancava sempre ed io soffriva orribilmente. Mio zio andava innanzi senza volersi arrestare: egli tendeva l’orecchio per cogliere i mormorii di qualche sorgente, ma non udiva nulla!

Intanto le gambe mi venivano meno. Io resisteva alle mie torture per non obbligare mio zio a fermarsi. Sarebbe stato per lui il colpo disperato, poichè la giornata, ch’era al termine, era l’ultima che gli appartenesse.

Alla fine tutte le forze mi abbandonarono, gettai un grido e caddi.

«Aiuto! io muoio.»

Mio zio ritornò indietro, mi guardò incrociando le braccia, poi pronunziò con voce sorda queste parole:

«Tutto è finito.»

I miei sguardi videro per l’ultima volta uno spaventoso gesto di collera, ed io chiusi gli occhi.

Quando li riaprii, vidi i miei due compagni immobili avvoltolati nella loro coperta. Dormivano essi? per me non potevo provare un istante di sonno; soffrivo assai, e più pensando che il mio male doveva essere senza rimedio. Le ultime parole di mio zio si ripercotevano nel mio orecchio. Ohimè, sì, «tutto era finito» perchè in quello stato di debolezza non bisognava neppur pensare a risalire alla superficie della Terra.

Sopra di noi era una lega e mezza di scorza terrestre! Mi pareva che questa massa premesse con tutto il suo peso sulle mie spalle.

Mi sentivo schiacciato e mi sfibravo in sforzi violenti per voltarmi sul mio letto di granito.

Passarono alcune ore; intorno a noi era un silenzio di tomba; non giungeva alcun rumore attraverso quelle muraglie di cui la più sottile aveva cinque miglia di spessore. E tuttavia così assopito com’ero, credetti di udire un rumore. Il tunnel si oscurava; guardai più intento e mi parve di vedere l’Islandese che spariva tenendo in mano la lampada.

Perchè questa partenza? forse che Hans. ci abbandonava? Mio zio dormiva; volli gridare, ma la voce non potè uscire dalle mie labbra arse. L’oscurità s’era fatta profonda e gli ultimi rumori s’erano estinti.

«Hans ci abbandona, gridai; Hans, Hans!»

Queste parole, io le gridava dentro di me e non andarono più lontano. Peraltro, passato il primo istante di terrore, ebbi vergogna de’ miei sospetti contro un uomo la cui condotta non aveva avuto fino a quel giorno nulla che potesse ispirar diffidenza. La sua partenza non poteva essere una fuga, poichè, invece di risalire la galleria, egli la discendeva. Cattivi disegni l’avrebbero condotto in su, non già abbasso. Questo ragionamento mi calmò un poco e ritornai a un altr’ordine d’idee. Hans, uomo tranquillo, non poteva essere stato tolto al suo riposo se non da un motivo grande. Andava egli alla scoperta? aveva egli udito durante la notte silenziosa qualche murmure che non era giunto fino a me?


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