< Visioni sacre e morali
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Visione III Visione V


VISIONE IV.




SOPRA IL VERO

E

IL FALSO ONORE




Presso all’occaso dell’eterea luce
     Peregrinando io già ne’ lieti colli,
     3Fra cui l’Italo Ren l’acque conduce.
Su gli erti poggi pel diurno molli
     Nembo in opache nubi, e in piogge oscuro,
     6E su i campi di largo umor satolli
Giunsi al torrente, che scorrea men puro
     Con onde tinte di montano limo,
     9E il varco ingannator scoprìa securo;
Tal ch’io troppo affidando al guardo primo
     Il cor voglioso dell’opposta riva
     12Il gorgo superai torbido ed imo
Su mobil ponte, e nella sabbia viva
     Scesi, credendo fra il sassoso letto
     15Facil la strada, e di periglio priva.
Parvemi vago sì quel novo obbietto,
     Ch’io m’arrestai per riguardar dei vari
     18Monti dattorno al fiume il vario aspetto;

Che verdescuri i più vicini, e chiari
     Offrìansi a me i lontani, indi gli estremi
     21Azzurri, e in vetta fra di lor non pari.
Illanguidìro intanto i rai supremi
     Sotto il vel fosco dell’umida sera,
     24Che incerti fea, perchè di lume scemi,
Gli obbliqui calli; ed io smarrii la vera
     Traccia, e confuso m’aggirai più volte
     27Per l’ingombra di boschi ampia riviera.
Dall’altissime balze alfin le sciolte
     Acque precipitàro entro al torrente,
     30Nel gran pendìo romoreggiando folte
Fra svelti massi e tronchi, e fra stridente
     Vento, che sorto fuor con non mai stracche
     33Ali dai cupi antri dell’Alpe algente,
Curvò de’ vinchi le Termene fiacche,
     E de’ ginepri le spinose piante
     36Torse, e ne scosse le odorate bacche.
Io, cui morte si pinse agli occhi avante,
     Ritentai mille fra l’arene e l’onde
     39Modi per trar d’impiglio il piede errante;
Ma mille intorno a me nuove e profonde
     Vie s’apersero i flutti, e al passo ardito
     42Fér ambe inaccessibili le sponde.
Quindi il timor mi spinse ove un muggito
     Lamentevol, che uscìa dal pian selvoso,
     45Rendea sonante raucamente il lito.
Il replicato frombo, e il luminoso
     Raggio, che apparve del minor pianeta
     48Nel terren per le selci aspre scabroso,
E pe’ bronchi, mi fur scorte alla meta.
     Colà ad un ceppo annoso un toro avvinto
     51Mirai, che dibattea coll’inquieta

Fronte la doppia fune, ond’era cinto;
     E muggia d’ira, che del tronco a lato
     54Dall’intrecciata corda ei fosse vinto:
Stretto ivi forse fu da sconsigliato
     Arator che da folte acque sorpreso
     57Tentò un sentier per esplorar se dato
Scampo a lui fosse a ricondurlo illeso
     Su qualche ripa, e cadde all’urto grave
     60Del fier torrente in fondo ai gorghi steso
Poiché vicin mi vide, ei colle cave
     Fumose nari il petto mio sì spesso
     63Fiutò, guardando ad or ad or la trave
Con vive barbe al suol fitta, che in esso
     Ben conobb’io per quelle rozze e mute
     66Preci il desio di libertade espresso.
Speme in me sorse allor, ch’ambo ne ajute
     L’alterna opra, e il periglio, e che il suo sciolto
     69Laccio esser deggia ad ambi insiem salute:
Ch’io per esso esca fuor dal bosco folto
     Su le vie certe, e dalle rapid’acque
     72Col nuoto, ove il varcarle al guado è tolto.
Questo pensier nell’improvvisa piacque
     Sorte avversa al mio cor, perchè non mai
     75Fra mille che nascean questo in me tacque.
Quindi il toro dal fermo arbor slegai;
     Ma il raddoppiato, e fra le corna intorto
     78Canape nella man stretto serbai.
Ei mosse; ed io con lui pavido e smorto
     Scorsi l’inestricabile foresta
     81Per calle or ampio, ed or angusto, e torto.
Valicai late conche, in cui s’arresta
     Pei labbri alti grossa onda, e in macchie nove
     84E in nuovi rivi d’acqua a sfuggir presta

Seguii col piè le inimitabil prove
     Di sì robusto condottier, chè vano
     87Era a lena minor volgerlo altrove.
Giunti là ’ve con violento e strano
     Impeto gorgogliava il maggior carco
     90Dei vortici cadenti al basso piano,
Il toro prìa tentò coll’ugna il varco,
     Poi lento profondessi; e mentre ei scese,
     93Io della corda sì corto féi l’arco,
Che al collo irsuto il braccio mio si stese,
     E col nuoto, che al bue prestò natura,
     96Lieve il mio corpo notator si rese.
Traendomi pei gonfj oltre misura
     Flutti, in parte ei ne ruppe il corso, e in parte
     99Cesse alla forza nell’urtar più dura;
E galleggiando obbliquo infra le sparte
     Nella riviera erbe, virgulti e spume.
     102Tardi afferrò con malagevol’arte
Le ripe, ove il guidò sorte, o costume.
     Ivi lo sciolsi; ed ei per le frondose
     105Sponde natìe si dileguò del fiume.
Pien d’affannato tremito le ondose
     Voragini io guatava ed il periglio,
     108In cui la sconsighata alma si pose,
E con aperte labbra e arcato ciglio
     Da stupido terror pendea confuso
     111Qual via scegliessi nell’ignoto esiglio:
Quando un sentier fra due pari argin chiuso
     Al destro lato io vidi, in cui mi parve
     114Lume da lungi serpeggiar diffuso;
E in esso forma d’Uom dubbia m’apparve,
     Ch’esser credei per 1’adombrata luna
     117Dai tronchi error d’immaginate larve.

Ma fra i pallidi rai scorgendo bruna
     L’ombra da un corpo stesa a me appressarse,
     120Certo mi resi alfin, che la fortuna
Volle offrendomi un Uom fausta mostrarse,
     Che pellegrin sembrommi alle pendenti
     123Su l’incerato lin conchiglie sparse.
Egli, che i passi in maestade lenti
     Movea, perchè più presso a me si trasse,
     126Raddolcì con un riso i primi accenti;
E disse: Oh eletto a rischiarar le basse
     Menti col sacro stil! desta, e conforta
     129Per novello cammin le membra lasse.
Chè non senza voler di Dio la corta
     Degli occhi tuoi virtude in me s’affisa,
     132Che nel torrente fida a te fui scorta;
Ne già sol fra que’ flutti, in cui divisa
     Tenni da te della tua morte l’ora,
     135Ma la tua morte ognor meco è indivisa:
Io per te veglio, quando il lume indora
     Diurno l’ima terra, e quando cresce
     138La notte l’ombre in aspettar l’aurora,
Perchè da chi mi bea mirabil esce
     Grazia, che il tuo cor duro alletta e molce,
     141E fra i liberi tuoi desir si mesce
Così, che co’ suoi rai la debil folce
     Alma, e l’addestra ad un trionfo amaro,
     144Ove il perder a lei fora più dolce.
Tu già spezzasti quei che ti piagàro
     Strali d’ amor, e del tuo laccio crudo
     147Le tue lagrime pie l’orme bagnàro.
Vincesti; e qual guerrier, che il campo nudo
     Di nemici si finga, ai primi allori
     150La vittrice appendesti asta e lo scudo;

Ma il maligno Angel gli odj empi e i furori
     Non obblìa vinto, anzi t’assale audace
     153Coll’arti atte a invescarti in folli onori;
E mentre la fumosa esca fallace
     Porge alla tua ragion, ella non vede,
     156Che dentro ha guerra, e fuor nebbia, e non pace.
Or per questo, che il lembo ai monti fiede,
     Calle segnato da languide strisce
     159Di lontan lume volgi meco il piede,
Che al termin suo vedrai come rapisce
     Il vero onor la palma al falso, e come
     162Mentre eterno splende un, l’altro perisce.
Di sue pupille i lampi, che le chiome
     Tratto tratto lambìan, fede mi féro,
     165Ch’egli avea in fronte di Jeovà il nome;
Ond’io tacito, umile, e col pensiero
     Pien di Dio, che apparìa ne’ sguardi sui,
     168Nell’additato entrai cavo sentiero.
La luce, che radea que’ lati bui,
     Sì crescea viva al raddoppiar de’ passi,
     171Ch’io volto alfin maravigliando a Lui
Dissi: Deh! tu, su le cui ciglia stassi
     Tal d’immortalitade immagin chiara,
     174Che palese anche a fragil occhio fassi,
Tu, cui son io tenera, e forse amara
     Cura fra i lunghi errori, Angel felice,
     177Scoprimi qual fulgor queste rischiara
Sì basse vie, poiché densa pendice
     Il disco della luna argenteo vela,
     180Nè tanto piover lume agli astri lice.
Delle Felsinee piagge ah! non mi cela
     In qual parte io m’aggiri. Egli soggiunse:
     183Sei dove scorgi quel che Dio ti svela.

Te dai colli di Felsina disgiunse
     Divina forza, per cui dentro ignote
     186Terre il tuo piè fuor del suo scopo giunse;
Né in questi sacri al ver luoghi mai puote
     Uom penetrar, bench’egli abbia agli scarchi
     189Fianchi le piume di torpedin vote,
Se il torrente fatal, che tragge carchi
     D’ingorde brame i vorticosi affetti,
     192Ei pria non urti arditamente e varchi.
Tu il superasti; chè al tuo scampo eletti,
     E inaspettati Dio modi t’offerse,
     195Che avresti, s’ei non ti reggea, negletti.
Or questo, che sì angusto a te s’aperse,
     Di salute è il cammin, che di faville
     198Crescenti ognor la viva fede asperse.
Tu, più che a lei t’appressi, a mille a mille
     Scorgi dintorno a te le sue vittrici
     201Del tenebroso orror faci tranquille;
Ed al tuo Spirto invan fra i rei nemici
     Il più reo di sé stesso il cieco amore
     204Annebbia i semi di ragion felici,
Ch’essa coll’iterar il suo splendore
     La notte fuga insidiosa, e veste
     207Di più fermo vigor l’incerto core.
In così dir Egli movea le preste
     Leggiadre piante, ed io il seguia su l’orme ,
     210Che ne lasciava levemente péste:
E ben sentìa dal torpor mio disciorme
     Al rinforzar dei raggi, e ai detti sacri
     213Rinascer dentro me lena conforme.
Per gli strati di sabbia arida macri,
     Che rendean i sentier dell’ima fossa
     216Fra ghaja acuta disastrosi ed acri,

Poggiammo a un margin largo, onde già mossa
     Scendea la luce nell’oscuro fondo,
     219Su cui spinser le mie vertebre l’ossa.
Il margo argin formava ad un profondo
     Fiume, che d’archi e tronchi muri un monte
     222Erto radea rapidamente a tondo,
Cui libero porgea tragitto un ponte,
     Che sovrastava col pietroso dorso
     225Di cotant’acque alla perpetua fonte,
Che, benché velocissime nel corso,
     Pur tacite sfuggìan, come se fosse
     228Un rigagnol di pingue olio ivi scorso.
Sovra quel masso, ov’io salii, mostrosse
     Tal di miste fra lor forme un’immago,
     231Che a svilupparle in sé il pensier levosse.
Nata allo scettro, anzi che al fuso e all’ago.
     Una Vergin vid’io, cui su le ciglia
     234Astro splendea mirabilmente vago:
Da un lato in guisa d’uom, che la consiglia,
     Strigneala fra le braccia un Garzon forte
     237Fasciato gli occhi di benda vermiglia,
E cinto il crin, che ombrava a lui le smorte
     Guance, d’aspidi, qual pinse l’Egitto
     240Iside colle serpi al capo attorte.
Parlando ei la svolgea dal cammin dritto
     Sovra un ingannator fiorito vallo,
     243Che attorno al fiume strada era al delitto;
E in parlar diffondea fumo dal giallo
     Labbro, offuscando a lei l’astro sul viso,
     246Come per fiato appannasi il cristallo.
Dall’altro Donna, che un celeste riso
     Sotto candido vel tralucer fea,
     249Stavale accanto, e col non mai diviso

Braccio da quel di lei la rivolgea
     Verso il marmoreo ponte, e dalla bella
     252Velata faccia tramandar parea
Lampo sì acuto in fronte alla Donzella,
     Che del caliginoso anto ad onta
     255Le rallumava l’annebbiata stella.
La varia effigie penetrò sì pronta
     Là dove la pensosa Alma in sé stessa
     258Con quel, che udì, la vision raffronta,
Che in quel nodo ragion conobbi oppressa
     Dal proprio amor malnato, e al gran cimento
     261Rinvigorita dalla luce spessa
Della Fé sacra, che in eletto argento
     Tai lettre al manto avea tessute: Io sono
     264Delle invisibil cose alto argomento.
Ma nè le spinte in giù senza dar suono
     Acque io compresi, nè quel monte quasi
     267Lasciato ai bruchi e ai serpi in abbandono.
Quindi alla Guida, che de’ scuri casi
     La caligin m’aprìa, richiesi aita
     270Fra i pensier foschi, ov’ io dubbio rimasi;
Ed Egli mi rispose: Il fiume addita
     Il continuo degli anni ordin secreto,
     273Che le terrene, inerti, o che abbian vita,
Frali sostanze urta, e si tragge dreto;
     E bench’ei tutte struggale nel volo,
     276Precipitosamente fugge cheto.
Quel che par monte, aspra congerie è solo
     Di fastose ruine, e di spezzati
     279Scettri, e trofei sparsi dal tempo al suolo,
Sovra cui tra flagelli ed intrecciati
     Spini stassi d’Onor 1’unica insegna,
     282Nota alle prische e alle novelle etati,

Che in braccio surse d’Umiltate, e degna
     Fu, che a lei serbi dopo l’onte acerbe
     285Nome immortal chi eternamente regna.
L’esterne ripe, in cui tra i fiori e l’erbe
     Celansi ingrati al piè triboli ciechi,
     288Ingombre son dall’Anime superbe,
Che fede non allumi, o colpa acciechi;
     E queste vanno alla riviera intorno,
     291. Tinte d’invidia ria gli sguardi biechi,
Qual se lor fosse l’altrui gloria scorno,
     Finché ingorde d’onor, di pace nude
     294Le perda nell’obblio l’ultimo giorno.
Ma vieni. Il monte, ch’entro sè racchiude
     L’Alme pie, quelle ancor fia che ti scopra,
     297Che cercan fama ove non è virtude.
Tacque; ed io m’avviai veloce sopra
     I curvati archi entro quell’acque, e scolti
     300Le scabre sponde con rozzissim’opra;
Chè non gl’ingegni a saziar più colti
     Le ammorbidì scarpello, anzi le incise
     303Con util modi, e accortamente incolti.
In orribile mostra il Fabbro mise
     I trionfi di Morte, e i Duci, e i Regi,
     306Cui le orgogliose teste ella recise,
Nè gli empj sol, ma i Regnatori egregi;
     Perchè i vani ostri a paragon de’ veri
     309Oltre misura il successor non pregi.
Orator sommi, e Vati al voi leggieri
     Fervido, e illustri Donne, e in nobil’arti
     312Chiunque gloria avidamente speri,
Scoprìan ne’ corpi infracidati e sparti
     L’amaro fin, che il tutto in cener volve;
     315E impresso ivi leggeasi in mille parti:

A che t’alzi cotanto, o enfiata polve,
     Se invincibile ognor hai vento al fianco
     318Che ti rispinge a terra, e ti dissolve?
Coi tetri simulacri entraronmi anco
     I tristi carmi al cor, sì ch’io divenni
     321Smarrito e in umiltà pavida bianco,
Finché al termin del ponte infausto venni,
     In cui d’atro scheggion sovra il pendìo
     324Tai rilevate in fuor note rinvenni:
Stolto è pensier, che il gran Figliuol di Dio
     Sen gisse a morte inonorato e lasso:
     327Creder dunque forz’è ch’egli morìo.
Lo strano argomentar scritto in quel sasso
     L’intelletto, che in sé il volgea, confuse
     330Fra maggior notte, e mi sospese il passo.
Ma lo stupor, che a me le labbra chiuse,
     Alla Guida le aprì, che gridò: Segui
     333Il cammin, che la Fede a te dischiuse
Fra gli error tuoi, finché il tuo piede adegui
     L’obbietto suo; chè in breve fia che questo
     336Nuvol d’oscure idee ti si dilegui.
Allora cominciai del colle mesto
     A valicar la tortuosa via
     339Rasante il corso del fiume funesto,
Donde i fioriti margin io scoprìa,
     Su cui vagando in affannoso moto
     342Densa turba il fallace Onor seguìa;
Ma d’acquistarlo il modo erami ignoto,
     Nullo scorgendo in quegli erbosi lidi
     345Obbietto altier dell’ingannevol voto.
Quando levati gli occhi al cielo io vidi
     Corone aurate, e immarcescibil serti,
     348Che librati a diritto esser m’avvidi

Ne’ campi al volo delle nubi aperti
     Su la montagna di macerie alzata,
     351Come se a chi salia fosser offerti.
Questi da trina insiem luce intralciata
     In un sol lume, che il pien aere ingombra,
     354Accesi eran così, che la lustrata
Parte di lor piovea chiarezza sgombra
     D’ogni nebbia sul monte, e l’altra opposta
     357Di là dall’acque diffondea lung’ombra,
Per cui l'effigie vana in su la crosta
     Vergata a’ fiori dell’amene rive
     360Si distinguea languidamente posta.
Tai finte larve di sostanza prive
     A sé stesse traean con forza maga
     363L’Anime d’umiltà nemiche e schive,
Che in quella sponda cruda insiem e vaga
     Pascean di lusinghier fumo lor voglia
     366Ne’ suoi furori ardente, e non mai paga.
Oh quanti oppressi dall’interna doglia
     Più che trafitti dai pungenti pruni
     369Dell’erbe ascosi tra la verde foglia
Languian nel suolo di vigor digiuni,
     E semivivi, e ognor fisi avean gli occhi
     372Delle fallaci impronte ai segni bruni,
Chiedendo invan, che d’ombra almen trabocchi
     Striscia leve sovr’essi, e che uno sguardo
     375Mite di chi la possedea lor tocchi.
Altri, che audaci più rendea gagliardo
     Fervor del core in nerborute membra
     378Dell’ira sventolar fean lo stendardo,
Dietro cui popol già truce, che sembra
     Dalle ciglia spirar eccidio e lutto,
     381E nell'impeto il fulmine rassembra;

Ma da’ contrarj a lor Duci condutto
     Stuol ne’ superbi suoi vanti feroce
     384Dalle tenebre nato a corre il frutto.
Grande movea conflitto; e per la voce
     Fiera, e per opre al minacciar eguali
     387Tal nascea strage d’ambo i lati atroce,
Che coperte apparian d’archi e di strali,
     D’aste e di busti in largo sangue estinti
     390Le ripe all’orgoglioso ardir fatali;
Finche securo il vincitor fra i vinti
     Gli smorti s’imprimea vestigj in seno
     393Dalla corona ombrifera dipinti.
Allor piegavan tutte in un baleno
     Le genti e vincitrici e debellate
     396L’umil malgrado lor fronte al suo freno;
E piramidi e statue in bronzo aurate
     Ergeangli; e benché avesse il cor selvaggio,
     399Eroe d’armi era inscritto, e di pietate.
Alcun fra quei vid’io ne’ modi saggio,
     Che volontaria quasi, e a lui rivolta
     402Accogliea l’ombra, e ne adorava il raggio,
Che tal le diè forma dal bujo involta;
     Nè fasto reo, ma dignitate e merto
     405Discorde il fea da cpiella turba stolta.
Altri intenti a mostrar l’ingegno esperto
     Nella ragion del trono, ed altri dietro
     408Alle scarse orme del saper incerto;
Altri alle colte prose, ed altri al metro
     robusto, o alla gentil più dolce vena
     411Delle vote ghirlande ambian lo spetro;
E frodi all’altrui danno, e nell’arena
     Erbigera tessean lacci inumani
     414Ove lor venia men valore e lena:

Ma tutti alfin, mentre i pensier insani
     Rinvigorìan su l’esecrato lido,
     417Vana mercede avean gli spirti vani;
Chè solo essa al di fuor spargea 1’infido
     Gaudio, né potea mai fra vera speme
     420Dei desir immortali entrar nel nido.
Quindi improvvisa 1’onda, che non freme,
     Rapìali enfiando, o in più terribil guerra
     423Gli assorbìa svelti colle rive insieme.
Metteva il fiume allor per l'ampia terra
     Alto un rimbombo ad assordarne i regni;
     426Poi taciturno proseguia sotterra.
Poiché gli alterni invidi affanni e sdegni
     De’ miseri mirai, gli occhi rivolsi
     429A que’, che il Colle fe’ di pace degni.
Ben della strada inospite mi dolsi
     Guasta da guglie e monumenti infranti;
     432E dai scolpiti in lor nomi raccolsi,
Che de’più alteri Cesari, e di quanti
     Raro ebber tra i mortali onor sublime
     435Semisepolti ivi giacean i vanti.
Sovra la rotta via, fin alle cime
     Stesa del Colle, imprimer dee chi sale
     438L’ultime tracce sue, come le prime;
Perchè sol l’aureo serto e trionfale
     Cinge colui che sul confin estremo
     441Calpesta il fasto della gloria frale.
Quanto diverso da quel popol scemo
     Di virtude era questo! E qual con atti
     444Tranquilli in sé chiudea vigor supremo!
Parean i Viator soave tratti
     Là ’ve serbar non era dato ad essi
     447Dalle taglienti schegge i piedi intatti;

Par qual se piagge varcasser di spessi
     Roridi gigli e molli fior vestite,
     450Vincean l’asprezza di que’ marmi fessi.
Non che senso destasser le ferite
     Scevro di duolo nella parte offesa;
     453Ma perche piaga, ove Amor l’apra, è mite.
Sacro è il dolor alla speranza accesa
     Dal lume onnipossente, onde risplende
     456La corona nell’alte aure sospesa,
Che folgorando in essa i raggi stende
     Riflessi al poggio alpestre, e dall’eterno
     459Suo fonte a chi gli abbraccia in sen discende.
Nè coi placidi sol lampi l'esterno
     Velo gl'indora, ma le ascose giunge
     462A ricercar fibre del core interno,
E la virtù gli avviva allor che il punge;
     E in incitarlo all’onorata palma
     465Nove ognor penne al desiderio aggiunge.
Ivi ogni peregrina ed elett’Alma
     Ben s’avvede calcando il cammin tristo,
     468E per l’infusa in lei dal Cielo calma,
Di libertà, ma più di grazia misto
     È il varco alla gran meta, e all’opre umili
     471Più don, che premio è il glorioso acquisto:
Quindi ricca di Dio nelle servili
     Spoglie abbietta di sè gode far mostra,
     474E, ancor che forte, assomigliarsi ai vili.
Oh alle felici cure amica chiostra!
     Cui l'erme rupi ed i sentier solinghi
     477Umiltà infiora, e stabil gloria innostra.
Così sclamai spingendo i pie raminghi
     Sovra un sasso erto sì, che ne scoprìro
     480Que’, che l’ombra laggiù par che lusinghi;

Che noi scorgendo a compier pronti il giro
     Delle scoscese vie dietro tai grida:
     483Ah forsennati! e qual cieco deliro
Sovra sterili balze ora vi guida?
     Qual vi trae fama nell’ignobi loco,
     486Ove nulla d’Onor speme v’affida,
Anzi v’aspetta sol ludibrio e gioco?
     Per queste voci, onta spiranti e danno,
     489All’Angiol dissi: Oimè! molto, nè poco
Il lor misero fin color non sanno.
     Ma donde avvien che gl’ingannati a prova,
     492Noi, che seguiam il ver, taccian d’inganno?
Ed egli a me: Nel tuo pensier rinnova
     Quei, che su lo scheggion carmi leggesti
     495Ignoti a te, che il rammentarli or giova.
Gli sparsi dal primo Uom semi funesti
     Di necessario error nell’Alme umane
     498Dal guasto cor più sviluppati e desti
Tolsero il ragionar dritto alle vane
     Menti, che nelle oscurità natìe
     501Dal retto senno idee nudrìr lontane;
Onde le voglie in gonfio orgoglio rie
     Giuste sembràro all’offuscato germe,
     504Cui d’umiltate chiuse eran le vie.
Or chi pel seme, e pel costume inferme
     Le genti trar potea dai falsi liti
     507Di gloria, ov’eran ciecamente ferme,
Ed ove quei, che fur tra il volgo arditi,
     Falso a portar di sapienza ammanto,
     510Degli altri anch’essi a par givan smarriti?
Dovea grande, inudito esser, e tanto
     Maggior d’ogni pensar l’esempio umìle,
     513Quant’era sommo d’alterezza il vanto;

Tal che in mostrarsi a chi lo diè simile,
     Nullo, e indocile ancor fra i più superbi
     516Schivo ne fosse, o il riputasse a vile.
Oh invincibile Amor! che per l’Uom serbi
     Non mai stanca pietade, a te si debbe,
     519Che obbietto or sian d’onor gli scherni acerbi:
Per te carne vestir fral non increbbe
     Al Verbo eterno. In così dir piegossi
     522L’Angel profondamente; e poich’ gli ebbe
Adorato l’Uom-Dio, dal suolo alzossi,
     E ripigliò. Non qual l’Ebrea sel finse
     525Vanitade, in real pompa spiegossi
Questi: non mai lo scettro avito strinse
     A lui dovuto e alla Virginea Madre;
     528Ma ad umiltate squallida s’avvinse;
E mentre mille avea d’Angeli squadre
     A un cenno pronte, e co’ prodigj immensi
     531Palese in sè fea la virtù del Padre,
Sì spregevole amò stato, cui pensi
     Invan giunger altr’uom abbietto, e fèlse
     534Segno ai sospir di caritate accensi;
E confitto sul tronco infame scelse
     Pender qual reo, finché l’Alma divina,
     537Non forza altrui, ma suo voler gli svelse.
D’amor maravigliosa opra sì fina
     Come estimolla coi mentiti Saggi
     540La sapìenza insiem Greca e Latina?
Questa di finti Dei nomi e lignaggi
     A compor usa, ed a crearsi i Numi
     543Facili agli odj ed agli alterni oltraggi,
E pari agli empj ne’ peggior costumi,
     A folle ascrisse atto di Fé, che in braccio
     546Di morte un Dio chiuder volesse i lumi:

Né potè a stretta dell’error fra il laccio
     Altramente pensar, finché benigna
     549Grazia del Giel non la togliea d’impaccio,
Svelando a lei, che il putrido, che alligna
     Germoglio in essa di desir perversi,
     552La rendea torta, e in giudicar maligna:
Chè nel pregio, in cui dee la vera aversi
     Gloria, troppo di Dio, che ben l’apprezza,
     555Sono i pensier da quei dell’Uom diversi;
E che argomento illustre è di certezza,
     Che un Dio morì, perché fatto sì grande
     558Al mondo menzogner sembrò stoltezza;
Mentre il chiaror qualunque sia che mande
     L’Onor caduco, innanzi agli occhi eterni
     561Notte invece di lume orrida spande.
La cagion venenata, onde gl’interni
     Moti dell’Alme infetti furo e guasti,
     564Acceca or quei, che in noi bestemmie e scherni
Vibrando errar sul verde argin mirasti,
     Che di vertigin nova ebbri e d’antica
     567False credon le vie, che tu calcasti;
E accusan di follia color, che amica
     Fede condusse del difficil Colle
     570Sovra la falda sterilmente aprica:
Ma spento in morte quel che in essi bolle
     Di tenebrate idee vapor condenso,
     573Vedran, colpando il desìo lor di folle,
Che una mente, cui dato è il dono estense
     D’accoglier Dio, da lui se si divide,
     576Tanto vota divien, quant’egli é immenso:
E in vacuo sì crudel s’agita e stride,
     S’adira, e piagne invan, chiamando tardi
     579Pietà, che torva al suo dolor sorride.

Fra tai detti, che a par d’accesi dardi
     M'infiammaron il cor, giunsi alla vetta
     582Spossato, ansante; ed a’ miei primi sguardi
Donna s’offerse di beltà perfetta,
     Alla cui fronte un non so che d’ombrosa
     585Tenue nebbia aggiugnea grazia negletta.
Sacco aspro la coprìa, ma luminosa
     Di gemme un’altra avea gonna distinta
     588Dall’intessuto canape nascosa,
Che a celar pronta ell’era allor che spinta
     Dalle fresche aure in quella rupe brulla
     591La veste vil s’apria, come discinta.
Circondava i capei della Fanciulla
     Bruna fascia, ove scritto era in zaffiri:
     594Stella in Dio sono, ed in me polve e nulla
Grave Croce stringea cinta da giri
     Doppj di spine e da flagelli crudi,
     597Argomento d'infamia e di martìri.
Ella è termin felice a quei, che i rudi
     Sassi premendo, a invidiabil fama
     600Aspiran d'ogni mortal gloria ignudi;
Ella stanchi gli allena, e a sé li chiama,
     E sazia in essi con soavi modi
     603Negli ultimi respir l'ultima brama;
Ch'altri titoli eccelsi, ed altre lodi
     Ella prepara, altro, che tutti abbraccia
     606Gli eterni fasti, Onor più raro ai prodi.
Essi a' pie d'Umiltade alzan le braccia
     All’arbor santo, e ai pii sospir ne sgorga
     609Sulla sparuta lor languida faccia
Quel Sangue, senza cui non fia ch’Uom sorga
     Dal lordo della colpa incarco greve,
     612E grate a Dio lagrime e voti ei porga;

Mentre i divini umor l’Anima beve,
     Gelido lascia il fral su la montagna,
     615A morte no, ma a dolce sonno e leve;
E allor quella, che fu sempre compagna
     Ai desir suoi, nell’aere alta corona
     618Con lei supera gli astri, e l’accompagna.
Fra color, cui sì bel fato sprigiona
     Lo spirto dalla spoglia, in un m’affisi,
     621Che parve a me già nota esser persona.
Per ravvisarlo più me accanto misi
     Alla Donna, alle cui piante gli stanchi
     624Membri ei posò di sudor freddo intrisi.
Benché i cavi occhi, e gl’irti crini bianchi,
     Le smunte guance, e gli aneliti corti
     627Fra il palpitar del petto egro e de’ fianchi
Rendesser di sua forma i segni smorti,
     Pur lo conobbi; e: Oh troppo caro al Cielo!
     630Gridai, oh scelto alle beate sorti!
Tu sei, nè già m’inganna il fragil velo,
     Lionardo di Liguria. Ah! per quai rotte
     633Pendici, e aperte al caldo estivo e al gelo,
E fra quant’Alme dietro a’ tuoi condotte
     Vestigj umìli a terminar qui giungi
     636Nel giorno eterno la terrena notte?
Oh lieta ora! in cui novo Angel t’aggiungi
     Ai Cori eletti, e in cui celar non puoi
     639Quelle virtù, che in te splendean da lungi.
Or la stessa Umiltate i pregi suoi
     Non ascosi più, no, ma chiari a quanta
     642Turba accoglie l’Empiro, accoppia ai tuoi:
E in te apparir lucida fa la santa
     Fiamma d’amor, e fra le nubi sue
     645Fede, che a Speme il sen d’usbergo ammanta,

E Povertade rigida, che fue
     Tranquilliimente pronta a render levi
     648L’aspre altrui pene, ed a gravar le tue.
Lascia, che la tua destra in questi brevi
     Momenti io baci, e un lagrimcvol pegno
     651Da me di riverenza almen ricevi.
Ei di vita benché languido segno
     Mostrasse appena, in me le luci fisse,
     654Che divampàr di sacro zelo e sdegno;
E la man ritraendo: Ah! perchè, disse,
     Tenti tu ne’ sospir di morte un reo,
     657Che all’immensa Pietade ingrato visse?
Quel Dio, che a noi vittima umil si féo,
     Perdoni a me, ch’ambe le braccia stendo
     660Alla Croce, in cui spento egli pendéo:
E il legno in abbracciar soggiunse: Io rendo
     L’Alma, che i falli suoi piange, e non scusa,
     663A Te, da cui la mia salvezza attendo.
Deh! impetra, io replicai, che appien diffusa
     Sul mio misero cor zampilli, e docce
     666La gran fonte non mai di grazie chiusa,
Che innonda queste avventurate rocce.
     Ma tal dal tronco sovra lui, che langue,
     669Pioggia grondò di sanguinose gocce,
Che tutto il tinse. Era la faccia sangue,
     E sangue il busto, e i lati. Egli divenne
     672Muto corpo, e ne’ moti estremi esangue,
E il disciolto spiegò Spirto le penne
     Della sua gloria al centro, e la ghirlanda
     675Aurea serbata a lui dietro gli tenne.
La Donna indi sclamò forte: Si spanda
     La memorabil fama ovimque il sole
     678Le fiamme sue nel globo opaco manda;

Ch’egli è voler di Chi può quel che vuole,
     Che quanto il Servo suo d’orgoglio schivi
     681Ebbe i desir, tant’alto ascenda e vole.
Poi questa in cielo udii voce: Fra i Divi
     Tu, Eternitade, che in te giri e nasci,
     684Nel volume immortal Lionardo scrivi,
E della beatrice ambrosia il pasci,
     Che non avvien giammai di chi la sugge,
     687Ch’avida e paga insiem l’Alma non lasci.
Allor, qual fumo, che attraverso fugge
     Sospinto dal soffiar d’austro, o di coro,
     690E nell’aereo vortice si strugge,
Sparver dal monte le corone d’oro;
     E quelle immagin tutte ancor perdei;
     693E l’Angel dopo lo svanir di loro
Ultimo si nascose agli occhi miei.

ANNOTAZIONI


ALLA QUARTA VISIONE.



Pag. 63. Io sono
Delle invisibil cose alto argomento.

Tale si è la definizione, che della Fede ci dà l’Apostolo nella sua Ep. agli Ebrei: Est autem Fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium.

Pag. 65. Stolto è pensier, che il gran Figliuol di Dio
Sen gisse a morte inonorato e lasso:
Creder dunque forz’è, ch’egli morìo.

Strano per verità è questo modo di argomentare, come lo confessa lo stesso Autore nella seguente terzina: ma egli l’ha tratto da Tertulliano, il quale nel suo libro De Carne Christi, nella prima parte di quello, combattendo l’opinione dell’eresiarca Marcione, lasciò scritte queste tre proposizioni: Natus est Dei Filius: non pudet, quia pudendum est; et mortuus est Dei filius: pror sus credibile est, quia ineptum est. Et sepultus resurrexit: certum est, quia impossibile est. E vuol dire, s’io mal non avviso, questo Padre: Voi altri infedeli ed eretici dite, che è cosa obbrobriosa pel Figliuol di Dio il dire, ch’egli abbia presa carne umana, e sia nato di donna. Aggiungete: essere stoltezza l’asserire, che un Dio sia morto, e molto più confìtto ad una croce; siccome altresì vi sembra il suo Risorgimento una stoltezza. Ed io, dice Tertulliano, per ciò appunto che voi lo negate, asserisco e sostengo, che noi non dobbiamo vergognarci di adorare un Dio fatto uomo, e nato di donna, perchè Egli non s’è di ciò Vergognato. E se voi riputate una stoltezza il dire, ch’ Egli a morto sopra una croce, questo vostro sentimento diviene per noi un argomento di credibilità per asserir francamente, che intatti egli è morto così. Come eziandio diviene per noi un argomento di certezza il suo glorioso Risorgimento, per ciò appunto che voi lo spacciate un impossibile; appoggiandosi, cred’io, questo Padre nel cosi argomentare a quel testo di san Paolo nell’Epistola I. ad Cor. cap. I, che dice: Praedicamus Christum Crucifixum, Judaeis quidem scandalum, Gentibus autem stultitiam. Or siccome questa idea dei Giudei e dei Gentili è del tutto conforme alle massime, che del falso onore e della fallace gloria mondana suggerisce lo storto pensare della guasta umana natura, quindi l’Autore prende a spiegare la seconda proposizione di Tertulliano da quel verso

Pag. 70. Gli sparsi dal primo Uom semi funesti

mostrando come l’incarnata Sapienza, a disingannare gli uomini delle false idee da lor concepite intorno al vero onore, s’appigliò ad una vita umile ed abbietta, siccome quella che sicuramente li guidava all’eterna salute; onde l’esempio di un Dio umanato, che canonizzava in se stesso gli avvilimenti di una vita povera, e gli obbrobri della croce, fosse per loro un invincibile argomento a ricredersi della vana opinione, che ormavansi riguardo all’onore. Questo modo di argomentare, che non è per verità secondo il rigor dialettico, egli è però del tutto conforme ai principi della cristiana filosofia, cui l’Autore pretende di esporre e sostenere in questa sua Visione.

Pag. 72. Mentre il chiaror qualunque sia che mande
L’Onor caduco, ec.

Della vanità del mondano onore dicesi nel cap. II del primo libro de’ Maccabei: Gloria ejus stercus, et vermis est; e l’Apostolo: Quod altum est hominibus, abominatio est coram Deo.

P. 74. Tu sei, nè già m’inganna il fragli velo,
Lionardo di Liguria.

Il Padre Fra Leonardo da Porto-Maurizio Minor Riformato, morto in odore di santità, e celebre per le sue Apostoliche fatiche in tutta l’Italia.

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