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CAPITOLO QUARTO.
Sviluppo dell’indole indicato da varj fattarelli.
1756 L’indole, che io andava intanto manifestando in quei primi anni della nascente ragione, era questa. Taciturno e placido, per lo più; ma alle volte loquacissimo e vivacissimo; e quasi sempre negli estremi contrarj: ostinato e restio contro la forza; pieghevolissimo agli avvisi amorevoli; rattenuto più che da nessun’altra cosa dal timore d’essere sgridato; suscettibile di vergognarmi fino all’eccesso, e inflessibile se io veniva preso a ritroso.
Ma, per meglio dar conto ad altrui e a me stesso di quelle qualità primitive che la Natura mi avea improntate nell’animo, fra molte sciocche istoriette accadutemi in quella prima età, ne allegherò due o tre di cui mi ricordo benissimo, e che ritrarranno al vivo il mio carattere. Di quanti gastighi mi si potessero dare, quello che smisuratamente mi addolorava, ed a segno di farmi ammalare, e che perciò non mi fu dato che due volte sole, egli era di mandarmi alla Messa colla reticella da notte in capo, assetto che nasconde quasi interamaente 1756 i capelli. La prima volta ch’io ci fui condannato (nè mi ricordo più del perchè) venni dunque strascinato per mano dal maestro alla vicinissima Chiesa del Carmine; Chiesa abbandonata, dove non si trovavano mai 40 persone radunate nella sua vastità: tuttavia si fattamente mi afflisse codesto gastigo, che per più di tre mesi poi rimasi irreprensibile. Tra le ragioni ch’io sono andato cercando in appresso entro di me medesimo, per ben conoscere il fonte di un simile effetto, due principalmente ne trovai, che mi diedero intiera soluzione del dubbio. L’una si era, che io mi credeva gli occhi di tutti doversi necessariamente affissare su quella mia reticella, e ch’io dovea essere molto sconcio e diforme in codesto assetto, e che tutti mi terrebbero per un vero malfattore vedendomi punito così orribilmente. L’altra ragione si era, ch’io temeva di esser visto così dagli amati Novizj; e questo mi passava veramente il cuore. Or mira, o lettore, in me omiccino il ritratto e tuo e di quanti anche uomaoni sono stati o saranno; che tutti siam pur sempre, a ben prendere, bambini perpetui.
Ma l’effetto straordinario in me cagionato da quel gastigo, avea riempito di gioja i miei 1756 parenti e il maestro; onde ad ogni ombra di mancamento, minacciatami la reticella abborrita, io rientrava immediatamente nel dovere; tremando. Pure, essendo poi ricaduto al fine in un qualche fallo insolito, per iscusa del quale mi occorse di articolare una solennissima bugia alla Signora madre, mi fu di bel nuovo sentenziata la reticella; e di più, che in vece della deserta Chiesa del Carmine, verrei condotto così a quella di S. Martino, distante da casa, posta nel bel centro della città, e frequentatissima su l’ora del mezzo giorno da tutti gli oziosi del bel mondo. Oimè, qual dolore fu il mio! pregai, piansi, mi disperai; tutto invano. Quella notte, ch’io mi credei dover essere l’ultima della mia vita, non che chiudessi mai occhio, non mi ricordo mai poi di averne in nessun altro mio dolore passata una peggio. Venne al fin l’ora; inreticellato, piangente, ed urlante mi avviai stiracchiato dal maestro pel braccio, e spinto innanzi dal servitore per di dietro; e in tal modo traversai due o tre strade, dove non era gente nessuna; ma tosto che si entrò nelle vie abitate, che si avvicinavano alla piazza e Chiesa di S. Martino, io immediatamente cessai dal piangere e dal gridare, cessai dal farmi strascinare; e camminando anzi tacito, e di buon passo, e ben rasente al 1756 Prete Ivaldi, sperai di passare inosservato nascondendomi quasi sotto il gomito del talare maestro, al di cui fianco appena la mia staturina giungeva. Arrivai nella piena Chiesa,guidato per mano come orbo ch’io era; che in fatti chiusi gli occhi all’ingresso, non gli apersi più finché non fui inginocchiato al mio luogo di udir la Messa; nè. aprendoli poi. gli alzai mai a segno di potervi distinguere nessuno. E rifattomi orbo all’uscire, tornai a casa con la morte in cuore, credendomi disonorato per sempre. Non volli in quel giorno mangiare, nè parlare, nè studiare, nè piangere. E fu tale in somma e tanto il dolore, e la tensione d’animo, che mi ammalai per più giorni; nè mai più si nominò pure in casa il supplizio della reticella, tanto era lo spavento che cagionò alla amorosissima madre la disperazione ch’io ne mostrai. Ed io parimenti per assai gran tempo non dissi più bugia nessuna; e chi sa s’io non devo poi a quella benedetta reticella l’essere riuscito in appresso un degli uomini i meno bugiardi ch’io conoscessi.
Altra Storietta. Era venuta in Asti la mia Nonna materna, Matrona di assai gran peso in Torino, vedova di uno dei Barbassori di 1756Corte, e corredata di tutta quella pompa di cose, che nel ragazzi lasciano grand’impressione. Questa, dopo essere stata alcuni giorni con la mia madre, per quanto mi fosse andata accarezzando moltissimo in quel frattempo, io non m’era per niente addimesticato con lei, come salvatichetto ch’io m’era: onde, stando essa poi per andarsene, mi disse ch’io le doveva chiedere una qualche cosa, quella che più mi potrebbe soddisfare, e che me la darebbe di certo. Io, a bella prima per vergogna e timidezza ed irresoluzione, ed in seguito poi per ostinazione e ritrosia,incoccio sempre a rispondere la stessa e sola parola, Niente: e per quanto poi ci si provassero tutti in venti diverse maniere a rivoltarmi per pure estrarre da me qualcosa altro che non fosse quell’ineducatissimo Niente, non fu mai possibile; nè altro ci guadagnarono nel persistere gl’interrogatori, se non che da principio il Niente veniva fuori asciutto, e rotondo; poi verso il mezzo veniva fuori con voce dispettosa e tremante ad un tempo; ed in ultimo, fra molte lagrime, interrotto da profondi singhiozzi. Mi cacciarono dunque, come io ben meritava, dalla loro presenza, e chiusomi in camera, mi lasciarono godermi il mio così desiderato Niente, e la Nonna partì. Ma quell’istesso io, che con tanta 1757 pertinacia aveva ricusato ogni dono legittimo della Nonna, più giorni addietro le avea pure involato in un suo forziere aperto un ventaglio, che poi celato nel mio letto, mi fu ritrovato dopo alcun tempo: ed io allora dissi, com’era vero, di averlo preso per darlo poi alla mia sorella. Gran punizione mi toccò giustamente per codesto furto: ma, benché il ladro sia alquanto peggior del bugiardo, pure non mi venne più nè minacciato nè dato il supplizio della reticella: tanta era più la paura che aveva la mia madre di farmi ammalare di dolore, che non di vedermi riuscire un po’ ladro: difetto, per il vero, da non temersi poi molto, e non difficile a sradicarsi da qualunque ente non ha bisogno di esercitarlo. Il rispetto delle altrui proprietà, nasce, e prospera prestissimo negli individui che ne posseggono alcune legittime loro.
E qui, a guisa di Storietta, inserirò pure la mia prima Confessione spirituale, fatta tra i sette ed otto anni. Il maestro mi vi andò preparando, suggerendomi egli stesso i diversi peccati ch’io poteva aver commessi, dei più de’ quali io ignorava persino i nomi. Fatto questo preventivo esame in comune col Don Ivaldi, si fissò il giorno in cui porterei il mio 1757 fastelletto ai piedi del Padre Angelo, Carmelitano, il quale era anche il Confessore di mia madre. Andai; nè so quel che me gli dicessi, tanta era la mia natural ripugnanza e il dolore di dovere rivelare i miei segreti, fatti e pensieri ad una persona ch’io appena conosceva. Credo, che il Frate facesse egli stesso la mia confessione per me; fatto si è che assolutomi m’ingiungeva di prosternarmi alla madre prima di entrare in tavola, e di domandarle in tal atto pubblicamente perdono di tutte le mie mancanze passate. Questa penitenza mi riusciva assai dura ad ingojare; non già, perchè io avessi ribrezzo nessuno di domandar perdono alla madre; ma quella prosternazione in terra, e la presenza di chiunque vi potrebbe essere, mi davano un supplizio insoffribile. Tornato dunque a casa, salito a ora di pranzo, portato in tavola, e andati tutti in sala, mi parve di vedere che gli occhi di tutti si fissassero sopra di me; onde io chinando i miei me ne stava dubbioso e confuso ed immobile, senza accostarmi alla tavola, dove ognuno andava pigliando il suo luogo: ma non mi figurava per tutto ciò, che alcuno sapesse i segreti penitenziali della mia confessione. Fattomi poi un poco di coraggio, m’inoltro per sedermi a tavola; ed ecco la madre con occhio arcigno guardandomi, mi domanda 1757 se io mi ci posso veramente sedere; se 10 ho fatto quel ch’era mio dovere di fare; e se in somma io non ho nulla da rimproverare a me stesso. Ciascuno di questi quesiti mi era una pugnalata nel cuore; rispondeva certamente per me l’addolorato mio viso; ma il labro non poteva proferir parola: nè ci fu mezzo mai, che io volessi non che eseguire, ma nè articolare nè accennar pure la ingiuntami penitenza. E parimente la madre non la voleva accennare, per non tradire il traditor Confessore. Onde la cosa fini, che ella perdè per quel giorno la prosternazione da farglisi, ed io ci perdei il pranzo, e fors’anco l’assoluzione datami a si duro patto dal P. Angelo. Non ebbi con tutto ciò per allora la sagacità di penetrare che il P. Angelo aveva concertato con mia madre la penitenza da ingiungermi. Ma il core servendomi in ciò meglio assai,dell’ingegno, contrassi d’allora in poi un odietto bastantemente profondo pelsudetto Frate, e noa molta propensione in appresso per quel Sagramento, ancorché nelle seguenti confessioni non. mi si ingiungesse poi mai più nessuna pena pubblica.