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Cap. X. Primo amoruccio. Primo viaggetto. Ingresso nelle Truppe
Epoca II. - Cap. IX. Epoca III.

sfrenata, una certa naturale pendenza alla giustizia, 1764 all’eguaglianza, ed alla generosità d’animo, che mi pajono gli elementi d’un Ente libero, o degno di esserlo.

CAPITOLO DECIMO.

Primo amoruccio. Primo viaggietto. Ingresso nelle Truppe.


In una villeggiatura ch’io feci di circa un mese 1765 colla famiglia di due fratelli, che erano dei principali miei amici, e compagni di cavalcate, provai per la prima volta sotto aspetto non dubbio la forza d’amore per una loro cognata, moglie del loro fratello maggiore. Era questa Signorina, una brunetta piena di brio, e di una certa protervia che mi facea grandissima forza. I sintomi di quella passione, di cui ho provato dappoi per altri oggetti così lungamente tutte le vicende, si manifestarono in me allora nel seguente modo. Una malinconia profonda e ostinata: un ricercar sempre l’oggetto amato, e trovatolo appena, sfuggirlo: un non saper che le dire, se a caso mi ritrovava alcuni pochi momenti (non solo mai, che ciò non mi veniva fatto mai, essendo ella assai 1765 strettamente custodita dai Suoceri) ma alquanto in disparte con essa: un correre poi dei giorni interi, (dopo che si ritornò di villa) in ogni angolo della Città, per vederla passare in tale o tal via, nelle passeggiate pubbliche del Valentino e Cittadella: un non poterla neppure udir nominare, non che parlar mai di essa: ed in somma tutti, ed alcuni più, quegli effetti sì dottamente e affettuosamente scolpiti dal nostro Divino Maestro di questa divina passione, il Petrarca. Effetti, che poche persone intendono, e pochissime provano: ma a quei soli pochissimi è concesso l’uscir dalla folla volgare in tutte le umane arti. Questa prima mia fiamma, che non ebbe mai conclusione nessuna, mi restò poi lungamente semiaccesa nel cuore, ed in tutti i miei lunghi viaggi fatti poi negli anni consecutivi, io sempre senza volerlo, e quasi senza avvedermene l’avea tacitamente per norma intima d’ogni mio operare: come se una voce mi fosse andata gridando. nel più segreto di esso: Se tu acquisti tale, o tal pregio, tu potrai al ritorno tuo piacer maggiormente a costei; e cangiate le circostanze, potrai forse dar corpo a quest’ombra.

Nell’autunno dell’anno 1765 feci un viaggietto di dieci giorni a Genova col mio Curatore; e fu la mia prima uscita dal paese. La 1765 vista del mare mi rapi veramente l’anima, e non mi poteva mai saziare di contemplarlo. Cosi pure la posizione magnifica e pittoresca di quella superba Città, mi riscaldò molto la fantasia. E se io allora avessi saputa una qualche lingua, ed avessi avuti dei Poeti per le mani, avrei certamente fatto dei versi: ma da quasi due anni io non apriva più nessun libro, eccettuati di radissimo alcuni Romanzi Francesi, e qualcuna delle Prose di Voltaire, che mi dilettavano assai. Nel mio andare a Geno va ebbi un sommo piacere di rivedere la madre e la Città mia, di dove mancava già da sette anni, che in quell’età pajono secoli. Tornato poi di Genova, mi pareva di aver fatta una gran cosa, e d’aver visto molto. Ma quanto io mi teneva di questo mio viaggio cogli amici di fuori dell’Accademia, (benché non lo dimostrassi loro, per non mortificarli ) altrettanto poi mi arrabbiava e rimpiccioliva in faccia ai compagni di dentro, che tutti venivano di paesi lontani, come Inglesi,Tedeschi, Pollacchi, Russi, &c.; ed a cui il mio viaggio di Genova pareva, com’era infatti, una babbuinata. E questo mi dava una frenetica voglia di viaggiare, e di vedere da me i paesi di tutti costoro. 17665 In quest’ozio e dissipazione continua, presto mi passarono gli ultimi diciotto mesi ch’io stetti nel Primo Appartamento. Ed essendomi io fatto inscrivere nella Lista dei Postulanti impiego nelle Truppe sin dal prim’anno ch’iò V era entrato, dopo esservi stato tre anni, in quel Maggio del 1766, finalmente fui compreso in una promozione generale di forse 15o altri giovanotti. E benché io da più d’un anno mi fossi intiepidito moltissimo in questa vocazione militare, pure non avendo io ritrattata la mia petizione, mi convenne accettare; ed uscii Porta insegna nel Reggimento Provinciale d’Asti. Da prima io aveva chiesto d’entrare nella Cavalleria, per l’amore innato dei Cavalli; poi di lì a qualche tempo, aveva cambiata la domanda, bastandomi di entrare in uno di quei Reggimenti Provinciali, i quali in tempo di pace non si radunando all’insegne se non se due volte l’anno, e per pochi giorni, lasciavano così una grandissima libertà di non far nulla, che era appunto la sola cosa ch’io mi fossi determinato di voler fare. Con tutto ciò, anche questa milizia di pochi giorni mi spiacque moltissimo; e tanto più, perchè l’aver avuto quell’impiego mi costringeva di uscire dall’Accademia, dove io mi trovava assai
bene, e ci stava altrettanto volentieri allora, quanto 1766. ci era stato male e a contragenio nei due altri Appartamenti, e i primi diciotto mesi del Primo. Bisognò pure ch’io m’adattassi, e nel corrente di quel Maggio lasciai l’Accademia, dopo esservi stato quasi ott’anni. E nel Settembre mi presentai alla prima rassegna del mio Reggimento in Asti, dove compiei esattissimamente ogni dovere del mio impieguccio, abborrendolo; e non mi potendo assolutamente adattare a quella catena di dipendenze gradate, che si chiama subordinazione; ed è veramente l’anima della disciplina militare; ma non poteva esser l’anima mai d’un futuro Poeta Tragico. All’uscire dell’Accademia, aveva appigionato un piccolo ma grazioso Quartiere nella Casa stessa di mia sorella; e là attendeva a spendere il più che potessi, in cavalli, superfluità d’ogni genere, e pranzi che andava facendo ai miei amici, ed ai passati compagni dell’Accademia. La smania di viaggiare, accresciutasi in me smisuratamente col conversare moltissimo con codesti forestieri, m’indusse contro la mia indole naturale ad intelaiare un raggiretto per vedere di strappare una licenza di viaggiare a Roma e a Napoli almeno per un anno. E siccome era troppo
1766. certa cosa, che in età di anni 17 e mesi ch’io allora mi aveva, non mi avrebbero mai lasciato andar solo, m’ingegnai con un Ajo Inglese Cattolico, che guidava un Fiammingo, ed un Olandese a far questo giro, e coi quali era stato già più di un anno nell’Accademia, a vedere s’egli voleva anche incaricarsi di me, e cosi fare il sudetto viaggio noi quattro. Tanto feci in somma, che invogliai anche questi di avermi per compagno, e servitomi poi del mio Cognato per ottenermi dal Re la licenza di partire sotto la condotta del sudetto Ajo Inglese, uomo più che maturo, e di ottimo grido, finsdmente restò fissata la partenza per i primi di Ottobre di quell’anno. E questo fu il primo, c in seguito poi l’uno dei pochi raggiri ch’io abbia intrapresi con sottigliezza, e ostinazione di maneggio, per persuadere quell’Ajo, e il Cognato, e più di tutti lo stitichissimo Curatore. La cosa riuscì, ma in me mi vergognava e irritava moltissimo di tutte le pieghevolezze, e simulazioni, e dissimulazioni che mi conveniva porre in opera per ispuntarla. Il Re, che nel nostro piccolo paese di ogni piccolissima cosa s’ingerisce, non si trovava essere niente propenso ai viaggi de’ suoi nobili; e molto meno poi di un ragazzo uscito allora del guscio. e che indicava un certo carattere. Bisognò in 1766. somma ch’io mi piegassi moltissimo. Ma grazie alla mia buona sorte questo non mi tolse poi di rialzarmi in appresso interissimo.

E qui darò fine a questa Seconda Parte: nella quale m’avvedo benissimo che avendovi io intromesso con più minutezza cose forse anco più insipide che nella Prima, consiglierò anche il Lettore di non arrestarvisi molto, o anche di saltarla a piè pari; poichè, a tutto ristringere in due parole, questi otto anni della mia adolescenza altro non sono che infermità, ed ozio, ed ignoranza.




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