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Cap. I. Primo Viaggio. Milano, Firenze, Roma
Epoca III. Epoca III. - Cap. II.

EPOCA TERZA.

GIOVINEZZA.

ABBRACCIA CIRCA DIECI ANNI DI VIAGGI, E DI DISSOLUTEZZE

CAPITOLO PRIMO.

Primo Viaggio. Milano, Firenze, Roma.



1766. La mattina del di quattro Ottobre 1766, con mio indicibile trasporto, dopo aver tutta notte farneticato in pazzi pensieri senza mai chiuder occhio, partii per quel tanto sospirato viaggio. Eramo una Carrozzata dei quattro padroni, ch’io individuai, un Calesse con due servitori, du’ altri a cassetta della nostra carrozza, ed U mio Cameriere a cavallo da Corriere. Ma questi non era già quel vecchiotto datomi a guisa di Ajo tre anni prima, che quello lo lasciai a Torino. Era questo mio nuovo Cameriere, un Francesco Elia, stato già quasi vent’auoi col
mio Zio, e dopo la di lui morte in Sardegna, 1766. passato con me. Egli aveva già viaggiato col sudetto mio Zio, due volte in Sardegna, ed in Francia, Inghilterra, ed Olanda. Uomo di sagacissimo ingegno, di un’attività non comune, e che valendo egli solo pia che tutti i nostri altri quattro servitori presi a fascio, sarà d’ora in poi l’eroe Protagonista della Commedia di questi miei viaggi; di cui egli si trovò immediatamente essere il solo e vero Nocchiero, stante la nostra totale incapaeità di tutti noi altri otto, o bambini, o vecchi rimbambiti.

La prima stazione fu di circa quindici giorni in Milano. Avendo io già visto Genova due anni prima, ed essendo abituato al bellissimo locale di Torino, la topografia Milanese non mi dovea, nè potea piacer niente. Alcune cose che vi sarebbero pur da vedersi, io o non vidi, o male ed in fretta, e da quell’ignorantissimo e svogliato ch’io era d’ogni utile o dilettevole arte. E mi ricordo tra l’altre, che nella Biblioteca Ambrosiana, datomi in mano dal Bibliotecario non so più quale Manoscritto autografo del Petrarca, da vero barbaro Allobrogo, lo buttai là, dicendo che non me n’importava nulla. Anzi, in fondo del cuore, io ci aveva un certo rancore con codesto Petrarca; perchè 1766. alcuni anni prima, quando io era Filosofo, essendomi capitato un Petrarca alle mani, l’aveva aperto a caso da capo, da mezzo, e da piedi, e per tutto lettine, o compitati alcuni pochi versi, in nessun luogo aveva inteso nulla, nè mai raccapezzato il senso; onde l’avea sentenziato, facendo Coro coi Francesi e con tutti gli altri ignoranti presontuosi; e tenendolo per un seccatore, dicitor di arguzie e freddure, aveva poi così ben accolto i suoi preziosissimi Manoscritti.

Del resto, essendo io partito per quel viaggio d’un anno, senza pigliar meco altri libri che alcuni Viaggi d’Italia, e questi tutti in lingua Francese, io mi avviava sempre più alla total perfezione della mia già tanto inoltrata barbarie. Coi compagni di viaggio si conversava sempre in Francese, e così in alcune case Milanesi dove io andava con essi, si parlava pur sempre Francese; onde quel pochin pochino ch’io andava pur pensando e combinando nel mio povero capino, era pure vestito di cenci francesi; e alcune letteruzze ch’io andava scrivendo, erano in Francese; ed alcune memoriette ridicole ch’io andava schiccherando su questi miei viaggi, eran pure in Francese; e il tutto alla peggio, non sapendo io
questa linguaccia se non se a caso; non mi ricordando 1766 più di nessuna regola ove pur mai l’avessi saputa da prima; e molto meno ancora sapendo l’Italiano, raccoglieva così il frutto dovuto della disgrazia primitiva del nascere in un paese anfìbio, e della valente educazione ricevutavi.

Dopo un soggiorno di due settimane in •circa, si parti di Milano. Ma siccome quelle mie sciocche Memorie sol viaggio furono ben presto poi da me stesso corrette con le debite fiamme, non le rinnoverò io qui certamente, col particolarizzare oltre il dovere questi miei viaggi puerili, trattandosi di paesi tanto noti: onde, o nulla o pochissimo dicendo delle diverse Città,ch’io, digiuno di ogni bell’arte visitai come un Vandalo, anderò’parlando di me stesso, poiché pure questo infelice tema, è quello che ho assunto ia quest’Opera.ù

Per la via di Piacenza, Parma, e Modena, si giunse in pochi giórni a Bologna; nè ci arrestammo in Parma che un sol giorno, ed in Modena poche ore, al solito senza veder nulla, 0 prestissimo e male quello che ci era da vedersi. Ed il mio maggiore, anzi il solo piacere ch’io ricavassi dal viaggio, era di ritrovarmi correndo la posta su le strade maestre, 1766 e di farne alcune, e il più che poteva, a cavallo da corriere. Bologna, e i suoi Portici e Frati, non mi piacque gran cosa: de’ suoi quadri non ne seppi nulla; e sempre incalzato da una certa impazienza di luogo, io era lo sprone perpetuo del nostro Ajo antico, che sempre lo instigava a partire. Arrivammo in Firenze in fin d’Ottobre; e quella fu la prima Città, che a luoghi mi piacque, dopo la partenza di Torino; ma mi piacque pur meno di Genova, che aveva vista due anni prima. Vi si fece soggiorno per un mese; e là pure, sforzato dalla Fama del luogo, cominciai a visitare alla peggio la Galleria, e il Palazzo Pitti, e varie Chiese; ma il tutto con molta nausea, senza nessun senso del bello; massime in Pittura; gli occhi miei essendo molto ottusi ai colori: se nulla nulla gustava un po’ più era la scoltura, e l’architettura anche più; forse era in me una reminiscenza del mio ottimo Zio, l’Architetto. La tomba di Michelangelo in S. Croce fu una delle poche cose che mi fermassero; e su la memoria di quell’uomo di tanta fama feci una qualche riflessione: e fin da quel punto sentii fortemente, che non riuscivano veramente grandi fra gli uomini, che quei pochissimi che aveano lasciata alcuna cosa stabile fatta da loro. Ma una tal
riflessione isolata in mezzo a quell’immensa 1766 dissipazione di mente nella quale io viveva continuamente, veniva ad essere per l’appunto come si suol dire, una goccia di acqua nel mare. Fra le tante mie giovenili storture, di cui mi toccherà di arrossire in eterno, non annovererò certamente come l’ultima quella di essermi messo in Firenze ad imparare la lingua Inglese, nel breve soggiorno di un mese ch’io vi feci, da un maestruccio Inglese che vi era capitato; in vece di imparare dal vivo esempio dei beati Toscani a spiegarmi almeno senza barbarie nella loro divina lingua,ch’io balbettante stroppiava, ogni qualvolta me ne dovea prevalere. E perciò sfuggiva di parlarla,il più che poteva; stante che la vergogna di non saperla potea pur qualche cosa in me; ma vi potea pure assai meno che la infingardaggine del non volerla imparare. Con tutto ciò, io mi era subito ripurgata la pronunzia di quel nostro orribile U Lombardo, o Francese, che sempre mi era spiaciuto moltissimo per quella sua magra articolazione, e per quella boccuccia che fanno le labbra di chi lo pronunzia,somiglianti in quell’atto moltissimo a quella risibile smorfia che fanno le Scimmie, allorché favellano. E ancora adesso, benché di codesto U, da
1766 cinque e più anni ch’io sto in Francia ne abbia pieni e foderati gli orecchi, pure egli mi fa ridere ogni volta che ci bado; e massime nella recita teatrale, o camerale, (che qui la recita è perpetua) dove sempre fra questi labbrucci contratti che pajono sempre soffiare su la minestra bollente, campeggia principalmente la parola Nature.

In tal guisa io in Firenze, perdendo il mio tempo, poco vedendo, e nulla imparando, presto tediandomivi, rispronai l’antico nostro Mentore, e si parti il di primo Decembre alla volta di Lucca per Prato e Pistoja. Un giorno in Lucca mi parve un secolo; e subito si riparti per Pisa. E un giorno in Pisa, benché molto mi piacesse il Camposanto, mi parve anche lungo. E subito-, a Livorno. Questa città mi piacque assai e perché somigliava alquanto a Torino, e per via del mare, elemento del quale io non mi saziava mai. II soggiorno nostro vi fu di otto 0 dieci giorni; ed io sempre barbaramente andava balbettando l’Inglese, ed avea chiusi e sordi gli orecchi al ’l’oscano. Esaminando poi la ragione di una si stolta preferenza, ci trovai un falso amor proprio individuale, che a ciò mi spingeva senza ch’io pure me ne avvedessi. Avendo per più di due anni
vissuto con Inglesi; sentendo per tutto magnificare 1766 la loro potenza e ricchezza; vedendone la grande influenza politica: e per l’altra parte, vedendo l’Italia tutta esser morta; gl’italiani, divisi, deboli, avviliti e servi; io grandemente mi vergognava d’essere, e di parere Italiano, e nulla delle cose loro non voleva nè praticar, nè sapere.

Si parti di Livorno per Siena; e in quest’ultima città, benché il locale non me ne piacesse gran fatto, pure, tanta è la forza del bello e del vero, ch’io mi sentii quasiché un vivo raggio che mi rischiarava ad un tratto la mente,e una dolcissima lusinga agli orecchi e al cuore, nell’udire le più infime persone così soavemente e con tanta eleganza proprietà e brevità favellare. Con tutto ciò non vi stetti che un giorno; «il tempo della mia conversione letteraria e politica era ancora lontano assai: mi bisognava uscire lungamente d’Italia per conoscere ed apprezzar gl’italiani. Partii dunque per Roma, con una palpitazione di cuore quasiché continua, pochissimo dormendo la notte, e tutto il di ruminando in me stesso e il S. Pietro, e il Coliseo, ed il Panteon; cose che io aveva tanto udite esaltare; ed anche farneticava non poco su alcune località della storia Romana, la quale
1766 (benché senza ordine e senza esattezza ) così presa in grande mi era bastantemente nota ed in mente, essendo stata la sola istoria ch’io avessi voluto alquanto imparare nella mia prima gioventù.

Finalmente, ai tanti di Decembre dell’anno 1766 vidi la sospirata Porta del Popolo; e benché l’orridezza e miseria del paese da Viterbo in poi mi avesse fortemente indisposto, pure quella superba entrata mi racconsolò, ed appagommi l’occhio moltissimo. Appena eramo discesi alla Fjazza di Spagna dove si albergò, subito noi tre giovanotti, lasciato l’Ajo riposarsi, cominciammo a correre quel rimanente di giorno, e si visitò alla sfuggita, tra l’altre cose, il Panteon.I miei compagni si mostravano sul totale più maravigliati di queste cose, di quel che lo fossi io. Quando poi alcuni anni dopo ebbi veduti i loro paesi,mi son potuto dare facilmente ragione di quel loro stupore assai maggiore del mio. Vi si stette allora otto giorni soli, in cui non si fece altro che correre per disbramare quella prima impaziente curiosità. Io preferiva però molto di tornare fin due volte il giorno a S. Pietro, al veder cose nuove. E noterò, che quell’ammirabile riunione di cose sublimi non mi colpi alla

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