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Capo Secondo - Firenze - Maggiori, nascita e prime impressioni politiche di Dante
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CAPO II.




firenze. — maggiori, nascita, e prime impressioni
politiche di dante.

(anni 1265-1284)



Onorate l’altissimo Poeta,80
L’ombra sua torna.



I principii di Firenze oscurati dalla smania de’ suoi cronachisti per le origini romane, anzi troiane, e poi dalla incomposta erudizione di alcuni scrittori posteriori, sono poco noti; ma non può esser ufficio nostro il rischiararli con particolarità. Città etrusca di poco conto per la vicinanza a Fiesole maggiore di essa, poi colonia romana, poi capo di ducato longobardo, poi Comitato sotto i Carolingi, ella fu con Lucca e Pisa una delle città possedute da quei Conti e Marchesi di Toscana che furono così potenti e ricchi ne’ secoli X e XI. Sono famose le magnificenze di Bonifazio marchese; e perchè qualche causa dovette pur essere di esse, certo è che fin d’allora dovettero fiorire per il loro commercio le città toscane; e Pisa principalmente per quello di mare, Firenze per li suoi lanifizii, per li cambi da lei inventati e per li traffichi di terra, a che era ajutata dalla sua bella ed opportuna situazione in mezzo alle due Italie settentrionale e meridionale. Perchè poi il commercio di mare è naturalmente belligero, quello di terra pacifico; Pisa fu delle prime città guerreggianti e quindi delle prime libere, Firenze dell’ultime. Trovasi memoria, che ella combattè a lungo, e poi distrusse Fiesole, ed all’uso romano ne trasportò gli abitanti nelle proprie mura l’anno 1010; ma non è provato da nulla, che fosse tal guerra fatta da Firenze libera, anzi che dai Conti di essa. Ancora, quelle guerre dei cittadini contro i Capitani, o Cattani, o feudatarii principali del distretto, che segnano in ogni città d’Italia l’origine della indipendenza, e che veggonsi fatte da’ Milanesi fin dal principio del secolo XI, non furono incominciate da’ Fiorentini se non al principio del XII, e secondo il Villani precisamente nel 1107. In tali anni stava Firenze sotto l’ultima erede dei Marchesi di Toscana, la contessa Matilda, la grande avversaria degli Imperadori, la gran protettrice dei Papi e della indipendenza italiana; la fondatrice, che si potrebbe dire, con Gregorio VII della parte della Chiesa, detta Guelfa più tardi. Vedesi, quindi, Firenze essere stata culla fin d’allora di quella parte onde fu poi rocca principale. Ma appunto perché Matilda era della parte nazionale, perciò le città non cercarono liberarsi da essa, e la tranquilla obbedienza datale, lasciò meno tracce nelle storie fiorentine, che non nelle memorie dei posteri; così che due secoli dopo veggiamo il nome di lei non che venerato, quasi santificato da Dante nel Purgatorio.1 Morta Matilda nel 1115, e lasciato da lei il retaggio degli antichi Marchesi di Toscana ai Pontefici Romani, disputossi poco meno di un secolo tra questi e gli Imperadori sull’estensione del lascito; e sorse in tal disputa, finalmente, il Comune e il governo consolare in Firenze. Ma non se ne trova l’anno preciso; ed il nuovo Comune era così indietro ancora o in potenza o in vigor d’indipendenza, che non prese parte a niuna delle leghe contro Federigo Barbarossa. Tuttavia, dopo la pace, l’anno 1185, ei fu spoglio del comitato o contado, restituitogli poco appresso.2 Ancora, la mutazione del governo dei Consoli in quello del Podestà, fatta dall’altre città più attive durante l’ultima metà del secolo XII, non fu fatta in Firenze se non nel 1207.3 E finalmente, ella non si divise in parti Guelfa e Ghibellina se non nel 1215, per il noto fatto di Buondelmonti; e non compiè la guerra contro i Cattani del contado se non nel 1218.4 E così in tutto ebbe Firenze nascita oscura, ed educazione lunga; nascita ed educazione promettitrici.

D’allora in poi, ne’ cinquant’anni che corrono fino al 1265, principio della presente storia, Firenze crebbe prontissimamente in popolazione, ricchezze, estensione, ed importanza politica. Fin allora Firenze non avea avuto se non il Ponte Vecchio sull’Arno, a destra del quale era compresa tutta in un semicerchio poco estendetesi oltre il Battistero di San Giovanni e il Duomo. Ma dal 1218 al 1220 fu fatto a valle il nuovo ponte alla Carraja, ad uso principalmente del borgo Ognissanti; dove intorno agli Umiliati, monaci lavoratori di lanifizi e setifizi, s’eran venute estendendo queste due industrie. Nel 1236 fu fatto a monte il ponte Rubaconte (o delle Grazie), e fu lastricata la città, fin allora mattonata. Nel 1250, aggiunto nel governo o signoria al Podestà il primo Capitano del popolo con XII anziani, fu fatto il palazzo del Podestà; “che prima non havea palagio di Comune in Firenze, anzi stava la Signoria hora in una parte della città et hora in altra.”5 Del medesimo anno, abbassate le torri private a cinquanta braccia, fu de’ ruderi incominciata la cinta di Oltrearno. Del 1252 fu fatto l’ultimo ponte intermedio di Santa Trinità; e furono battuti i primi fiorini d’oro; bella e buona moneta, che al dir del Villani, aprì la Barberia al commercio fiorentino. Intanto s’era quasi sempre guerreggiato, e non più coi Cattani o colle terre intorno, ma con Pisa, Siena, Pistoja, ed altre potenti vicine, secondo il variar delle parti; e parteggiandosi in città, erano stati cacciati, primi nel 1248 i Guelfi, poi nel 1251 alcuni capi, e nel 1258 tutti i Ghibellini; i quali, ajutati dal re Manfredi, diedero in ultimo a’ loro compatrioti la famosa rotta di Montaperti, o dell’Arbia addì 4 settembre 1260, e rientrarono quindi cacciando i Guelfi. E così Guelfa era, così tenuta per irremediabilmente tale Firenze, che trattossi fra’ Ghibellini vittoriosi di distruggerla; ma fu impedito dall’eloquenza e dal credito di Farinata degli Uberti, che fu solo


. . . . . . . . . . . colà dove sofferto91
     Fu per ciascun di torre via Fiorenza
     Colui che la difese a viso aperto


fra’ Guelfi cacciati dopo la rotta di Montaperti, erano o l’avo, o il padre di Dante. La famiglia di lui vantavasi di discendenza romana antica; e dicevasi o dissesi poi staccata da quella dei Frangipani sopravvivuti in Roma. Dante sembra sì in più luoghi vantarsi di sangue romano6. Ma dove ei parla espressamente della propria famiglia, non la fa risalir se non a tre fratelli chiamati Moronto, Eliseo e Cacciaguida, viventi al principio del secolo XII; ed all’ultimo dei tre, tritavo suo, fa dire, non so se con isprezzatura o modestia:

40Gli antichi ed i miei nacqui nel loco,
     Dove si truova pria l’ultimo sesto
     Da quel che corre il vostro annual gioco7.
43Basti de’ miei maggiori udirne questo;
     Chi el si furo, ed onde venner quivi,
     Più è il tacer che ’l ragionare onesto.
                                        Parad. xvi.

Ad ogni modo, dal secondo de’ tre fratelli vennero gli Elisei tenuti poi sempre per consorti e consanguinei della famiglia di Dante. E venne questa dal terzo di essi Cacciaguida, e della moglie di lui Aldigeria; una lombarda, secondo alcuni di Parma, ma più probabilmente degli Aldigeri, potenti allora e poi in Ferrara. E quindi i discendenti loro dissersi pure degli Aldigeri, od Alaghieri. Aligeri, Allighieri ed Alighieri: di che si disputa con pro. Cacciaguida, passato in età virile alla crociata di Corrado imperatore, e fattovi cavaliero, morì in Sorìa verso l’anno 1147. E così è che il pronepote di lui, lo pone in Paradiso nel cielo di Marte, tra i guerrieri morti per la fede; e da lui, dopo lo squarcio riferito sui costumi antichi di Firenze, fa narrare in pochi ed eleganti verso la propria vita così:

A così ripostato, a così bello
Viver di cittadini, a così fida
Cittadinanza, a così dolce ostello,

Maria mi diè, chiamata in alte grida;8
e nell’antico vostro Batistero,
insieme fui cristiano e Cacciaguida.

Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di Val di Pado,
e quindi ’l soprannome tuo si feo.

Poi seguitai lo ’mperador Corrado,
ed el me cinse della sua milizia,
tanto per ben

oprar gli venni a grado!.

Dietro gli andai incontro alla nequizia
di quella legge, il cui popolo usurpa,
per colpa del Pastor, vostra giustizia9.

Quivi fu’ io da quella gente turpa,
disviluppato dal mondo fallace,
il cui amor molt’anime deturpa,

E venni dal martirio a questa pace.

PARAD. XV. 130-148.

Figlio di questo Cacciaguida cavaliere, fu tra gli altri Alighieri, bisavo di Dante; del quale null’altro si sa se non che viveva nel 1189 e probabilmente anche nel 120110, e che Dante lo pone in Purgatorio nella cerchia dei superbi11. Figlio di questo primo Alighiero fu Bellincione avo di Dante; del quale pure non sappiamo altro, se non che ebbe sette figliuoli, tra i quali Alighieri secondo, padre di Dante. Fu questi giureconsulto, o come allor si diceva, giudice di professione; e sposata in prime nozze Lapa di Chiarissimo Cialuffi, n’ebbe un figlio nomato Francesco; e, morta quella, e sposata Donna Bella, non si sa di qual casa, n’ebbe nel maggio 1265 un figliuolo, il quale battezzato in San Giovanni, ebbe il nome di Durante, abbreviato quindi in quello, sempre da lui e dagli altri usato, di Dante. Trovasi poi menzionata dal Boccaccio pur una sorella di Dante, maritata a Leon Poggi; ma di questa nè si sa il nome, nè di quale delle mogli di Alighiero ella fosse figlia12.
Tutti questi maggiori di Dante furono Guelfi, e per tali due volte cacciati da’ Ghibellini: ce lo dice Dante stesso nel Poema. Ma durando il governo ghibellino in Firenze, e così l’esilio de’ Guelfi nel maggio 126513, convien dire: o che vivendo ancora Bellincione, egli fosse l’esiliato, e non Alighiero padre di Dante; ovvero se era questi, ei n’avesse avuta grazia particolare, e ne fosse tornato; ovvero, che fosse tornata la moglie sola, essendo certo ad ogni modo il battesimo di Dante in Firenze dalle parole stesse di lui. E nacquevi mentre si apparecchiava a mutarsi la fortuna della parte e della famiglia sua; l’anno e il mese appunto, che Carlo D’Angiò conte di Provenza disceso in Italia, giugneva a Roma contro re Manfredi re di Puglia e di Sicilia, a quell’impresa che mutò poi il Regno e l’Italia quasi tutta, ed in particolare Firenze, di Ghibellina in Guelfa.
Questi furono presagi più importanti al destino futuro del Poeta, che non la posizione degli astri o i sogni. Ma a quell’età, astri e sogni si osservavano. Brunetto Latini, maestro che fu poi di Dante, ne trasse probabilmente egli stesso, la pianta astrologica; e trovando il sole in Gemini, predisse, secondo l’arte, la grandezza d’ingegno del fanciullo. Così almeno interpretasi dai più quel passo dove Brunetto dice a Dante:

Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m’accorsi nella vita bella:

E s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo l’Cielo a te così benigno,
dato t’avrei all’opera conforto.

INF. XV. 55-60

Dante stesso, non iscevro di tali credenze, attribuisce a quegli atri benigni il proprio ingegno; e giunto in Paradiso a quella costellazione de’ Gemini, esclama:

O glorïose stelle, o lume pregno,
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno!.

Con voi nasceva, e s’ascondeva vosco,
quegli ch’è padre d’ogni mortal vita,
quand’io sentì da’ prima l’aer Tosco.

PAR. XXII. 112-117.

Del resto, non è se non giustizia aggiugner quì, che Dante con tutti i buoni di quei tempi trovava modo d’accordare questa influenza delle stelle col libero arbitrio dell’animo umano; come si puòvedere nel Purgatorio, al canto XVI v. 67 e seguenti, che sono de’ suoi più belli, e che io porrei quì, se fosse il luogo di dire delle opinioni e non della nascita di lui.
Quanto ai sogni, poi, narra il Boccaccio, che essendo gravida la madre, "ne guarì lontana al tempo del partorire, per sogno vide qual dovea essere il frutto del ventre suo; comechè ciò non fusse allora da lei consciuto nè da altrui, ed oggi, per lo effetto seguito, manifestissimo a tutti. Parea alla gentile donna, nel suo sonno, essere sotto ad uno altissimo alloro, posto sopra un verde prato, allato ad una grandissima fonte; e quivi si sentia partorire figliuolo, lo quale in brevissimo tempo nutricandosi solo dell’orbacche, che dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea, che divenisse un pastore, e s’ingegnasse a suo potere d’avere delle frondi dell’albero, il cui frutto l’avea nudrito; ed a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi, non uomo più, ma pavone il vedea divenuto. Della qual cosa, tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno: nè guari di tempo passò, che il termine debito al suo parto venne, e partorì uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui, per nome chiamarono Dante; e meritamente, perocchè ottimamente, siccome si vedrà, procedendo, seguì al nome lo effetto. Questi fu quel Dante che a’ nostri secoli fu proceduto di speziale grazia da Iddio. Questi fu quel Dante ecc.14 ". E così, astri, sogni e casi di sillabe abbreviate, ogni cosa ai contemporanei ed ai posteri parve presagio di grandezza, quando fu questa dimostrata dal fatto.
Ma continuando a dire di quegli altri più certi presagi della vita di Dante, pochi mesi erano corsi dalla nascita di lui, quando Carlo D’Angiò raggiunto già dal suo esercito in Roma, vi fu, il giorno dell’Epifania dell’anno seguente 1266, da papa Clemente IV incoronato re di Puglia e di Sicilia, facendogliene il solito omaggio. Mosse quindi, seguito dal vescovo di Cosenza legato pontificio, che bandiva la croce per lui; passò il Garigliano, abbandonato a tradimento dal Conte di Caserta; e prese Acquino e Rocca d’Arce, si drizzò a Benevento, dove Manfredi raccoglieva, oltre i titubanti Pugliesi e Siciliani, i suoi Tedeschi, i suoi Saraceni di Nocera, e gli aijuti ghibellini di varie parti d’Italia. Dubitava Manfredi, e mandava messi a Carlo; il quale rispondea: Dite al Soldano di Nocera, che io non voglio pace o tregua con lui; e che in breve, o io manderò lui in inferno, o egli me in paradiso. Combattevasi poi a ’26 di febbrajo. E pugnavano fortemente per Manfredi i suoi Saraceni e Tedeschi: ma usando i ferri di taglio, furono vinti dai Francesi, che combattevano di punta; ed allora lasciato il campo vergognosamente da’ Baroni Pugliesi, Manfredi, spronato il cavallo in mezzo alle schiere francesi, vi morì gloriosamente, ma perduto allora tra mucchi di cadenti. Tre dì furono a trovarne il corpo. Finalmente riconosciuto da un ribaldo, fu posto penzolone su un asino, mostrato pel campo francese; poi fatto riconoscere dai prigioni, e seppellito come scomunicato non in terra santa, ma in capo al ponte di Benevento, sotto un monte di pietre gettategli sopra da ogni soldato. "Ma per alcun si disse, che poi, per mandato del papa, il vescovo di Cosenza il trasse di quella sepoltura, e mandòllo fuori del Regno, perocchè era terra di Chiesa; e fu seppellito lungo il fiume del Verde, ai confini del Regno e di Campagna. Questo però non affermiamo; ma di ciò rende testimonianza Dante nel Purgatorio." Nel quale, di fatto, Manfredi mostra al Poeta una piaga a sommo il petto,

Poi sorridendo disse: Io son Manfredi,
nipote di Gostanza Imperadrice;
ond’io ti prego che, quando tu riedi,

Vadi a mia bella figlia, genitrice
dell’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi a lei il ver, s’altro si dice.

Poscia ch’i ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei
piangendo a quei che volentier perdona.

Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolve a lei.

Se ’l Pastor di Cosenza, ch’alla caccia
di me fu messo per Clemente, allora
avesse in Dio ben letta questa faccia,

l’ossa del corpo mio sarieno ancora,
in co’ del ponte,

presso a Benevento,
sotto la guardia della grave mora.

Or le bagna la pioggia, e muove ’l vento,
di fuor del Regno, quasi lungo ’l Verde,
ove le trasmutò a lume spento.

PURG. III. 112-132.

Poco andò, e Napoli, col Regno tutto, fu di Carlo, che vi entrò colla sua regina Beatrice, l’ambiziosa provenzale, che l’avea mosso a quell’impresa. L’ingresso fu di gran pompa: carri dorati, damigelle e ricchi addobbi d’ogni sorta vi si videro. Manfredi era stato colto e splendido, ma non prodigo; ed avea, dicesi, un tesoro nel castello di Capua. Dove trovato ora da re Carlo, e comandando ad Ugo del Balzo, un suo cavaliere, di partirlo, e di prender per ciò le bilancie: Che mestieri ci ha di bilancie? rispondea questi; e ne faceva co’ piedi tre parti: questa sia di monsignore il Re, questa della Regina, e questa de’ vostri cavalieri. Piacque l’atto al Re, e gli die’ la contea d’Avellino. Da queste pompe, questi ori, questi scialacqui, dicono gli storici, incominciasse la mutazione dei costumi d’Italia. Ma, dico io, già erano corrotti gli Italiani, poichè si lasciavano vincere con tal facilità; essi che non cento anni prima aveano vinto ben altro uomo, ed altro principe, Federigo Barbarossa imperadore. Ma contro a Frederigo s’erano mossi i popoli, i padri de’ Guelfi, la parte e l’opinione nazionale e virtuosa; contra Carlo non s’alzavano se non i Ghibellini, la parte de’ pochi e degli stranieri, mal atta a chiuder la patria contra altri stranieri, e peggio contro a tali che prendean nome dalla parte nazionale.
E sì che fatta appena questa mutazione nel Regno, ne successe quella di quasi tutta Italia. Brescia, Cremona, Piacenza, Parma si rivolsero di Ghibelline in Guelfe. Pisa ghibellina diè 30.000 lire per rimanere in pace. A Firenze, poi, addì 11 novembre, si sollevarono i Guelfi, facendo raunate e serragli contro al conte Guido Novello, già vicario di re Manfredi pe’ Ghibellini. Il quale, occupata la piazza, ma non credendo poterla tenere, sgombrò dalla città, portandone via le chiavi a Prato; onde poi volle invano tornare il giorno appresso. Rientrarono quindi i fuoriusciti Guelfi a Firenze; ed ordinato il governo sotto XII Buoni Uomini, diedero poi la signoria per dieci anni a re Carlo, che vi mandò d’anno in anno un suo vicario. Poscia, addì 16 e 17 aprile 1267, furono cacciati i Ghibellini; nell’agosto seguente vennevi di passaggio re Carlo, e vi fu dal Comune "onoratamente presentato, e con pallio e armegerie trattenuto15".
Ma nel medesimo anno risorsero, benchè per poco, le speranze de’ Ghibellini. Sopravviveva in Germania, negletto, impoverito, quasi abbandonato e appena pubere, Corradino figliuolo di Corrado IV, nipote di Federigo II, ultimo rampollo di quella grande schiatta di Svevia, così cara a’ Ghibellini, così temuta dai Guelfi, così ammirata da tutti. Fanciullo fino allora, avea dovuto lasciarsi usurpare il trono di Puglia da Manfredi, il bastardo suo zio; ma ora adulto, nol voleva lasciar a Carlo d’Angiò suo nemico. Venduti tutti i restanti beni paterni, e raccoltone un’oste di 10,000 uomini, che non potè poi mantener tutta, scese in Italia sul finir del 1267; s’accrebbe d’ajuti ghibellini, da Pisa principalmente; venne a questa, e poi a Roma; ed entrato nel Regno, s’accozzò col rivale addì 23 agosto 1268, a Tagliacozzo. Dove, vincitore al principiar della giornata, fu vinto in ultimo dalla riserva francese, e preso. Tratto a Napoli l’infelice giovane, e tenutovi più mesi in carcere ed in angoscia, giudicato poi da’ satelliti del nemico e pur non condannato da tutti, fu decollato addì 29 d’ottobre, gettando prima dal palco il guanto suo, che fu recato a Costanza figlia di Manfredi, e sposa di Pietro re d’Aragona. Due reminiscenze di questi fatti succeduti nella puerizia di Dante, sono nell’Inferno e nel Purgatorio16.
Quindi furono confermate, come succede dopo una gran minaccia caduta in nulla, la potenza Guelfa, e la tracotanza Angioina in tutta Italia. E tanto più, che la vacanza d’Imperio continuò parecchi anni ancora, né cessò nel 1273 se non per elezione di Rodolfo d’Absburgo; uomo grande, ma principe piccolo, e che per ambedue forse queste ragioni tennesi in Germania, e mai non iscese in Italia, dove così mancava ogni consueto capo de’ Ghibellini. Così Carlo ebbe agio di estendere la sua signoria di città in città, quasi per tutta Toscana, Lombardia e Piemonte, onde poi si univa al suo stato di Provenza. Ma quindi ancora in tutte queste parti della Penisola, e più nel Regno, e massime in Sicilia, gli eccessi, le tirranie, le crudeltà de’ Guelfi, e le ruberie, gli stravizzi, le libidini de’ Francesi. Quindi l’onte e l’avvilimento dei vinti rivolti a disperazione; quindi il sospirar de’ Siciliani alla Regina e al Re Aragonese, e l’affaticarsi a muoverli Giovanni da Procida il grande esule Siciliano; e trovàtili tardi, il congiurare di lui co’ Baroni Siciliani, e con quanti grandi o principi italiani e d’oltremonte, e fin d’oltremare, sperava favorevoli alla grande impresa; e quindi poi, mentre si ordiva e tardava questa, il sorgere repentino e più efficace del popolo di Palermo al tocco di Vespro del dì 30 o 31 marzo, lunedì o martedì di Pasqua del 1282. Seguìnne d’ora in ora, di giorno in giorno, secondo che veniva arrivando in ogni luogo la gran novella, il sollevamento di tutta Sicilia; perduta così dagli Angioini, e da parte Guelfa, acquistata agli Aragonesi ed ai Ghibellini. Che se non era di quegli eccessi francesi,

Se mala signoria, che sempre accuora
Li popoli suggelli, non avesse
Mosso Palermo a gridar : mora, mora,

PAR. VIII. 73-75.

chi sa? era il tempo allora, più che niun altro mai, da riunire Italia sotto un principe, o almeno una parte, l’antica popolare e nazionale de’ Guelfi. Ma distratti d’allora in poi gli Angioini dalla lunga guerra che fecero per riaver Sicilia, non poterono altrimenti estendere lor signoria, né accrescere i Guelfi nella Penisola. E di nuovo, ed al solito, andarono le due parti equilibrandosi ed avvicendandosi qua e là.

Non tuttavia in Firenze; che riammise sì gli esuli Ghibellini nel 1273 per pacieria di papa Gregorio X, ma li ricacciò nel 1275. E li riammise pur nel 1279; ed anzi diè loro parte nel governo dopo cessata la signoria e vicaria di Re Carlo: ma non dando loro se non sei di quattordici posti de’Signori islituiti, lasciava a’ Guelfi la maggiorità, che è tutto in ogni sorta di governo deliberativo. Né durò guari siffatto ordinamento. Fino a quel tempo il popolo di Firenze, i non nobili, gli artieri, o popolo grasso come dicevasi, s’erano sì ordinati in Arti, e sotto i Priori di ciascuna di esse; ma non aveano capi, non Credenza universale popolare, e così non aveano fatto stato nello stato. Ma nel 1282, sollevatosi centra i XIV Signori, diedero il governo stesso ai proprii Priori, che d’allora in poi si chiamarono e furono essi Signori. Così si compiè in Firenze la rivoluzione popolare, già da gran tempo non solo compiuta, ma corrotta in tirannia in molte altre città d’Italia. E Firenze seppe guardarsi poi da questo secondo e peggior progresso, e ritenne tal governo Guelfo popolano con poche variazioni durante tutto il tempo della vita di Dante, ed anche molto poi. Quindi, a malgrado de’ duri e talor giusti rimbrotti che le vedremo fatti dall’irato Poeta, se compariamo Firenze alle altre città, noi la potremo dire o più savia, o meno stolta, 0 almeno più avventurata, e comparativamente tranquilla. E da tal saviezza o tranquillità maggiore vennero il commercio, le arti, le Lettere meglio cresciute in lei, che nelle altre.
E ne venne, fra gli altri e sopra gli altri, il nostro Dante. Il quale "nella puerizia sua nudrito liberalmente, e dato a’ precettori delle lettere, subito apparve in lui ingegno grandissimo, e attissimo a cose eccellenti. Aldighieri perde nella sua puerizia : niente di manco, confortato da’ propinqui e da Brunetto Latini, valentissimo uomo secondo quel tempo, non solamente a litteratura, ma agli altri studi liberali si diede, niente lasciando indietro che appartenga a far l’uomo eccellente"17. Di Alighieri il padre siamo per vedere che viveva ancora alla fine dell’anno ottavo di Dante. Di Donna Bella madre di lui non si vede fin quando sorvivesse. Di Brunetto Latini non solo confortatore, ma anche maestro di Dante, certo è che fu Guelfo costante. E così, con padre e famiglia e primo maestro, tutti Guelfi ripatriati, in città Guelfa ab antico, ora esclusivamente Guelfìssima, negli anni de’ grandi eventi e del massimo splendore di parte Guelfa, crebbe Dante con impressioni certo tutte Guelfe, benchè forse fin d’allora temperate nell’animo generoso di lui dagli eccessi guelfi. Ma prima di vedere l’effetto in lui di tali prime impressioni politiche, veggiamone un’altra di qualità diversa, più forti probabilmente fin d’allora, e certo poi più durevole.

  1. Canti xxviii-xxxiii
  2. G. Villani in Rer. Ital. T. xiii, pp. 137, 138, a malgrado il Lami: da cui non si vuol prendere se non la correzione della data del 1184 in 1185.
  3. Villani, P. 146.
  4. Villani, P. 154.
  5. Villani, p. 182.
  6. Principalmente nell’Inf. xv, 73-78.
  7. Cioè la dove i corritori del pallio entravano nel sesto di porta s. Piero.
  8. Era, dice il Venturi, pio costume de’ quei tempi (non dismesso da alcune pie de’ nostri) chiamare il nome di Maria Vergine tra’ doloro del parto.
  9. Cioè il popolo Maomettano che tiene il governo (detto giustizia nel Medioevo) di Terra Santa.
  10. Pelli, pag. 30 e seg.
  11. Parad. XV., 91-96
  12. Boccaccio, Op., tom. V, pag.66. Non solamente per questi ascendenti, a cui mi sono ristretto, ma per tutti gli altri collaterali e discendenti; certi ed incerti di Dante, V. il Pelli, che ne ragiona abbondantemente, §§ 3 e 4, pp. 11-55 delle sue Memorie per servire alla vita di Dante. Ediz. seconda, Firenze 1823
  13. Questa data, primo fatto della vita di Dante, non si trae, che io sappia, da nessun altro luogo che dal Commento di Boccaccio al verso 1° della Commedia (Boccaccio, Opere, Firenze 1824, tom. V., pag. 19), e tutti i biografi l’hanno seguito. Senza il Boccaccio, la vita di Dante si ridurrebbe a congetture tratte dalle opere di lui.
  14. Boccaccio, Vita di Dante; Venezia, Alvisovoli 1825 in 12°, p.11.
  15. Dino Compagni, Rer. It., IX.
  16. Inf. XXVIII, 17; Purg. XX, 63
  17. Leon. Aret.; Ed. Min. V, p.50

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