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Uomini poi a mal più che a ben usi.
PARAD. III.
In tutte le narrazioni che precedono, e in quasi tutte quelle che seguiranno, noi avemmo ed avremo le parole stesse di Dante o per guida, o almeno per ajuto. Ma nel fatto importante del matrimonio di lui, non n’abbiamo una parola certa; e poco o nulla si può trarre dai biografi. La data stessa non ci è recata da nessuno; ma possiamo con certezza congetturare che non fosse anteriore all’anno 1293,
verso il principio del quale avvenne l’innamoramento di Dante per la gentildonna consolatrice, e prima di cui non fu scritto il libro della Vita Nova. Nè poterono essere guari più tarde quelle nozze; posciache sette figliuoli almeno n’erano nati quando Dante, nel 1301, lasciò per sempre la patria e la moglie. Quindi, certi siamo di non errare di molto, fermando quella data all’anno 1293. Fu egli, poi, il matrimonio di Dante conseguenza immediata dell’aver esso lasciato il pensiero della gentildonna consolatrice? ovvero, chi sa, fu ella una sola persona quella consolatrice rigettata, e poi ripresa in donna? Ad ogni modo, la moglie di Dante fu Gemma, figlia di Manetto de’ Donati1, famiglia nobile e potente ab antico, che al principio del secolo trovasi frammista al fatto del Buondelmonti; e della quale era ora principale quel messer Corso che vedemmo Podestà e Capitano della riserva a Campaldino, e che vedremo in breve capo
di parte, e quasi tiranno in Firenze. I sette figliuoli di Dante furono Pietro, Jacopo, Gabriello, Alighiero, Eliseo, Bernardo e Beatrice2.
Il nome dell’ultima, mostra una evidente rimembranza del primo non estinto amore di Dante , e insieme una gentile arrendevolezza o tolleranza nella moglie di lui. Tuttavia, Gemma è da molti biografi ricordata quasi nuova Santippe. Ma tutti questi sono molto posteriori. Il Villani, Benvenuto e Leonardo non ne dicon nulla; e Boccaccio è il solo antico che ne parli. Le parole del quale, dopo aver narrato il gran dolore di Dante, sono queste: "Egli era già, sì per lo lagrimare, e sì per l’afflizione che al cuore sentiva dentro, e sì per lo non avere di sè alcuna cura di fuori, divenuto quasi una cosa salvatica a riguardare, magro, barbuto, e quasi tutto trasformato da quello che avanti esser soleva; intanto che il suo aspetto non che negli amici, ma eziandio in ciascun altro che ’l vedeva, a forza di sè metteva compassione; comeche egli poco, mentreche questa vita così lagrimosa durò, ad altri che ad amici veder si lasciasse". Questa compassione e dubitanza di peggio faceva li suoi parenti stare attenti a’ suoi conforti. Li quali, come alquanto videro le lagrime cessate, e conobbero li cocenti sospiri alquanto dar sosta allo affaticato petto, con le consolazioni lungamente perdute ricominciarono a racconsolare lo sconsolato. Il quale, comeche insino a quell’ora avesse a tutti ostinatamente tenute le orecchie chiuse, alquanto le cominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò che intorno al suo conforto gli fosse detto. La quale cosa veggendo li suoi parenti, acciocchè del tutto non solamente de’ dolori il traessino, ma il recassino in allegrezza, ragionarono insieme di dovergli dar moglie; acciocchè, come la perduta donna gli era stata di tristizia cagione, così di letizia gli fusse la nuovamente acquistata. E trovata una giovane, quale alla sua condizione era dicevole, con quelle ragioni che più loro parvero induttive , la loro intenzione gli scoprirono. Ed acciocchè io particolarmente non tocchi ciascuna cosa, dopo lunga tenzone, senza mettere guari tempo in mezzo, al ragionamento seguì l’effetto, e fu sposato"3. Dopo questo,
il Boccaccio, uomo tutto diverso da Dante, lo biasima, dissertando lungamente sulle disgrazie e su’ gravi disturbi arrecati agli studiosi dall’aver moglie e figliuoli. Ma ei termina, poi, quella diceria colle seguenti parole: "Certo, io non affermo queste cose a Dante essere addivenute, che non lo so; comeche vero sia, che cose simili a queste, o altre che ne fussino cagione, egli una volta da lei partito si, che per consolazione de’ suoi affanni gli era stata data, mai nè dove ella fusse volle venire, nè sofferse che dove egli fusse ella venisse giammai, contuttochè di più figliuoli egli insieme con lei fusse parente. Nè creda alcune, che io per le sopraddette parole voglia conchiudere, gli uomini non dover tór moglie; anzi il lodo molto, ma non a ciascuno. Lascino i filosofanti lo sposarsi a’ ricchi sciolti, a’ signori e a’ lavoratori: essi con la filosofia si dilettino, la quale è molto migliore sposa che alcuna altra4". Noi non ci fermeremo, come fa seriamente Leonardo Aretino5, a ribattere siffatta proposizione con gli esempi di Marco Tullio e d’altri filosofanti ammogliati; ma, che che
sia della sola sposa conceduta a questi dal buon Boccaccio, certo è che da tali generalità non si può, contro alla stessa protesta dello scrittore, arguir nulla in disfavore di Gemma.
Vedremo poi al tempo della separazione e dell’esilio di Dante, parecchi atti di Gemma, che sono di buona moglie e buona madre di famiglia, e vedremo altre ragioni probabili del non essersi riunita più d’allora in poi al marito. Ad ogni modo, se dal costante silenzio di Dante su Gemma si voglia pure arguire in lui più rispetto che affetto a lei, resti il biasimo su lui solo; e secondo ogni regola di buona critica, ne sia discolpata essa, contra cui non è un fatto da
allegare. Troppo sovente i biografi, per iscusare il loro protagonista, versan accuse tutte all’intorno. Ma le biografie son pure istoria; il primo dover della quale è, giustizia a tutti. Nè è solamente pedanteria e volgarissima scortesia , ma per lo più anche ingiustizia, questo sgridare contra le donne, più sovente tiranneggiate che non tiranne; e massime quando accoppiate con un uomo della tempra di Dante.
Del resto, qualche lume trarremo forse da altri particolari della vita di Dante a questo tempo. Per li quali ei si vuol tornare al vicinato di lui. Già osservammo, quanto tali circostanze influissero sulla vita pubblica e privata di quei tempi. In guerra, ogni sestiere formava compagnie distinte, con bandiere e capitani proprii. In pace, s’assembravano per le elezioni, solendo uno o più eletti d’ogni sestiere formare poi i varii magistrati popolari e comunali.
Tutto ciò faceva frequenti le relazioni anche private per sestieri; e nel vicinato facevansi le feste, come vedemmo di quella di maggio in casa Portinai; e nel vicinato quei crocchi, quei conversari sedendo all’uscio di casa, quegli inviti ad entrare, e que’ tanti particolari di tal vita che si veggono nelle Novelle del Boccaccio, e nell’altre antiche.
Già vedemmo vicini gli Alighieri e i Portinari, e ciò che ne seguì; e del medesimo vicinato erano i Cerchi e i Donati. Gli Alighieri discendenti di Cacciaguida, e così Dante e i
suoi consorti "abitavano in su la Piazza di San Martino del Vescovo (ora chiesa de’ Buonomini), dirimpetto alla via che va a casa i Sacchetti, e dall’altra parte si stendono verso i Giuochi e i Donati6". I Donati, così vicini degli Alighieri, abitavano non lungi del canto de’ Pazzi7; e i Cerchi e i Portinari abitavano presso al medesimo canto de’ Pazzi, nel sito del palagio già Salviati poi Riccardi8. E così tra Portinari, Cerchi e Donati si passò la vita cittadina di Dante.
Quegli amici, che, per consolar Dante, gli diedero in moglie la Gemma Donati, furono probabilmente i Donati stessi. Qual grado di consanguineità unisse Gemma e Manetto padre di lei con messer Corso capo della famiglia, non è noto; ma solendo allora abitare insieme i consanguinei, perciò detti allora comarti, è a credere che anche Manetto e Gemma fossero di quel vicinato. Con messer Corso non sappiamo quali fossero allora le relazioni di Dante, e
li vedremo poi avversarii politici. Ma d’un fratello e d’una sorella di messer Corso, chiamato quello Forese e questa Piccarda, sappiamo da Dante stesso, che furono dei più stretti e soavi amici della sua gioventù. Le rimembranze dell’uno e dell’altra sono tra le più affettuose del Poema. Morì Forese Donati nel 1295, lasciando vedova l’afflitta e costante sua Nella. Dante il ritrova in Purgatorio a scontare il peccato della gola, nel quale si vuoi dire che perseverasse
fino all’ ultimo; posciache il Poeta si meraviglia di vederlo già su pel monte, e non tra le anime che aspettano a falda tanti anni, quanti ne indugiarono a pentirsi al mondo.
Imperciocchè tale è la legge del Purgatorio stabilita da Dante, che ne trae i versi seguenti pieni d’affetto e dolcezza agli amati da lui, e pieni poi, subito dopo, di non
meno bella ira ed amarezza contro ai mali costumi contemporanei. È contrasto solito nel nostro Poeta, grande del paro nelle due facoltà opposte di sentire.
Forese, da quel di
Nel qual mutasi mondo a miglior vita,
Cinqu’anni non son volti indii o a qui.
Se prima fu la possa in te unita
Di peccar più, che sorvenisse l’ora
Del buon dolor ch’a Dio ne rimarita;
Come se’ tu quassù venuto l’Ancora
Io ti credea trovar laggiù di sotto,
Dove tempo per tempo si ristora.
Ed egli a me: si tosto m’ha condotto
A ber lo dolce assenzio de’ martiri
La Nella mia col suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti e con sospiri
Tratto m’ha della costa ove s’aspetta,
E liberato m’ha degli altri giri.
Tant’è a Dio più cara e più diletta
La vedovella
mia, che molto amai,
Quanto in bene operare è più soletta;
Che la Barbagia di Sardigna assai
Nelle femmine sue è più pudica,
Che la Barbagia dov’io la lasciai.
O dolce frate, che vuoi tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto,
Cui non sarà quest’ora molto antica,
Nel qual sarà in pergamo interdetto
Alle sfacciate donne Fiorentine
L’andar mostrando colle poppe il petto.
Quai Barbare fur mai, quai Saracine,
Cui bisognasse, per farle ir coverte,
O spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate fosser certe
Di ciò che ’l Ciel veloce loro ammanna,
Già per urlare avrian le bocche aperte.
Che
se l’antiveder qui non m’inganna,
Prima fien triste che le guance impeli
Colui che mo si consola con nanna.
Deh, frate, or fa che più non mi ti celi;
Vedi che non pur io, ma questa gente
Tutta rimira là dove ’l Sol veli.
Per ch’io a lui: se ti riduci a mente
Qual fosti meco, e quale io teco fui,
Ancor fia grave il memorar presente.
Di quella vita mi volse costui, ecc.
PURG. XXIII. 76-118.
Nei quali ultimi versi veggono gli espositori un cenno della vita allegra e viziosa anzi che no, condotta in quegli anni insieme dai due giovani Dante e Forese. Nè par dubbio; e tanto meno se vi si aggiunga e l’impenitenza di Forese nel peccato della gola, e ciò che di Dante vedremo poi anche più chiaro. Ma osservisi ne’ versi precedenti la virtuosa indegnazione di lui contro ogni vizio sfacciato e scandaloso: ei non fu almeno di quelli che aggiungono al vizio la colpa peggiore di scusarlo, o la pessima di trarne vanto. Accompagnandosi quindi i due amici su per il monte, Dante domanda a Forese di Piccarda; e questj:
La mia sorella, che tra bella e buona
Non so qual fosse più, trionfa lieta
Nell’alto Olimpo già di sua corona.
PURG. XXIV. 13-15.
Salito poscia in Paradiso, vi ritrova la gentile Piccarda, ma nel cerchio più basso di quello dove sono le anime state in terra sforzate a rompere qualche voto. La storia di Piccarda è delle più patetiche fra le rammentate da Dante; ed è meraviglia che fra le parecchie a lui tolte dai poeti moderni, non sia stata pur questa. Piccarda, o forse Riccarda, prese il velo nel monistero di Santa Chiara di Firenze, un Ordine fondato al principio di quel secolo da quella concittadina e contemporanea di San Francesco d’Assisi. Volente ed adulta era entrata Piccarda nel rifugio verginale. Dal quale volendo trarla, non si sa per qual ragione, messer Corso di lei fratello, tiranno della famiglia intanto che fosse della patria, presi dodici sicarii, ed a lor capo un nomato Farinata, scalò il monistero, e rapita a forza la vergine, trassela alle sue case. Dove stracciatele le sacre bende, e rivestitala degli ornati mondani, la die in moglie a un gentiluomo chiamato Roselline della Rosa. Dice altri, che la costante Piccarda volendo serbar fedeltà al suo sposo celeste, gli raccomandasse dinanzi al Crocifisso la propria verginità; e che coperto il corpo di lebbra, e così esaudita, fra pochi giorni morisse. Narra altri che fosse quel priego esaudito in altro modo, da una languente infermitade, di che ella morisse. Pare ad altri, all’incontro, che dal luogo ov’è posta in paradiso, e da una lunga discussione filosofici! e teologica ivi aggiunta sulla volontà efficace, si debba inferire che la povera Piccarda pur titubò, prima di cadere nell’infermità desiderata. Noi non ci metteremo in tal disputa, e riferiremo i soli versi più narra torii di Dante, che son pure i più affettuosi; e il sono cosi, che bastano a ritrarci in Piccarda una di quelle dolci e celestiali creature femminili che egli Dante, e dopo lui Shakespeare, seppero soli forse disegnare.
Ed io all’ombra che parea più vaga
Di ragionar, drizzammi, e cominciai,
Quasi com’ nom cui troppa voglia smaga:
O ben creato spirito, che a’ rai
Di vita eterna la dolcezza senti,
Che non gustata non s’intende mai,
Grazioso mi fia se mi contenti
Del nome tuo, e della vostra sorte.
Ond’ella pronta e con occhi ridenti:
La nostra carità non serra porte
A giusta voglia, se non come quella
Che vuoi simile a sè tutta sua corte,
Io fui nel mondo vergine sorella;
E se la mente tua ben si riguarda,
Non mi ti celerà l’esser più beltà,
Ma riconoscerai ch’io son Piccarda,
Che, posta qui con questi altri beati,
Beata son nella spera più tarda.
Li nostri alletti, che solo infiammati
Son nel piacer dello Spirito Santo,
Letizian dal suo ordine formati;
E questa sorte, che par giù cotanto,
Però n’è data, perchè fùr negletti
Li nostri voti, e vóti in alcun canto.
Ond’io a lei: ne’ mirabili aspetti
Vostri risplende non so che divino,
Che vi trasmuta da’ primi concetti.
Però non fui a rimembrar festino;
Ma or m’ aiuta ciò che tu mi dici,
Sì che ’l raffigurar m’è più latino.
Ma dimmi: voi, che siete qui felici,
Desiderate voi più alto loco,
Per più vedere, o per più farvi amici?
Con quell’ altr’ombre pria sorrise un poco;
Da indi mi rispose tanto lieta,
Ch’arder parea d’amor nel primo foco:
Frate, la nostra volontà quieta
Virtù di carità, che fa volerne
Sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
Se desiassimo esser più superne,
Fòran discordi gli nostri desiri
Dal voler di Colui che qui ne cerne;
Che vedrai non capere in questi giri,
S’essere in caritate è qui necesse,
E se la sua natura ben rimiri;
Anzi è formale ad esto beato esse
Tenersi dentro alla divina voglia,
Per ch’una fansi nostre voglie stesse.
Sì che,
come noi siam di soglia in soglia
Per questo regno, a tutto ’l regno piace,
Così allo Re che ’n suo voler ne ’nvoglia.
In la sua volontade è nostra pace,
Ella è quel mare, al qual tutto si muove
Ciò ch’ella cria, o che natura face.
Chiaro mi fu allor com’ogni dove
In cielo è paradiso, e si la grazia
Del Sommo ben d’un modo non vi piove.
Ha si com’egli avvien, s’un cibo sazia,
E d’un altro rimane ancor la gola,
Che quel si chiere, e di quel si ringrazia;
Così fec’io con atto e con parola,
Per apprender da lei qual fu la tela,
Onde non trasse insino al cò la spola.
Perfetta vita ed alto merto inciela
Donna più su, mi disse, alla cui norma
Nel vostro mondo giù si veste e vela;
Perchè ’n fino al morir si vegghi e dorma
Con quello Sposo ch’ogni voto uccella,
Che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
Fuggimmi, e nel su’ abito mi chiusi,
E promisi la via della sua setta.
Uomini
poi a mal più che a ben usi,
Fuor mi rapiron della dolce chiostra:
Dio lo si sa qual poi mia vita fusi!
PAR. III. 54-108.
E basti a noi questo tanto; pur avvertendo chi voglia vedere quanto tocca a Piccarda, che sarebbero a leggere intieri i Canti III e IV e parte del V del Paradiso. È poi tenuto il verso 106 dagli interpreti, come un’allusione al motto o soprannome della famiglia turbolenta de’ Donati; che era la parola Malefammi, Malefami o Malefarai9. Della sacrilega violenza fatta alla sorella ricevette poi messer Corso "a danno, vergogna ed onta, a satisfare l’ingiunta penitenza, che sì eccellente quasi Barone stette in camicia"10.
E già da quanto precede, e principalmente dalla violenza usata alla vergine sorella, puossi immaginare qual uomo fosse il capo di tutta questa famiglia, messer Corso Donati, a Egli e quelli della sua casa, dice il Villani, erano gentili huomini et guerrieri, di non soperchia richezza11". Ed altrove: a Questo messer Corso fu il più savio, il più valente cavaliere e ’l più bello parlatore, il meglio pratico et di maggiore rinomanza, di grande ardire et imprese, ch’ai suo tempo fosse in Italia. Fu bello della persona et di gratioso aspetto, ma molto fu mondano; et in suo tempo fece fare in Firenze molte commutazioni et scandali, per havere stato et signoria12". Anche più al vivo, poi, è dipinto da Dino Compagni al tempo della sua potenza soverchiatrice. "Uno cavaliere della somiglianza di Catellina Romano, ma più crudele di lui; gentile di sangue, bello di corpo, piacevole parlatore, adorno di belli costumi, sottile d’ingegno, con l’animo sempre intento a mal fare..... Costui fu messer Corso Donati, che per sua superbia fu chiamato il Barone; che quando passava per la terra, molti gridavano viva il Barone, e parea la sua terra. La vanagloria il guidava; molti servigi facea"13. E altrove: "Fu di corpo bellissimo fino alla sua vecchiezza, di bella forma con dilicate fattezze, di pelo bianco...., pratico e dimestico di gran signori, e di nobili huomini e di grande amistà, e famoso per tutta Italia. Nimico fu de’ popoli e de’ popolani, amato da’ masnadieri, pieno di maliziosi pensieri, reo e astuto14". In che anno nascesse, di che età fosse quando Dante s’apparentò con lui, non lo trovo. Ma, poichè ei morì in verde vecchiezza nel 1306, convien dire che ei fosse nel 1293 in matura virilità, e così maggiore d’una ventina d’anni, all’incirca, che Dante. Ebbe in moglie, se crediamo a Ferreto Vincentino, una sorella del vicino e poi nemico suo messer Vieri de’ Cerchi, la quale ei perdette in Trivigi, sendovi capitano appresso a Gerardo da Camino podestà. Corse voce che morisse ella di veleno ministratogli dal marito; e che, tornato esso in patria, e avendo a cena il cognato e facendo assaggiare il vino dallo scalco, "Non così, — dicesse Vieri, — desti a bere alla sorella mia"; e quindi venisser gli odii reciproci15. Ma essendo ciò taciuto dagli storici fiorentini, e date da essi altre origini a tali odii, forse ha questa a tenersi per una di quelle novelle, onde si spiegano dal volgo o da lungi i fatti politici.
Nè so nemmeno se abbia a tenersi per vera quella stretta parentela di messer Corso, così superbo, quasi Barone, con messer Vieri, uomo nuovo e popolano. Ad ogni modo, cognati o no, ed anno prima o poi, esercitarono i due una inimicizia che vedremo sovvertire la patria comune.
Ed ora, se tengasi a mente come Dante era stato senza dubbio della schiera de’ feditori o compagnia di messer Vieri alla battaglia di Campaldino, vedràssi facilmente che in questa inimicizia doveva più o meno esser tratto pur egli. Ma un’altra n’esercitava messer Corso, la quale toccava Dante anche più dappresso, contro al primo amico di lui, il quasi maestro e compagno di lui in poesia, quello a cui pur testè avea dedicato il libretto della Vita Nova, il
diletto suo Guido Cavalcanti. Qual fosse l’origine di tal’inimicizia non è detto; ma non fa difetto; che è facile a immaginare tra tal uomo soverchiatore e tiranno per natura, come veggiamo messer Corso, ed uno ardito e de’ più famosi della città, come vedemmo Guido Cavalcanti. Ad ogni modo, "messer Corso forte lo temea, perchè lo conoscea di grande animo; e cercò d’assassinarlo, andando Guido in pellegrinaggio a Santo Jacopo, e non venne fatto. Perchè, tornato a Firenze, e sentendolo, inanimò molti giovani contro a lui, i quali li promisero essere in suo aiuto16". Tra questi giovani può appena porsi in dubbio che non fosse Dante.
In tutto, s’io m’appongo, non sarà difficile farsi una idea della vita che dovea viver Dante tra tutti costoro, in quel vicinato, su quel canto de’ Pazzi, e intorno a quel San
Martino del Vescovo; ed anzi forse, della sua vita domestica tra le stesse mura dell’albergo avito degli Alighieri. Dante, vicino ed amico, ma quantunque de’ grandi o nobili di Firenze, non eguale agli altieri Donati, entrò non senza qualche vanagloria in tal famiglia, come si scorge in un luogo del Paradiso17. Ed entrato che vi fu, rimase o si fece amico si de’ più giovani e gentili fra essi, Forese e Piccarda; ma col superbissimo e soverchiator messer Corso, a lui superiore per età, nome, potenza in città e principato di famiglia, Dante, pur superbissimo ed inferiore solamente di posizione sociale, non d’animo, non dovette viver mai
in quella dipendenza che tali superiori sogliono esigere, e tali inferiori negare. Aggiugni le inimicizie di messer Corso contro a messer Vieri e a Guido Cavalcanti, vicino quello e capitano, questo amico del cuore di Dante; ed aggiugni quello sdegno che spontaneo sorge in cuor gentile dalle soverchierie stesse che non gli toccano; e conchiuderai, che il matrimonio di Dante colla Gemma Donati lo dovette cacciare in un vespajo di punture ed ire e inimicizie, indipendenti forse da Gemma, ma non operanti a rendergliela cara. Tutto ciò in generale mi par quasi certo; ma il volercisi addentrar più, sarebbe simile, e non più veritiero, a quei pettegolezzi i quali appunto si fanno ne’ vicinati per ispiegare e render piacevoli le storie, altronde non ben sapute. Veggiamo piuttosto ciò che queste inimicizie private, proseguite in mezzo alle parti pubbliche, operassero accrescendole, ed accresciutene a vicenda.
Note
- ↑ Pelli, pp. 37-77.
- ↑ Pelli, alb. geneal. - nota p. 28 e pp. 37 e seg.
- ↑ Boccaccio, Vita di Dante, p. 22.
- ↑ Boccaccio, Vita di Dante, p. 28.
- ↑ Leon. Aret., Ed. Min., p. 52.
- ↑ Leon. Aret., pp. 50 e 59. Confrontisi con il Pelli, pp. 49 e 63, osservando che la nota (3) di quest’ultima pagina vuol esser corretta secondo quelle più esatte di pag. 19.
- ↑ Dino Comp., Pelli, p. 77.
- ↑ Pelli, p. 63.
- ↑ Vedi Ed. Min.; e Gio. Vill., p. 370.
- ↑ Anonim. cit. nell’Ed. Min., al Parad. III, 49.
- ↑ Vill., p. 369.
- ↑ Vill., p. 434.
- ↑ Dino, p. 498.
- ↑ Dino, p. 523.
- ↑ Ferret. Vicent. Rer. It., T. IX, p. 974.
- ↑ Dino, p. 481
- ↑ Parad, XVI, 113-120.