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La lena m'era del polmon sì munta
Quando fui su, ch'io non potea più oltre,
Anzi m'assisi nella prima giunta.
Omai convien che tu così ti spoltre,
Disse il Maestro, chè seggendo in piuma,
In fama non si vien, nè sotto coltre.
Sanza la qual chi sua vita consuma,
Cotal vestigie in terra di sè lascia,
Qual fiamma in aere o in acqua la schiuma.
Ad ogni modo, a Bologna ed a studio non par dubbio che andasse Dante, più o meno, dopo la metà del 1304. Quanto vi dimorasse, di nuovo è incerto; probabilmente non oltre il 1 marzo 1306, in che i Bolognesi riaccostandosi ai Neri di Firenze, cacciarono i fuorusciti Bianchi, e ne furono interdetti e privi dello Studio da un legato pontificio; il quale, come altri da noi veduti, volle far da pacier, e non riuscendo, scomunicava1. Antico costume era, poi, che gli studenti, per qualunque occasione cacciati dallo Studio di Bologna, rifuggissero a quello di Padova. Ed in Padova troviamo pochi mesi dopo Dante aver preso dimora e casa. Risulta da un atto privato fatto addì 27 agosto di quell’anno 1306 da una Donna Amata Papafava, nel quale serve di testimonio Dantino quondam Aligierii de Florentia, et nunc stat Padue contrata Sancti Laurentii2. Pochi giorni dopo questo atto troveremo Dante in Lunigiana; ondechè o allo studio di Bologna, o a quel di Padova, ma in somma a studiare oramai, non più a parteggiare, vedesi che ei rimane da due anni interi. Aveva seco chiamato da Firenze Pietro figliuolo suo primogenito entrante in adolescenza3; e ciò potè essere cagione principale delle sue dimore. Ma vi fu probabilmente fermato ancora per proprio conto da’ propri studi, oramai da lui ripresi.
Il passaggio dalla vita attiva alla contemplativa, dalle occupazioni imposte e seguentisi dì per dì a quelle volontarie che il proprio animo solo fa assumere e continuare, dalle compagnie di guerra, dai congressi di stato, alla solitudine taciturna della cameretta di studio, è passaggio, è mutazione desiderata sovente in parole da molti uomini potenti; ma nel fatto, difficile a portar bene, e talor anche a portare. Non pochi si son veduti morirne d’inedia; molti partirne nel corpo e nell’animo, e quasi tutti scaderne nell’opinione. Pochi mantengono il loro ingegno a quel grado ove stava ed era riputato prima; pochissimi salirono a grado superiore. Solo forse Dante s’alzò di terra in cielo. Probabilmente, senza l’esilio e senza separarsi dagli esiliati, quasi secondo esilio di Dante, egli non avrebbe fatte o avrebbe fatte men bene le opere sue, e specialmente il poema; e certo quali sono queste opere tutte, salva la Vita Nova, ei le fece nell’esilio e nell’esilio appartato. Vedremo le prove ad ognuna. Qual forza nativa poi, qual confermarsi, indurarsi, ed ostinarsi gli fosse mestieri perciò; quali interni combattimenti, quali mutazioni di disegni, quali vicende d’ire e dolori, scoraggiamenti e desiderii si succedessero in lui, sarà facilmente immaginato da tutti coloro che abbiano intesa la varia natura di Dante. Fuor della quale poi, meno che mai s’intenderebbe quanto segue di lui. E’ narrato, che di ritorno da Verona ei "ridussesi tutto a umiltà, cercando con buone opere e buoni portamenti riacquistare la grazia di poter tornare in Firenze per ispontanea rivocazione di chi reggeva la terra. E sopra questa parte s’affaticò assai, e scrisse più volte non solamente a’ particolari cittadini del reggimento, ma ancora al popolo; e intra l’altre un’epistola assai lunga che incomincia: Popule mi quid feci tibi?"4 Chiaro è quindi che queste speranze di ripatriare, queste lettere conciliatorie furono di questi anni tra il 1304 e il 1306, contemporanee del ritorno alla vita studiosa, e delle due dimore agli studi di Bologna e di Padova. Ed altri cenni poi di questo nuovo, ma non durevole animo trovansi e in alcune delle poesie di lui d’incerta data, e nelle opere da lui intraprese o riprese a quel tempo.
Delle quali che la prima fosse il Convito non ne dubiteranno tutti coloro che si risolvano a leggerlo attentamente; tenendo conto e delle date indi risultanti, e poi della natura stessa dell’opera, che è quasi continuazione della Vita Nova. Quindi anzi alcuni fanno una parte di esso scritta fin da Firenze; ma parmi congettura fondata su interpretazioni dubbiose, non necessaria a spiegar nulla, e rigettabile per la ragione intrinseca che tutte le parti del libro sono scritte con animo ghibellino, e così di Dante esule. Del resto importa poco; posciachè insomma l’opera qual’è, non potè certo essere scritta se non nell’esilio ivi rammentato5. Che fosse scritta prima del Volgare Eloquio e della Monarchia, è chiaro dal trovarsi in quella i germi di queste due opere, non solendo uno scrittore andar dall’idea spiegata alla confusa. Che il fosse prima della Commedia è certo dai luoghi di questa che correggono parecchie opinioni enunciate in quella6; e che il fosse prima del 1305 si vede dal modo in che v’è parlato, come di vivo, di Giovanni di Monferrato che morì in quell’anno7. Parmi quindi che si possa tener per fermo che qual’è il Convito che fu scritto in questi primi anni dell’esilio; forse tra ’l primo vagar colla sua parte, forse al primo rifugio breve di Verona, probabilmente in questo più lungo riposo di Bologna e Padova, certo non più tardi; e risulterà anche più chiaro dall’esame dell’opera stessa, strana, puerile e da principiante nella forma, perchè pur vi risplendano di tempo in tempo tali pensieri da non disgradarne l’autore della Divina Commedia.
I lettori avranno, spero, a memoria quella gentildonna pietosa di cui Dante poco dopo la morte di Beatrice s’innamorò e poi si diasmorò "cacciando questo mal pensiero e desiderio" e di nuovo rivolgendo tutti i suoi pensamenti alla "gentilissima Beatrice"8. Rammenteranno, che alcuni versi per questa gentildonna furono posti da Dante nella stessa Vita Nova. Ma oltre quelli, ei ne fece non pochi altri per lei; fra gli altri le tre canzoni che incominciano con questi bei versi:
Voi che intendendo il terzo ciel movete.
Amor che nella mente mi ragiona.
Le dolci rime d’amor ch’i solia.
Nella prima delle quali di nuovo parla Dante dei due amori combattentisi, a sua donna morta in terra e viva in cielo, e alla gentildonna pietosa; nella seconda loda l’oggetto del nuovo amor suo; e nella terza dirige a lei una lode della nobiltà. Undici altre canzoni che non s’hanno o non si sa quali sieno, parlavano forse pur di questo o di altri suoi amori. Ora, a Dante esule e studioso e forse ideante di ricominciare il poema votivo a Beatrice, venne in animo di dimostrare con un non breve commento delle quattordici canzoni: ch’egli in quelle parlando al senso proprio della gentildonna, suo secondo amore, aveva allegoricamente voluto parlare del suo amore alla filosofia; e che perciò dove si leggeva amore si doveva intendere studio; dove donna, filosofia; dove terzo cielo di Venere, rettorica terza scienza del trivio; dove angeli motori di tale sfera, Boezio e Tullio, che insomma dovean tenersi per li soli suoi consolatori9. Io lascio i lettori pensare ciò che vorranno della verità di tal commento. Dico sì che lo scrittore esponendo separatamente il senso litterale ed allegorico di ogni canzone, è chiaro, bello e buono quasi sempre nella prima esposizione, oscuro, tirato, intralciato e contraddicentesi nella seconda; che il libro finito qual’è per le tre canzoni dette fin dall’anno 1304, fu poi dall’autore ne’ 17 altri anni che visse, abbandonato probabilmente come non buono a finirsi; e che chi voglia credere a lui in questo libro così abbandonato non avrebbe a creder poi all’altro principalissimo suo, fatto e finito con amore sino al fine, nè ai rimproveri di Betrice, nè alla confessione di Dante per li suoi errori; rimproveri e confessione che hanno là suggello di sincerità e spontanietà, tanto più che non qui queste stirate scuse. Certo io prescelgo credere al Poema. Del resto, non si vuol apporre a Dante una determinata intenzione d’ingannare. Egli dice fin da principio "che non intende in alcuna parte derogare" alla Vita Nova10; non dice che il senso allegorico sia unico, ed anzi incomincia ad esporre il litterale; ed in somma, non fa se non ciò che fecero altri prima di lui e dopo, e fra gli altri il Tasso, sovrapponendo allegorie ad opere compiute. Ma nota bene, che a Beatrice e all’amor suo egli non sovrappone qui allegoria niuna: ei lo fa sì nella Commedia, ma ne vedremo a suo luogo la ragione.
Convito chiama Dante quest’opera sua con mal cercato titolo, che non esprime nulla; a differenza degli altri titoli suoi, il cui senso è oscuro, forse a prima vista, ma chem penetrato, è proprio profondo e compiuto. Dice, che il Convito suo è imbandimento di scienza da lui fatti ai leggitori; nè allude di niuna maniera al titolo simile del famoso dialogo di Platone. Il quale essendo pure sull’amore, alcuni credettero che questa di Dante fosse un’imitazione. Io non so se allora fosse alcuna traduzione latina di Platone; ed è probabile che il titolo solo, tutt’al più, fosse noto a Dante. Forse egli, sapendo confusamente che Platone aveva scritto quel Dialogo dell’Amore, e che l’innalazava a spiritualità, volle dare il medesimo titolo al suo trattato del medesimo assunto. Ad ogni modo il titolo solo, se mai, fu da lui imitato. Chè quanto il trattato di Dante è inferiore per rispetto d’arte, tanto senza dubbio è superiore per modestia d’esposizione al dialogo greco: vergogna se non dello scrittore, almeno dell’età e della civiltà in che fu scritto. Il primo Trattato, poi, non è altro che una prefazione, dove, con povera similitudine, dice che laverà le macchie che potessero apporsi alla sua imbandigione; e sono il parlare di sè e lo scrivere volgare. Bella è la sua difesa dell’usar la lingua volgare; ma guasta anche essa dalle arguzie, e non comparabile a ciò ch’ei ne scrisse sviluppando i suoi pensieri nel libro dell'Eloquio11. E pur bello e più importante, poi, al nostro argomento, è ciò che aggiugne all’altra sua scusa:"Ahi! piaciuto fosse al Dispensatore dell’universo, che la cagione della mia scusa mai non fosse stata! chè nè altri contro me avria fallato, nè sofferto avrei pena ingiustamente; pena, dico, d’esilio e di poverta. Poichè fu piacere della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gettarmi fuor del suo dolcissimo seno (nel quale e nodrito fui al colmo della mia vita, e nel quale con buona pace di quella, desidero con tutto il cuore di riposare l’animo stanco e terminare il tempo che mi è dato), per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contro a mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente, io sono stato legno sanza vela e sanza governo portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertà; e sono vile apparito agli occhi a molti, che forse per alcuna fama in altra forma m’aveano immaginato; nel cospetto dei quali non solamente mia fortuna invilìo, ma di minor pregio si fece ogni opera sì già fatta come quella che fosse a fare....12 Onde, conciossiachè,
com’e detto di sopra, io mi sia a quasi tutti gli Italici rappresentato, perchè fatto mi sono più vile forse che il vero non vuole, non solamente a quelli alli quali mia fama era già corsa, ma eziandio agli altri, onde le mie cose sanza dubbio meco sono alleviate, convienmi che con più alto stilo dea nella presente opera un poco di gravezza per la quale paia di maggiore autorità; e que sta scusa basti alla fortezza del mio commento"13. Sono evidenti qui i sentimenti di dolcezza e mansuetudine già espressi nelle lettere scritte a questi tempi.
Il secondo Trattato commenta la prima Canzone, ed è quello ove Dante adempie il suo disegno di spiegare ed allegorizzare quell’amore ch’egli or rinnega; e già n’è detto abbastanza. Se non che, qui è una professione di fede dell’immortalità dell’anima, bella per sè quanto ogni
altra ch’io conosca fra quelle date da’ filosofi; atta poi a mostrare quanto Dante si scostasse da coloro che a suo tempo eran detti Epicurei; e bellissima per l’affetto che glielo ispira, e con che principia e finisce. Si contentino quindi i leggitori, ch’io qui ponga la citazione, quantunque lunga; e perdonino ciò che qui dice Dante dei sogni, Dante che si consolava, e n’avea parlato poco prima, della rivelazione avuta della vita eterna di sua donna. "Ma, perocche dell’immortalità dell’anima è qui toccato, farò una digressione ragionando di quella; perchè di quella ragionando, sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, della quale più parlare in questo libro non intendo. Per preponimento dico, che in tra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita altra vita non essere. Perciocchè, se noi rivolgiamo tutte le scritture sì de’ filosofi come degli altri savi scrittori, tutti concordano in questo, che in noi sia parte alcuna perpetuale: e questo massimamente par volere Aristotile in quello dell’anima; questo par volere massimamente ciascuno stoico; questo par volere Tullio spezialmente in quello libello della vecchiezza14; questo par volere ciascuno poeta che secondo la fede de’ gentili hanno parlato; questo vuole ciascuna legge, Giudei, Saracini e Tartari, e qualunque altri vivono secondo alcuna ragione. Che se tutti fossero ingannati, seguiterebbe una impossibilità, che pure a ritrarre sarebbe
orribile. Ciascuno è certo che la natura umana è perfettissima di tutte le altre nature di quaggiù; e questo nullo niega, e Aristotile l’afferma, quando dice nel duodecimo degli Animali, che l’uomo è perfettissimo di tutti gli animali. Onde, conciossiacosachè molti che vivono
interamente siano mortali siccome animali bruti, e sieno sanza questa speranza tutti mentreche vivono, cioè d’altra vita, se la nostra speranza fosse vana, maggiore sarebbe lo nostro difetto che di nullo altro animale, conciossiacosachè molti sono già stati che hanno data questa vita per quella. E così seguiterebbe che ’1 perfettissimo animale, cioè l’uomo, fosse imperfettissimo, ch’è impossibile; e che quella parte, cioè la ragione, che è sua perfezione maggiore, fosse a lui cagione di maggiore difetto, che del tutto pare diverso a dire. E ancora seguiterebbe, che la natura contro a sè medesima, questa speranza nella mente umana posta avesse, poichè detto è che molti alla morte del corpo sono corsi per vivere nell’altra vita; e questo è anche impossibile. Ancora vedemo continua sperienza della nostra immortalità nelle divinazioni dei nostri sogni, le quali essere non potrebbono, se in noi alcuna parte immortale non fosse: conciossiacosachè, immortale convenga essere lo rivelante, o corporeo o incorporeo che sia, se ben si pensa sottilmente (e dico corporeo e incorporeo per le diverse opinioni ch’io trovo di ciò); e quei che è mosso, ovvero informato da informatore immediato, debba proporzione avere allo informatore: e dal mortale allo immortale nulla sia proporzione. Ancora n’accerta la dottrina veracissima di Cristo (la quale è via, verità e luce; perchè per essa sanza impedimento andiamo alla felicità di quella immortalità, verità perchè non soffera alcuno errore, luce perché illumina noi nelle tenebre dell’ignoranza mondana); questa dottrina, dico, che ne fa certi sopra tutte altre ragioni, perocchè quegli la n’ha data, che la nostra immortalità vede e misura, la quale noi non potemo perfettamente vedere, mentreche ’1 nostro
immortale col mortale è mischiato; ma vedemolo per fede perfettamente; e per ragione lo vedemo con ombra d’oscurità, la quale incontra per mistura del mortale coll’immortale. E ciò dee essere potentissimo argomento che in noi l’uno e l’altro sia; ed io così credo, così affermo, e così certo sono: ad altra vita migliore dopo questa passare, là dove quella gloriosa donna vive, della quale fu l’anima mia innamorata"15.
Il terzo Trattato espone la seconda Canzone in lode della donna, suo secondo amore, tramutata ora in filosofia; e mi sembra aver tutti i difetti e non le sparse bellezze del secondo. Ciò che v’ è di più importante per la storia degli amori di Dante, già fu da noi desunto a suo luogo. Osservabilissimo è, poi, il quarto Trattato per una nuova cavillazone sovrapposta all’altre. "È da sapere, che Federigo di Soave, l’ultimo imperadore delli Romani (ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo e Adolfo e Alberto poi eletti sieno appresso la sua morte e de’ suoi discendenti)16, domandato che fosse gentilezza?17 rispose, che era antica ricchezza e bei costumi. E dico che altri fu di più lieve sapere; chè, pensando e rivolgendo questa definizione in ogni parte, levò via l’ultima particola, cioè belli costumi, e tennesi alla prima, cioè all’antica ricchezza"18. Su questo detto, Dante, cittadino grande ma guelfo, e fattosi popolano e partecipante al governo di Firenze guelfa e popolana, aveva fatta una Canzone, in cui, con buonissimi argomenti filosofici, benchè forse (come succede argomentando) co’ peggiori versi ch’egli abbia mai scritti, ei confutava quella orgogliosa, imperiale e ghibellina opinione. Nè ora, commentandola, ei la rinnega; essendo uomo troppo nobile per virtù da voler ricredersi, ed attribuir la nobiltà vera alle ricchezze od al sangue. Ma diventato ora ghibellino, ed incamminato qui in cavillazioni e distinzioni e scuse, gli sorge uno scrupulo, ed intraprende di provare che non peccò d’irriverenza contraddicendo a uno imperadore. E forse egli entra in tale scusa principalmente per aver occasione di magnificare la dignità imperiale, l’imperio di Roma e la Monarchia; cioè, come egli intende sempre, la supremazia d’un solo imperadore
nel mondo, la monarchia universale. Ma, ad ogni modo, ei v’ha qui gran mutazione, e non felice, dello infelice ed irato scrittore. Del resto, come vedemmo poc’anzi il seme del Volgare Eloquio, qui è quello della Monarchia; dove poi l’argomento è svolto in modo più opportuno, più
chiaro, ed anche più moderato per l’ opposizione che vi si fa dell’autorità spirituale del Papa a quella autorità universale temporale. Ma di ciò a suo tempo.
In tutto, il Convito è certo l’infima fra le opere di Dante; non di gioventù vera, come la Vita Nova e quasi tutte le poesie sciolte; non tendente a due fini importantissimi in quell’età, come l'Eloquio Volgare e la Monarchia; nè comparabile, poi, di niuna maniera col Poema. Fu opera d’un infelice, sbalzato dalla tranquillità sua d’animo e di vita nelle vicende, nelle miserie, nei dubbi, nell’ire dell’esilio; che voleva ricorrere allo studio, che ne cercava le vie, che ancor non si sentiva di riprender l’opera grande ideata in tempi migliori; che riprendeva i pensieri, le opere di gioventù, a commentarle e spiegarle e giustificarle, e ad aggiungervi poi i nuovi pensieri accumulati ma informi ancora nella feconda mente; e che ne rimase oppresso fino a che egli non se ne sfogò in miglior modo. E secondo che ei venne poi ciò facendo nelle altre opere, ei lasciò questa, e fece bene. Il Convito è non più che un abbozzo
abbandonato dall’ autore.
Ma è reliquia importante, e per le notizie varie che se ne traggono della vita di Dante, e principalmente poi per l’intelligenza della Commedia, la quale fin dal primo verso non s’intenderebbe bene senza la spiegazione delle età dell’uomo che si trova nel Convito19. Importantissima pure è la spiegazione di ciò che intenda Dante per allegorie, e come queste sieno di più sorte, e niuna debba distruggere il senso litterale20 ; spiegazione seguita dall’esempio del commento fatto qui da Dante a sè stesso. Il Convito dovrebb’essere il manuale de’ commentatori della Commedia21.
Note
- ↑ Veltro, p. 80; Murat. Ann. all’anno 1306; Vill. pp. 422-424.
- ↑ Pelli, p. 115,
- ↑ Veltro, p. 78.
- ↑ Leon. Aret. Ed. Min. V, 57 - Witte Ep. II, e III. Imperciocchè, l’ultima, già da noi citata più volte, dee certamente come pur osserva il dotto Editore, porsi fra le epistole conciliatorie dei presenti anni.
- ↑ Vedi se puoi le locupletissime ma disaccordi dissertazioni del Triulzi nell’Edizione della Minerva, Padova 1827; - del Solari nell’Appendice a tal edizione 1828 - e del Fraticelli nell’edizione di Firenze 1834. L’argomento maggiore di questo a provare che il trattato I° del Convito fu scritto nel 1313 è il modo con che Dante parla ivi dei paesi di tutta Italia già corsi nell’esilio, quasi non potesse così parlare se non nel 1313. Ma noi vedemmo che già nel 1304 Dante avea percorsa Toscana, Romagna e Lombardia; nè dal 1305 al 1313 egli aggiunse a quelle già visitate altre contrade se non le riviere di Genova ed Udine, V. pp. 569 e seg. Un altro argomento si fonda su un passo del medesimo trattato interpretabile in due modi con egual probabilità, ondechè è dubbia la conclusione, V. pp. 500 e seg. Del resto questo trattato I del Convito è quello appunto di che, a parer mio, è più determinata la data al 1304, parlandosi in esso (p. 22) come di opera non fatta ancora, del Vulgare Eloquio che vedremo principiata prima del 1305
- ↑ L’opinione sulle macchie della luna espresse nel Convito Tr. II cap. 14 è corretta nel Paradiso II e XXII. L’opinione sugli ordini di spiriti celesti reggenti le sfere espressa nel Convito Trat. II, Cap. 6 è corretta nel Paradiso VIII 34, XXVIII 134.
- ↑ Veltro, pp. 77, 78.
- ↑ Vita Nova p. 69; e lib. I, capo VII dell’opera presente.
- ↑ Vedi l’intenzione generale di tutto il Commento dimostrata ne’ Capi 1°.2°.3° del trattato I° a pag. 6, 12, e 13 dell’Ediz. della Minerva. Nel sommario del Tr. II si pone come figura della filosofia, Beatrice, mentre è la gentildonna. Perchè poi tal errore distrurrebbe quanto segue nel testo mio, perciò parvemi necessario rifar quel sommario, e l’ho messo come nota aggiunta in calce al volume.
- ↑ pag. 6.
- ↑ Cap. 5 e seg.
- ↑ Trat. I°, C. 3, p. 13, 14.
- ↑ Cap. 14, p. 18
- ↑ Osservisi a conferma del non aver Dante conosciute le opere di Platone, ch’ei non le cita qui; quantunque, non solamente nel Fedone, ma in esse tutte, più che in quelle di niun antico, sia dimostrata, quanto potevasi allora, l’immortalità dell’anima.
- ↑ Con. Trat. II, Cap. IX, p. 90
- ↑ Questo dimostra, se fosse mestieri, il Trattato presente scritto regnante Alberto, e così prima del 1307.
- ↑ Sinonimo allora di nobiltà.
- ↑ Trat. IV, cap. 3, p. 218.
- ↑ Trat. IV, C. 23, 24, e seg., pp. 322 e seg.
- ↑ Tratt II. C. I.
- ↑ Se le opinioni sovr’espresse sulla data del Convito, sullo scopo e sul confronto di esso colle altre opere di Dante, fossero trovate buone, ne verrebbe che manca tuttavia un’edizione di esso, convenientemente illustrata. Ma le edizioni della Minerva e di Firenze con l’appendice del Solari, sarebbero ajuti preziosi per li nuovi lavori da farsi.