< Vita di Dante < Libro II
Questo testo è incompleto.
Capo Duodecimo - Pisa, Lucca, il Purgatorio.
Libro II - Capitolo XI Libro II - Capitolo XIII


Ma qui la morta poesia risurga,
O sante Muse, poi che vostro sono.

Purg.I.


Ma abbandoniamo il Dante politico, o almeno il Dante dubbioso, variante; e non per viltà, ma per ira, anch’esso barcheggiante. Torniamo a Dante esule forte, poeta sublime, ed uomo tanto più altiero quanto più infelice. Il lasciammo e il ritroviamo in Pisa, dove probabilmente compiè o fece gran parte della Monarchia e del Purgatorio, sotto la protezione di Uguccione della Faggiola, signore di quella città dopo il misero rifiuto del re di Sicilia. Pisa ed Uguccione mostravano ora, dopo la morte d’Arrigo e a capo di parte ghibellina, il medesimo ardire che Firenze testè a capo di parte guelfa. Soli quasi erano nell’Italia meridionale contro a papa Clemente V, Roberto, re di Puglia, Firenze, Lucca e Siena; ed a schermirsene Uguccione tentava negoziati ed apparecchiava armi; quando dalla fortuna, larga sempre d’ajuti ai costanti, ebbe quello che Firenze poc’anzi, la morte di uno de’ principali nemici suoi, Clemente V (10 aprile 1314)1.

Questi avea riempito già il Sacro Collegio di cardinali francesi. Quattro soli italiani trovaronsi al Conclave, tenuto con funesti auspicii per l’Italia in Carpentras: Niccolò da Prato, il non felice paciero di Toscana per papa Benedetto; Napoleone Orsini, l’altro non dissimil paciero per papa Clemente; Francesco Gaetani, un resto della famiglia di Bonifazio; e Pietro Colonna, de’ nemici di questo. Ai quali, e forse a pochi altri cardinali italiani, Dante, probabilmente dal suo rifugio di Pisa, scrisse una lettera per confortarli a nominare un papa italiano. E’ ventura che ne rimanga tal lettera, la quale serve a compiere la nostra idea delle opinioni di Dante. Imperciocchè, siccome il vedemmo nelle lettere precedenti e nel Poema e nella Monarchia desiderare la venuta a Roma dell’Imperadore; così lo veggiamo qui desiderare e sforzarsi di procacciare la tornata del Papa. Nè, certo, questo era desiderio da ghibellino estremo; chè quantunque i Papi non fossero stati ultimamente i veri capi di parte guelfa, tuttavia essi v’erano certo principali, ed essa non poteva non rinforzarsi per loro tornata. Il desiderio di Dante mostra, se non altro, esser egli stato mosso meno dagli interessi particolari della parte, che non da quelli più generali, qui bene intesi da lui, dell’Italia e della Cristianità. E forse gli tornavano a mente, a malgrado della sua ira ai Papi, i tentativi loro pe’ lor Legati in favore dei fuorusciti; e qualche speranza gliene rinasceva, che si rinnovassero per un nuovo papa italiano siffatti tentativi. Ma, fosse più o meno disinteressato, si vede chiaro qui ad ogni modo il suo desiderio imparziale per l’uno come per l’altro dei due, che stimava legittimi ornamenti e capi della nazione italiana.


E così è, che la lettera di lui nella presente occasione, quantunque giunta a noi mozza e mal concia, va piu libera di quelle generalità e que’ cercati esempii, che fan le altre così lontane dallo stile pratico de’ negozii, come dal bello scrivere di Dante. Incomincia con invettive contra gli studii e la cupidigia degli ecclesiastici contemporanei suoi, così diversi da San Gregorio, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, Dionisio, il Damasceno e Beda: eccettua solo il vescovo di Luni, Gherardino Malaspina, amico suo certo, come tutta quella nobil famiglia. Scusasi poi di aprir bocca, egli semplice Fedele, su tanti scandali. "Io son fatto loquace? voi mi ci sforzaste. E vengavi pur vergogna d’esserne da così basso luogo, non dal cielo ammoniti.... Tenetevi dinanzi agli occhi l’immagine di Roma, orba ora de’ suoi due luminari, sola sedentesi e vedova: ed a voi importa ciò sopra tutti; voi che il sacro Tevere conosceste ne’ vostri primi anni. Chè, quantunque debba amarsi da tutti gli Italiani quella capitale della gente latina, come comune principio della sua civiltà, voi la vedete principalmente venerare, ai quali è principio del vostro medesimo essere quali siete. E se la presente miseria di lei oppresse di dolore, di vergogna e di rossore gli altri Italiani, voi ve ne dovete tanto più dolere ed arrossire, che foste cagione di quello oscuramento e quasi eclisse di lei".

Rivolge poi il rimprovero particolarmente all’Orsini, e a un altro ch’ei chiama capo della fazione Transteverina, ed è probabilmente il Colonna; e così termina: "Ma ne farete ammenda (non così pure che non ne resti segnata da cicatrice quella apostolica Sede, cui cieli e terra son riservati) se unanimi or tutti, voi che foste autori di tale enormità, ora per la sposa di Cristo, per la sede della sposa ch’è Roma, per l’Italia nostra, o, più pienamente dicendo, per tutta la città dei peregrinanti in terra, voi pugnerete virilmente così, che dalla palestra ov’or contendete, e dove siete guardati da tutt’intorno fino ai margini dell’Oceano, offerendovi alla gloria, possiate udire il grido di gloria in excelsis; e così che la vergogna de’ Guaschi, ardenti di cupidigia e sforzantisi d’usurpar la gloria de’ Latini, sia per tutti i secoli ai posteri in esempio"2.


Del resto, essendo stata vacante la Sede, e pendente l’elezione presso a due anni dopo l’aprile 1314, non è possibile supplire con precisione alla data mancante di questa lettera. Ma ella si può credere de’ primi mesi di tal vacanza; posciachè fu in breve manifesta l’impotenza de’ cardinali italiani, assaliti in Carpentras dai parenti del papa morto, e dai fautori di un’elezione francese. I cardinali italiani meritavano i rimproveri di Dante, e fu poi confessato in una lettera dell’Orsini a Filippo il Bello; ma tardo fu il loro pentimento: il Conclave empiuto di Francesi e prigioni in Francia, fece poi un Papa Francese3.

Intanto Uguccione respinto ne’ trattati, s’appigliava all’armi contro i più vicini de’ suoi numerosi nemici; e tanto tormentò Lucca, che la sforzò a far pace con Pisa, a restituir castelli ceduti già venticinque anni addietro dal conte Ugolino, e a rimettere i fuorusciti ghibellini; fra cui Castruccio Castracani, che fu poi quasi l’allievo e il successore di lui. L’ammissione dei fuorusciti contrarii era il solito segno del darsi vinta una parte; e ne seguì, come al solito, che in breve i riammessi cacciarono gli altri. E combattendosi perciò in Lucca addì 14 giugno di quell’anno, v’entrò Uguccione co’ Pisani, cacciò i Guelfi e il vicario del re Roberto, e lasciò saccheggiare otto dì la città e il tesoro fattovi recare di Roma da papa Clemente. Quindi Lucca fu signoreggiata da Pisa, e Lucca e Pisa da Uguccione; il quale mise podestà a Lucca Francesco della Faggiola, uno de’ suoi figliuoli; mentre Neri, un altro di essi, insignorivasi di Borgo San Sepolcro. Le strettezze dei Ghibellini diventavano grandezza della casa d’Uguccione; in mano a cui, quantunque semplice capitano di ventura, si davan essi per difetto di capi più potenti e più splendidi4.

E sotto lo schermo dell’amico, potè quindi senza pericolo entrar Dante in Lucca, quantunque da lui ingiuriata nell’Inferno. Certo, non prima; sendo Luca fin allora rimasta avversaria caldissima de’ Bianchi, de’ Ghibellini e d’Arrigo VII. Ma entratovi così e dimoratovi, trovò Dante costì chi lo fece ricredersi di questo almeno fra i tanti vituperii saettati contra le città italiane. Terminando poco appresso, anzi appunto nel restante di quell’anno 1314, la Cantica del Purgatorio, v’introduceva quel Buonaggiunta da Lucca di cui già parlammo, e facèvaselo nominare dall’amico Forese fra parecchi altri:

{{Centrato|

Ma come fa chi guarda e poi fa prezza
Più d'un che d'altro, fe' io a quel de Lucca
Che più parea di me aver contezza.
El mormorava; e non so che Gentucca
Sentiva io là ov'el sentìa la piaga
Della giustizia che sì gli pilucca.
O anima, diss'io, che par sì vaga
Di parlar meco, fa sì ch'io t'intenda,
E te e me col tuo parlare appaga.
Femmina è nata, e non porta ancor benda,5
Cominciò ei, che ti farà piacere
La mia città, come ch'uom la riprenda.

Tu te n'andrai con questo antivedere:
Se nel mio mormorar prendesti errore,
Dichiareranti ancor le cose vere.
Purg.XXIV. 34-48

}}

Ma di questa Gentucca, la cagione della gentil disdetta di Dante, nulla si sa; nulla aggiugnendo i nomi d’Antelminelli Allucinghi ch’ella portò forse, oltre quello così dolcemente cantato6. Nè c’interneremo noi nella disputa: quanto amore avesse Dante per questa Gentucca, e di quanto fosse di nuovo infedele a Beatrice. Laciamo in pace le consolazioni o gli errori del povero esule.

Nel medesimo anno 1314, ai 29 novembre, morì poi un altro de’ grandi avversarii di Dante, Filippo il Bello re di Francia; del quale dicemmo abbastanza altrove. Ma dal trovar Filippo ancor menzionato e minacciato come vivente nell’ultimo Canto del Purgatorio, si trae la data più certa che sia della composizione di qualunque parte della Commedia. Chè, come il canto XXIV ov’è menzione del soggiorno di Lucca, non potè esser fatto prima del giugno, così il XXXIII ed ultimo non potè esser fatto dopo il novembre 1314. E così tutto al più fra questi sei mesi, furono tutti almeno questi dieci Canti. Perchè, poi, le invettive che sono al Canto VI contro Alberto sembrano scritte prima della discesa del suo successore nel 1310, certo pare, che la composizione di tutta la Cantica durasse tutti que’ cinque anni dal 1310 al 1314, od anche i sei dal 1309; e così fosse del doppio più lunga che non quella dell’Inferno preso a rifare in volgare. Ma prima, egli avviene a tutti, e non che poeti ma scrittori e compositori d’ogni arte immaginosa, di far più rapidamente i principii che non il sèguito. E poi, Dante in questi anni aveva avuto l’animo distratto dalla venuta d’Arrigo; e benchè poca o niun’opera v’avesse fatta, egli era di quelli che mal sanno scrivere quando assistono allo spettacolo di fatti grandi, anche d’altrui. Io crederei che incominciasse il Purgatorio nel 1309 tra il riposo di Parigi, lo proseguisse nel 1310 tra le prime speranze della venuta d’Arrigo, e sospèsolo poi durante questa, lo finisse con nuovo impeto dopo la morte di lui, negli ultimi mesi del 1314.

Il Purgatorio non letto, o non letto tutto o non bene, da tanti che si professano ammiratori di Dante per aver letto Francesca e Ugolino, o al più l’Inferno; il Purgatorio è forse in tutto la più bella parte della Divina Commedia, o quella almeno dove meglio si dimostra la più bella parte dell’animo di Dante, l’amore. L’Inferno, quasi tutto ira ed orrore, fu certo soggetto molto conforme alla natura di Dante. Ma gran virtù dell’anime veramente poetiche è la varietà, la scuscettività di sentire ed esprimere affetti diversi, quello principalmente onde si consola quaggiù e si adempie lassù la nostra natura. Dante uscito nel Poema dalla caligine e dalle strette infernali alla luce del sole ed altre speranze di pace e riposo che sorgono nell’esule al toccar la terra straniera; Dante fin dai primi versi del Purgatorio intuona un nuovo canto d’amore, assume un nuovo stile tutto luce, ch’ei più non dismette, salve poche eccezioni, sino al fine. Nel Purgatorio sono gli episodii dell’amico suo Casella, che gli canta la sua prima canzone d’amore; della Pia, la infelice Sanese spenta in Maremma per calunnia e gelosia; delle dolci accoglienze di Virgilio e Sordello concittadini; del gentil giudice di Gallura, Nino della Gherardesca, altro amico di Dante, e suoi rimprocci alla moglie e sue raccomandazioni alla figliuola; del miniatore Oderisi, e sue patetiche riflessioni sulla vanità della gloria; di Forese, l’amico della gioventù, con le tenere rimembranze e le lodi da lui dette dell’amorosa Nella sua; e quello testè citato di Gentucca e di Buonaggiunta, seguito da quella spiegazione della poesia ispirata ad amore, che recammo altrove; e poi la descrizione del paradiso terrestre con quelle figure così gentili, qualunque cosa figurino, di Lia e Matelda; e finalmente e soprattutto que’ tre canti divini del ritrovamento della sua Beatrice, dopo dieci anni secondo la finzione, ma dopo ventiquattro secondo la verità, della sua separazione da essa. Il Purgatorio è un canto crescente d’amore dal principio sin presso al fine.

E vi s’aggiungono le numerose e meravigliosamente variate figure d’angeli ivi introdotte. Furono osservate già e lodate dal Ginguené, ma non forse abbastanza. Ognuno sa, esser questa degli angeli una delle più gentili e poetiche credenze della fede nostra; una di quelle che più dimostrano, come bellezza segua verità. Ma niun poeta cristiano finora (nemmeno Byron nè Moore, e molto meno un modernissimo e sventuratissimo in ciò) non trasse da tale credenza tanta poesia, come Dante. Chi volesse qui pienamente intenderlo e gustarlo avrebbe a cercare nelle altre Opere di lui, specialmente nella Vita Nova e nel Convito, il complesso de’ pensieri di lui rispetto a quelle celestiali creature. Eccettuate le poesie delle sante scritture, Dante fu il poeta di tutti lontano dalla materialità, più assorto nelle contemplazioni spirituali. Vedeva chiaro dinanzi a sè il mondo riunito della materia e degli spiriti. La materia insensibile, la vegetativa, la animata, via via innalzantesi di grado e di nobiltà fino a noi. Noi uomini, materia e spirito, quasi mediani tra’ due mondi o grado dall’uno all’altro, e sopra di noi gli spiriti senza materia. Non volontà, e così non libertà nella materia sotto di noi; volontà e libertà di far bene o male in noi soli, materia e spirito; volontà, ma senza più libertà, sopra di noi negli spiriti puri7. Di questi spiriti mal adorati sotto nome d’iddii dagli antichi, ma da noi o con timore o con amore creduti sotto quello di angeli, vedeva i cattivi e mal volenti regger l’inferno, i buoni e ben volenti governare, quali i diversi cieli, quali le azioni degli uomini, quali una virtù speciale, una serie di eventi, e quali le dolci e speranti pene del purgatorio8. Già un angelo era apparito a Dante, ma ratto, silenzioso e terribile, ad aprirgli le porte di Dite in inferno. Ed in questo pure è mirabile per poetica fantasia, e solenne a chiarirci le idee di Dante di tutto ciò, quella descrizione della Fortuna, già dea, ora angelo per lui.

{{Centrato|

Colui lo cui saver tutto trascende,
Fece li cieli, e diè lor chi conduce;
Sì ch'ogni parte ad ogni parte splende.
Distribuendo ugualmente la luce:
Similmente agli splendor mondani
Ordinò general ministra e duce,

Che permutasse a tempo li ben vani
Di gente in gente, e d'uno in altro sangue,
Oltre la difension, de' senni umani.
Per che una gente impera e l'altra langue,
Seguendo lo giudicio di costei,
Che è occulto, come in erba l'angue.
Vostro saver non ha contrasto a lei;
Ella provvede, giudica e persegue
Suo regno, come il loro gli altri dei9
Le sue permutazion non hanno triegue;
Necessità la fa esser veloce,
Sì spesso vien chi vicenda consiegue10.
Quest'è colei ch'è tanto posta in croce
Pur da color che le dovrian dar lode,
Dandole biasmo a torto, e mala voce.
Ma ella s'è beata e ciò non ode:
Con l'altre prime creature lieta,
Volve sua spera e beata si gode.
Inf.VII. 73-96.

}}

Qui, poi, nel Purgatorio fin da principio ecco un angelo su d’una navicella veleggiata dalle due ali spiegate di lui, che guida le anime per l’oceano alle falde dell’isolato monte di Purgatorio. Un altro angelo è alla felice porta di questo; uno a ciascuna delle scale per cui si sale dall’uno all’altro balzo, e ciascuno di essi veste e parla ed opera in modo diverso. Ed angeli poi sono le virtù che circondano il carro di Beatrice; angeli le sustanze pie, che fanno coro a lei, che intercedon per Dante quando ella il rimprovera, ed a cui ella volge le parole. E in ciò come nell’amore, è la medesima progressione d’importanza e di bellezza dal principio al fine della Cantica; e tutto quel crescendo d’amore e di angeliche figure, tutto si concentra intorno alla figura principale di Beatrice. Alla quale così quand’anche fosse allora passato il Poeta, ben averebbe potuto passar contento d’avere sciolto il voto: già era detto di lei ciò che non fu detto mai di nessuna.

E qui la fabbrica è forse più bella che non nell’inferno, e certo più nuova e tutta sua. Trovasi il monte isolato del purgatorio nel meridiano e al luogo antipodo di Gerusalemme. Salitìvi i poeti dalla buca rovescia dell’inferno, trovano (invenzione strana forse, ma feconda di bellezze) Catone Uticense sul lembo del monte alla marina dove approdano l’anime11; e quindi salgono a una falda dove son fermate queste prima di salire al monte, tanto tempo quanto indugiarono a far penitenza in vita; salvo che sia loro accorciato tal tempo, come l’altre pene, dai suffragi de’ superstiti12. Il monte è accerchiato quindi da sette balzi; ove in varie pene confortate di certa speranza, sono purgati i sette peccati mortali, superbia13, invidia14, ira15, accidia16, avarizia17, gola18 e lussuria19. Entrando nell’infimo di questi balzi, sono le anime segnate di sette P sulla fronte, una de’ quali si cancella poi ad ogni salita; e Dante, quantunque vivo, partecipa salendo a quel marchio e a questa cancellatura. Giunto al balzo superiore de’ lussuriosi, i quali si purgano in fiamme, Dante si sbigottisce; ma per la brama di veder Beatrice al di là di quelle, ei le attraversa; e sale quinci alla cima del monte, ov’è il Paradiso terrestre, tagliato da Lete fiume dell’oblio. Lungo il quale, mentr’egli sta discorrendo con Matelda che coglie fiori sulle sponde20, apparisce finalmente all’altra sponda su un carro (intorno a cui il Poeta troppo desideroso adunò forse soverchi ornamenti ed allegorie) la tanto annunziata Beatrice: e allora sparisce Virgilio, e Dante passa da momentaneo dolore a gioja infinita, per vergognarsi poi a’ rimprocci ricevuti, e poi pentirsi, e quindi esser tuffato in Lete, e dimenticar sue colpe, e fissare allora gli occhi suoi negli occhi di lei, e da tale sguardo esser tratto dietro lei, che fissando il sole s’innalza alle stelle21.

Mirabile composizione è questa tutta per serenità, unità, proporzione di parti ed accrescimento d’interesse. Se non che, finita così verso la metà del Canto XXXI, si prolunga per due altri Canti e mezzo, ripieni delle più intricate e quasi inestricabili allegorie. Sono principali quella dell’Aquila Imperiale, che lascia le penne; e d’una meretrice sedente su un carro, nel quale certo rappresentò Dante la corte d’Avignone; e d’un drudo, il quale la batte, perch’ella rivolge gli occhi a lui Dante, che s’interpreta per Filippo il Bello, sdegnato del barcheggiare o di Bonifazio o di Clemente. Sulle quali allegorie quantunque molto sia stato scritto, molto si potrebbe scrivere ancora; ma sarebbe un fermarsi a ciò che è insieme meno certo e men bello in tutta la Commedia. Finisce poi tutto ciò con queste predizioni di Beatrice:

{{Centrato|

Non sarà tutto tempo senza reda
L'aguglia che lasciò le penne al carro,
Perchè divenne mostro, e poscia preda;
Ch'io veggio certamente, e però 'l narro,
a darne tempo già stelle propinque,
Sicure d'ogni intoppo e d'ogni sbarro,
Nel quale un cinque cento dieci e cinque,
Messo di Dio, anciderà la fuja,
E quel gigante che con lei delinque.
E forse che la mia narrazion buja,
Qual Temi e Sfinge men ti persuade;
Perchè a lor modo l'intelletto attuja.

Ma tosto fien li fatti le Naiàde
Che solveranno quest'enigma forte,
Sanza danno di pecore e di biade.
Tu nota, e sì come da me son porte
Queste parole, sì le insegna a' vivi.
Purg. XXXIII, 37-53.

}}

Il cinquecento dieci e cinque è da tutti interpretato per le tre lettere D.X.V., le quali invertite fanno DVX, che significa capitano. Certo, debbe intendersi un capitano ghibellino in Toscana, o Can della Scala che già si faceva tale in Lombardia, o un nuovo imperadore sperato in Italia, è impossibile determinare con certezza; benchè forse, da quanto siamo per vedere, è più probabilità per Uguccione22. Ma forse non era determinato nemmeno nella mente di Dante, il quale volle far qui non più che una minaccia indistinta. E ad ogni modo, non importa a noi, se non per notare qual fosse l’animo di Dante in questi ultimi infelici Canti del Purgatorio. L’animo di nuovo abbujato (forse dalla composizione della Monarchia) produsse in lui questi abbujamenti d’immagini, di stile, di parole, e di lettere stravolte. E condanniamone pur Dante qui; ma non facciamo come tale che con siffatti guazzabugli volle spiegare e deturpò intiero il Poema divino. Di nuovo e di nuovo, difendiamo Dante dalle guastature altrui.

no match[modifica]

Note

  1. Veltro,p.137.
  2. Antologia T.XXIII., n°LXIX, P.57. - Witte, Ep.VII, p.48.
  3. Murat., an.1314.,pp.77-79; dove sono a vedere il ritratto da lui fatto del morto papa Clemente, e le riflessioni dell’ottimo preposto.
  4. Murat., Ann. an.1314; Veltro, p.138.
  5. Non è per anco adulta, ovvero non maritata.
  6. Veltro, p.142.
  7. Monarchia.
  8. Convit., Trat.II.
  9. Gli altri dei antichi, angeli qui.
  10. Cioè, consegue, ottiene mutazioni.
  11. Canti I II e III.
  12. Canti IV, IX.
  13. Canti X, XII.
  14. Canti XII, XIV.
  15. Canti XV, XVII.
  16. Canti XVII, XVIII.
  17. Canti XIX, XXI.
  18. Canti XXII, XXIV.
  19. Canti XXIV I, XXIX.
  20. Canti XXVII, XXIX.
  21. Canti XXX, XXXIII.
  22. Veltro, pp.142-144.

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.