< Vita di Erostrato
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Capitolo III
Prove in Olimpia
Capitolo II Capitolo IV


CAPITOLO III.


Prove in Olimpia.


Intanto il giovane entrato nel golfo Meliaco, venne alle Termopile, donde alla Focide, ove nel tempio di Delfo ammirò il seggio sul quale Pindaro cantava i celesti suoi inni. Te felice disse egli per la tua fama perenne, e per quella che per te hanno gli Eroi da’ tuoi versi celebrati! Continuò il suo viaggio per Corinto, donde trapassando l’Acaja giunse nella contigua Elide, e perfine in Olimpia. Era la città piena di concorrenti e di festa, e quindi appena ristorato del viaggio fu sollecito a presentarsi a’ cimenti. Il primo giorno si collocò negli atrj del tempio di Giove, dove si adunavano i Poeti e gli Oratori. Eglino fra gl’intervalli delle splendide colonne declamavano versi ed orazioni, e la moltitudine giudicava de’ meriti loro. Rimanea frequente e silenziosa a’ versi dell’uno, si dileguava saziata alle declamazioni di un altro; animava questo con gli applausi, atterriva quello co’ sibili, e col bisbiglio, e molti de’ concorrenti si sottraevano umiliati, pochi rimanendo in presenza degli uditori per la speranza della corona. Erostrato rimase alquanto spettatore di quelli sperimenti, al vario successo de’ quali anelava, palpitava, bramando applauso, temendo la libera moltitudine. Pur vinto dal suo fato si mosse, e salendo una base fe’ cenno di implorare benigna udienza. La gioventù lanuginosa, i modi composti, lo sguardo magnifico convocarono uditori, e conciliarono silenzio. Incominciò a declamare con lentezza una esortazione alla Grecia per difendere la sua libertà contro le tirannidi, e vie più confermare la sua unione. Descrisse quindi i mali della servitù, gli oltraggi de’ despoti dell’Asia, l’avvilimento delle nazioni percosse dallo scettro loro. Nel quale argomento cresceva il suo discorso come da ruscello a torrente. Erano le sue parole da Spartano, più tendenti al vero che al diletto. Sdegnava il dire comune di cose comuni, e splendeva di sentenze brevi. Erano però impedite da una sopravvegnente oscurità, per la quale taluno poi somigliò il suo ragionare a baleno di notte. Fu pur notato che in lui dominavan i pensieri forti, grandiosi, profondi, ma non del pari il suono e la proprietà delle voci, donde avveniva che quelli non mostrassero l’intrinseco valore. Ma pure i difetti non prevalevano a segno di superare i pregi, perocchè quasi fuggitive nubi non davan tempo all’uditore di giudicare se la colpa di non intendere fosse propria, o di chi favellava. Fu quindi stimato un Oratore composto da natura con modi straordinarj che invitavano ad udirlo. Poichè tacque gli si affollò intorno una corona, la quale insieme lo lodava, e lo ammoniva, rimanendogli speranze di ottenere con lo studio e col tempo una perfetta facondia, giacchè di gran parte di essa era già stimato posseditore. E già le ombre vespertine coprivano il tempio, e fu sciolta l’adonanza. Egli recatosi alle sue stanze vi rimase desto tutta la notte declamando altre sue orazioni, studiandosi porgerle con dignità nel gesto, e con grata modulazione nella voce. Surse quindi l’alba, e sollecito di nuovo esperimento prese la lira, e copertosi di una splendida veste, lavoro dell’Asia molle, nel teatro si collocò, luogo delle gare musicali. Era già pieno, e incominciò un giovane Ateniese col flauto, ma non sembrò ch’egli meritasse dar principio, perchè in nulla trapassava il valor comune. Suonò poscia la lira un Tebano, e questi faceva già palpitare Erostrato per alcune eccellenti note, ma poi sopravvenne il difetto di una scarsa varietà, per cui ricadeva negli stessi modi, e dal promettere delizie, scendeva alla sazietà. Si presentò quindi Erostrato, il cui stile spontaneo, verace dono di natura destò maraviglia. Ma il nuovo aspetto di tanta e sì riguardevole moltitudine impediva il libero impeto dell’istinto, e i dubbj dell’arte frenavano le dita. Non si riconobbe mai con più manifesto esempio quanto una soverchia ansietà di perfezione renda l’opera imperfetta, e quanto l’abbandonarsi agli inviti di felice ardimento produca effetti maravigliosi. Fu però comune sentenza che il giovane di Lemno, benchè non ottenesse la corona quel giorno, potea cingerla in qualche altro, in cui la modestia non impedisse il suo valore. In quella gara fu coronato Enfronimo di Delo, il quale da prima col flauto mosse gli animi a quanti effetti volle, onde in tanta moltitudine sembrava vuoto il teatro per lo silenzio; brevi esclamazioni di maraviglia universale lo interrompevano talvolta. Poscia cantò accompagnandosi con la lira. Ciascuno rimase incerto se nella voce o nel suono fosse più eccellente, ma tutti consentivano non avere altro emulo che Apollo. A costui veggiamo eretta la statua non solo in Olimpia, ma in Delfo, e in Corinto, perchè egualmente ammirato in quelle celebrità. Erostrato comprese bensì tutta la maestria di tanto rivale, ma non disperò di se medesimo. Anzi gli sembrò aprirsi nuova imitazione di concenti, onde ampliare il suo stile. E però si disponea a nuovo cimento, non senza speranza di corona, il susseguente giorno. Ma avvenne che Neoclito di Argo, il quale era ivi giunto per correre con la biga ricevesse improvviso messaggio della morte del padre; e però tralasciando que’ cimenti, deliberò partire, vendere la biga, e il giogo de’ suoi destrieri. Questi erano Tessali, celebrati per molte vittorie, ma impazienti di freno, il quale conveniva destramente moderare. Erostrato per tale occasione bramoso di quella palma a tutte superiore comperò la biga, e subitamente per li campi volteggiando ne divenne esperto condottiere. Già in Lemno egli avea perizia di quest’arte, e perciò divenuto in breve consapevole della indole de’ corsieri, il susseguente giorno si presentò con gli altri all’aringo. Trenta bighe aspettavano il segno: i destrieri invocavano co’ nitriti il suono della tromba motrice. Ella suonò, si lanciarono le bighe veloci quanto il pensiero. Le avvolse un nembo di polvere, che il vento, quasi sollecito di rendere visibili i casi della fortuna, sgombrò da esse. Ecco già ruote uscite degli assi pur continuano volgersi per l’impeto ricevuto: in esse inciampando le bighe seguaci ne cadono prostrati i corsieri: accanto a’ quali trapassando altro emulo trascende sovr’essi, e con violento inciampo è rovesciato. Corsieri sciolti imperversano: ruine di bighe infrante sono sparse nella vasta arena; condottieri errano in quella gettati dal seggio. Or avresti detto ch’ella fosse deserta perocchè tutta ingombra di silenzio, or che tutta la Grecia vi fosse adunata. Rimbombava il cielo, tremava la terra. Il fischiare de’ flagelli, le grida de’ condottieri, il battere delle ugne, il fremere delle ruote si udiva quando la moltitudine tacea: quand’ella acclamasse, il romore simile a tempesta superava. Ma già venti bighe per casi diversi rimanevano nell’arena: i condottieri loro o feriti o percossi, o sdegnati si sottraevano. Correa Erostrato fra le rimanenti: i suoi destrieri anelavano alla vittoria quant’esso. Egli si avvolge alla meta: la stringe, la rade quasi, perchè sia minore il giro di trapassarla: ma altra biga spinge la sua contro la meta, le fracassa la ruota a cui urta, ed Erostrato ne è rovesciato. Procurando egli con le braccia stese di riparare il danno della caduta, percosse con tanto impeto le palme d’ambe le mani che rimasero intorpidite. Accorse il servo Glauco, e lo trasse dall’arena pietoso del suo signore, quanto questo adirato per gli oltraggi della fortuna. Intanto volgea spesso gli occhi dietro a mirare gli eventi degli emuli più felici. Giunse languido alle sue stanze, ove giacendo non si doleva che della palma rapitagli dal fato persecutore. Reso incapace di nuovi cimenti per allora, dopo alquanti giorni, sendo già sciolta quella celebrità, restaurato di forze quanto bastava al ritorno, per la medesima via si diresse a Lemno, ove giunse con espedito viaggio.

L’affettuosa Agarista correva spesso al lido, implorava gli Dei, già le sembrava eterna la sua assenza, già il cuore palpitava conscio de’ rischi delle corone Olimpiche. Approdò per fine il tanto desiderato giovane pallido per la recente infermità. Languiva d’allegrezza Agarista nello abbracciarlo, ma insieme una angoscia le stringea il cuore veggendolo abbattuto. E prestamente ricondottolo al palagio, e d’ogni ristoro provvedutolo, volle da lui contezza de’ casi di Olimpia, ma con discreta benevolenza senza rampogne, ad altro non attese che a porre in dimenticanza la inconsiderata fuga, e renderlo pago della presente fortuna. Ma per quante fossero le cure, egli non potè ricuperare che imperfetto il movimento di alcune dita, le quali rimasero incapaci di quella snodata velocità richiesta nelle percosse della lira. Del quale difetto oltre modo sofferiva intollerabile molestia, sforzandosi in vano di trasmettere alle corde, fino allora tanto obbedienti, l’armonioso pensiero.

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