Questo testo è completo. |
Nozze festose
◄ | Capitolo IV | Capitolo VI | ► |
CAPITOLO V.
Nozze festose.
Credeva la coppia amorosa celata nel profondo del cuore la scambievole fiamma, quand’ella tralucea ne’ volti, negli occhi, nelle operazioni. Perocchè senza avvedersene tratti dal nume insidioso bramavano trovarsi, ragionare insieme, insieme coglievano fiori, lieti quando conversavano, e mesti quand’erano disgiunti. Agarista e Testoride esperti delle umane perturbazioni agevolmente riconobbero ciò che ormai era tanto manifesto quanto mal dissimulato. Sembrando loro che senza onesto fine non dovesse procedere quella aperta inclinazione, Testoride in tal guisa incominciò: «Tu conosci, Agarista, da saggia qual sei, quanta sia la forza di quell’affetto, il quale ha vinto i nostri figliuoli. Madre io ti chiamo di Possideo, perocchè tutti gli offizj materni hai compiutamente adempiuti, ed adempi. Pur madre non sei. Quindi ne avviene che una spiacevole oscurità si stenda sulla culla del tuo Possidéo. I numi, soltanto consapevoli di sua condizione, la nascondono a’ mortali. Quindi foss’egli di stirpe eroica, e di patria illustre, per suo tristo fato non può nè l’una nè l’altra vantare, e solo rimane esposto a’ licenziosi giudizj del volgo. Ora in tale incertezza ben conosci quanto le opinioni ed i costumi si oppongono a soddisfare gli umani desiderj.» Quella discreta rispose: «Ben so quanto saresti biasimato se congiungessi una fanciulla illustre con uno sposo, il quale non può mostrare altra culla che il margine di un fiume, nè altro patrimonio che le sue sventure. Ma parmi che gli oltraggi della fortuna possa correggere quell’affetto col quale non senza volontà dei numi, lo raccolsi fanciullo, e crebbe con esso. Quello medesimo ora mi induce a compiere l’opera degnamente, e però io son pronta ad essergli madre non solo di nome, ma al cospetto delle leggi, e come figliuolo, di ogni mia facoltà lasciarlo erede. In tal guisa tu vedi scancellata ogni macchia di sua condizione, e reso degno di nozze generose.» Testoride consentì a così onesta profferta, e conchiusero di appagare sollecitamente gli scambievoli desiderj degli amanti.
Lo spegnere gli odj bellicosi è malagevole opera anche per la più eloquente lingua: ma per congiungere in amore due cuori già per lui palpitanti, bastano comuni e poche sentenze. E però accomodate le condizioni delle nozze, preparato il corredo alla sposa di monili, anella, vasi di argento, vesti splendide, anelavano i giovanetti di stendere le destre all’ara. Nè minore sollecitudine stimolava i genitori di congiungerli, perchè omai Possideo in ogni suo affetto sempre violento si struggeva nella fiamma vorace: e Glicistoma non più lieta, anzi mesta e taciturna si manifestava già serva d’Imeneo. E distante da Lemno breve tragitto l’altra isola Samotracia asilo inviolabile, e sacra agli Dei. Agarista per lieto augurio delle nozze desiderò ch’elle fossero ivi celebrate nel tempio di Giunone. Quindi preparata una nave coperta di velame purpureo, sotto cui furono stese morbide coltrici, la comitiva nuziale vi giacque. Era la poppa coronata di edera mista a fiori. Alla prua un coro di cetere, e lire, e flauti, e cantori appena sciolte le vele all’aure quelle empieva di lieta armonia. La sposa con salto leggiadro si era lanciata nella nave per la gioja che le inondava il petto. Un candido e sottile peplo velava le sue membra, come nebbia i gigli. Lo sposo in sajo succinto, ornato di oro e di gemme, non curando la dolcezza di que’ concenti, altra ne traeva migliore dagli occhi della fanciulla giacendole accanto. Il fiato di zefiro spingea la poppa, il mare increspava a quel favorevole impulso. L’aurora stendeva appena il suo roseo manto: gli Alcioni uscivano da’ scogli e sorvolavano a’ placidi flutti: Delfini tripudiando lanciavano zampilli dalle nari. Il Sole non avea ancora tersa la rugiada ch’ellino approdarono. Accorsero i servi di Agarista, i quali già il precedente giorno erano giunti a preparare festiva accoglienza, e tutti condussero ad un poggio vicino soprastante al mare. Ivi in stanze amene fumavano sulle mense cibi delicati, nè mancavano frutti, e vini squisiti. Poco ne gustarono gli sposi intenti a pascer l’animo dei pensieri d’amorose dolcezze. Lampeggiavano gli occhi bramosi, le sorridenti labbra manifestavano le delizie del cuore. Il rimanente della comitiva attendeva a confortarsi nel convito preparato. Ma quando si alzarono da mensa, e si avviarono verso la soglia, ivi una schiera di fanciulle coronate di fiori accolse gli sposi con piacevoli motti invitandoli a giurarsi fede nel tempio. Concorreano gli abitanti alla pompa, e con ospitale giocondità alcuni lodavano in versi estemporanei la bellezza della sposa, e il valore del giovanetto: altri spargevano fiori nella via, e sovr’essi: taluni invocavano gli Dei, ed Imene con inni devoti: usciva talvolta dalla turba alcun detto baldanzoso conceduto dalla nuziale giocondità. Le madri chiamavano felici i genitori di coppia così bella. Fra questi applausi precedeva Glicistoma con ciglio dimesso, a lento passo. Erostrato animoso nella comune allegrezza sentiva crescere la sua. Un drappello di garzoni in succinte vesti danzava intorno alla pompa, altri esprimevano il tripudio nuziale con lanci di maravigliosa destrezza. Una schiera di matrone veniva presso gli sposi, avvolte in ampio manto in modesti atti contegnose. Arrivò così il trionfo amoroso all’atrio del tempio, al cui ingresso risonarono timpani e trombe. Stavano i gravi sacerdoti all’ara in splendide vesti: rilucevano i gemmati diademi sulle fronti loro. Un fanciullo spargeva incenso sulle brage. Il capo de’ sacerdoti stese le braccia agli sposi invitandoli ad avvicinarsi: ellino obbedirono con fronte china, e le mani accolte in grembo. Quegli volgendosi al simulacro della Dea pregò ad alta voce in tal sentenza: «Alma consorte del supremo fulminatore volgi un propizio sguardo a questi sposi qui approdati ad implorarti pietosa. Un tuo celeste sorriso renda fausti per sempre i nodi ch’ora li congiungneranno. Concedi loro obbediente, bella e illustre prole, da cui sieno confortati all’occaso della vita.» Mentre così dicea il Sacerdote, la moltitudine tacea riverente: grondarono alcune stille da’ begli occhi di Glicistoma: Erostrato serbava un decoroso atteggiamento. Quindi il Sacerdote pose alla fronte d’entrambi una corona di fiori, li profumò d’incenso, e sull’ara sparse il vino. Lo sposo allora collocò nelle dita di lei l’anello pegno di eterna fede, mentre già il toro mugghiava con la fronte sommessa alla bipenne, la quale scese in quel punto e la vittima giacque. Risuonò il tempio d’inni alla Dea supplicandola accettare l’olocausto, ed i sagrificatori lo divisero co’ riti consueti. Compiuti i quali fu sollecita la coppia amorosa di salpare, congetturando la tenera impazienza dei genitori. Gli isolani accomiatavano i naviganti con felici augurj, ed invocavano agli sposi benigno il mare. Intanto sciolte le vele fu spinta la nave dal lido, sul quale pur con cenni confermavano quelle genti pietose i loro voti benigni. L’aura settentrionale movea propizia: il sereno del cielo facea specchio al mare, sembrava che gli Dei celesti, e marini sorridessero all’avventuroso imenéo. Sorridea pur Glicistoma, e co’ lucenti occhi mirava l’aspetto così placido degli elementi. Erostrato fiso nel volto di lei dimenticava il cielo, il mare, e se stesso.