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Dubbj sulla gloria militare
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CAPITOLO VIII.
Dubbj sulla gloria militare.
La dura Sparta, schiava di se stessa non godeva miglior libertà che quella di turbare l’altrui. Tutte le greche città obbedienti si chinavano da lungo tempo agli orgogliosi imperj di lei. Per la continua prosperità avvezza alla sodisfazione dei suoi disegni, non si proponea altra norma che questi. I quali crescendo con la fortuna sprezzavano la ragione, e schernivano le genti. Niuna disciplina è convenevole a correggere una estrema superbia se non quella delle sciagure. La preparavano omai i Fati alla violenza di Sparta. Non più ella come ne’ suoi principj sdegnava l’utile disgiunto dall’onesto, ma deposto ogni rossore chiedea come proprio l’altrui. Nè contenta di usare la forza manifesta dell’armi, vi aggiungea ora gli artifizj ignominiosi di occulta seduzione. Con la quale avea allora indotto Leontide Capitano di Tebe, a tradire la patria sommettendola al giogo spartano. Ma Tebe possedea due Cittadini, i quali con l’altezza dell’animo loro doveano redimerla non solo da quella oppressione, ma esaltarla a inopinata potenza. Suonano in ogni parte della nostra Grecia non che in Sicilia e presso i Re dell’Asia i nomi di Pelopida, e di Epaminonda formidabili a Sparta, ad Atene, ai tiranni Dionigi ed Artaserse, e cari a Tebe, ove ancora le madri narrano a’ loro fanciulli alteramente le battaglie di Leuctre e di Mantinea. Avendo pertanto que’ due illustri cittadini spento per congiura il tiranno, la soverchiante Sparta con baldanza invereconda si dispose a combattere apertamente quella ricuperata libertà.
Correa l’anno secondo della centesima seconda Olimpiade, quando la Grecia tutta mossa dal furore spartano si lanciava alla distruzione di Tebe. Questa non più come per l’addietro abbagliata dallo splendore di Atene e di Sparta sofferse le ingiurie, ma quant’elle erano maggiori, tanto si commosse a più strepitosa vendetta. In così violenta fortuna ardì opporsi con minori e sprezzante squadre alle formidabili e superiori. Sparta movea ventiquattro mila fanti, e mille seicento cavalieri. Tebe pose contr’essi in campo sei mila fanti, e quattrocento cavalieri. Il romore di così alte vicende, le quali aprivano spazioso cammino alla gloria, già temperava il dolore del vedovo Erostrato, e gli accendea l’animo con nuovi desiderj di avventarsi a sublimi esperimenti di fortona. Nè aveva aspettato che suonasse la tromba in campo, ma appena fu in moto la Grecia per così grave contesa, ch’egli odiando la tirannide Spartana e quel ferreo giogo, col quale tenea curva la Grecia, si compiacque di quella virtù con cui Tebe ardiva sottrarsene generosa. E quanto era dispari il cimento, altrettanto stimandolo maraviglioso, sollevando i pensieri della tomba a’ trofei non più smaniava di notte in veglia sulle vedove piume. Anzi talora si aggirava sdegnato ne’ silenzj notturni maledicendo la violenza di Sparta: or ne’ volumi delle storie ammirava solingo le imprese di coloro, i quali aveano opposto l’intrepido petto a’ tiranni. E quando alla vampa del sole impallidiva la sua lucerna, egli chiudendo i volumi favellava altero, e co’ suoi, e nelle adunanze, già deliberato a darsi in preda a bellica fortuna. Agarista dolente si studiava con materne esortazioni rattenerlo. Panfilo gli proponea continuamente la consolazione della filosofia, e la dolcezza delle muse. Egli usava talvolta intrattenersi col suo alunno negli orti del palagio, deliziosi per gli ornamenti de’ simulacri di fontane, e di piante, che con grata ombra invitavano a sedervi in placidi ragionamenti. Avvenne che in tale diporto si offerisse loro una fonte composta del simulacro della Fama, la quale soffiava dalla tromba un impetuoso zampillo: «Ecco, disse Panfilo, la tiranna delle nostre opinioni, la instigatrice di brame ardenti, la nemica di ogni calma, l’aculeo velenoso de’ cuori. Idolo pernizioso tu sei muta per la vita onesta de’ saggi, per le utili invenzioni, e stridente per le smisurate malvagità.» Si attristava il giovane a quelle sentenze e interruppe «Ohimè! Sarà dunque biasimevole il desiderio di lode?» Non mai, rispose quegli, anzi necessario. Ma per conseguirla non si richieggono imprese violente, o pericoli desolatori, bensì una pratica inalterabile delle civili e familiari virtù.» Soggiunse l’alunno. «Questa lode universale è difficile ad ottenersi, perocchè gli uomini sono ingrati nel cuore, e incerti nelle menti, onde niuna città ha mai tutta consentito a lodare la virtù di qualche eminente suo cittadino. I serpi della invidia fischiano sempre fra gli applausi universali. Una sola via rimane per soggiogare il comune consenso, e questa è l’ammirazione. La quale non si ottiene se non con estraordinarie imprese, le quali come fulmine percuotano le attonite fronti, e le rendano chine. «Tu, disse Panfilo, inclini a svellere per estorsione degli uomini quella lode che il saggio acquista col meritarla. La fama violenta, o artificiosa vien meno quando cessino i mezzi co’ quali fu procacciata; ma quella che si fonda in consenso volontario si conferma di generazione in generazione. Quindi la eccellenza della storia e de’ poemi vince le ingiurie del tempo, quando tante ambiziose signorie, e imperj tremendi co’ loro monumenti sparvero dalla faccia della terra, nè sai dire qui furono.» Esclamò alquanto cruccioso l’alunno: «certo se tu fai pompa di così molli dottrine, che restringi la fama all’angusto spazio della vita, cadranno di mano alle intere falangi le spade». Non lo temere, soggiunse l’altro prontamente; comunque la filosofia tenti scuotere la base di questo idolo colossale di gloria, che ha i piè nell’abisso, e la fronte nel cielo, trionferà sempre il suo culto affannoso ed universale, contro cui saranno come furono inefficaci gli sforzi de’ sapienti. Ma tu, il quale or brami con le disastrose fatiche dell’armi che sia mostrato il tuo avello a’ peregrini, spiegami che vi sia di reale in questo pensiero. «Per Giove, sclamò il giovanetto ardente, v’è di reale il nobile conforto di cui gode or l’animo nodrito da così lieta speranza.» Chiamala, soggiunse l’altro, meglio illusione, perocchè al certo prezzo della tranquillità presente ella compra la lusinga di lodi quando non avremo orecchie per gustarle. Nè intendo come ti prema tanto che i posteri parlino di te, quando non curi che ne abbiano parlato gli antenati. «Come rovente acciajo scroscia immerso nell’acqua, così il giovane fremea a quelle placide sentenze. Quindi proruppe: «felice quegli a cui la patria alza una tomba, sulla quale spargono le vergini i fiori, qualche lagrima i cittadini, i passeggieri si soffermano ad ammirarla: il nome le gesta impresse in quel marmo non temono gli oltraggi delle Parche. La speranza di tali onori conforta l’animo a soffrire l’inesorabile decreto di quelle figliuole dell’Erebo. Certo colui, il quale non abbia senso alcuno di così oneste brame, è degno di rimanere insepolto esca agli avvoltoj.» Tu mi destini, disse Panfilo discretamente allo strazio degli eroi ne’ campi di Troja, quindi potrò anch’io sopportarlo senza ignominia. Pure instando col pungolo di questa mia plebea dialettica, chieggo se tu or odi, o vedi questi riti alla tua tomba, o se altro non sieno che larve in sogno.» Sieno pur tali, soggiunse quegli, ma elle destano valore nel petto, e sono la disciplina d’ogni eccellente impresa. Le nazioni senz’armi sono alberi frondosi privi di radici, esposti al turbine. È pertanto necessario che i cittadini sprezzino ogni pericolo anzi che soffrire le ingiurie de’ nemici. E con qual modo conseguire da loro di morire in patria, dare a lei ciò che tanto natura insegna di conservare, e tanto abborrisce di scemare anche di un sol giorno? Proporremo noi forse in premio, oro, gemme, conviti, bellezza verginale, amori felici, mentre il desiderio di queste sodisfazioni accresce per lo contrario, affine di goderle, più diligente cura della vita. Conviene pertanto ergere l’animo ad eroica dignità, giunto alla cui altezza, vincitore degli appetiti corporei, anteponga la gloria a tutto.» Più convenevolmente diresti alla patria, (aggiunse Panfilo.) Il difenderla e conservarla è una moderata e saggia consolazione, la quale non degenera in cupidigie ambiziose. Chiudiamo, ti prego, le storie ove si serbano i fasti delle imprese marziali. Allo aprirne i volumi adulatori ne esala funesto vapore di carnificine. La tromba della vittoria come suono magico instupidisce le menti, e senza persuaderne alcuna le soggioga col terrore. Il furente conquistatore calpesta le nazioni, e anela insieme di conseguire gli encomj da esse. In tal guisa per una strana incoerenza stima nell’universale gli uomini, e partitamente li dispregia. Siede costui in trono d’ossa, e mira sogghignando la giustizia che gli piange a’ piedi. Questo è quel sanguinolento fantasma perpetuo nemico della tranquillità umana. Le ruine, i deserti sono gli effetti delle sue illustri devastazioni. Deplorabile ammirazione in vero quella, con la quale si esalta chi spinge un branco di maniaci alla strage. Ma infine ogni più vasta celebrità di nome, altro non è che il garrire di pochi uomini, per breve tempo, in angusto spazio della terra. Imperocchè la fama de’ nostri più celebri Eroi ristretta ne’ confini della Grecia non suona oltre il Caucaso o il Gange, nè trapassa agli Sciti Nomadi, agli Androfagi, agli Arimaspi, e molto meno agli Iperborei. Che se fosse vera la congettura della abitazione dei pianeti, quanto scarso non diverrebbe ognor più quello spazio della terra dove sia celebrato il nome di alcuno? E se questo spazio si paragoni alla immensità delle sfere, chi non sente una umile vergogna della vanità della fama? Che se quantunque angusta foss’Ella perpetua, sarebbe consolante aspettazione di ricordanza immortale. Ma le vicissitudini delle nazioni, le perturbazioni degli elementi, i diluvj, le combustioni, e tremuoti cambiano l’aspetto della terra, distruggono imperj, genti, città, e con esse ogni fama? Tacea il giovane per lo rispetto del suo institutore, più che per essere persuaso nella contesa. Quella fiamma che gli accendea il petto non potea estinguersi con sedati ragionamenti. Si avviarono quindi tacendo al palagio, e Panfilo per quel silenzio rimase incerto degli effetti di sue parole; nel quale perseverando il suo alunno, egli con discreto modo si partì, lasciandolo ne’ suoi pensieri.