< Vita di Erostrato
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Capitolo XIV
Apologia e morte
Capitolo XIII


CAPITOLO XIV.


Apologia e Morte.


Ma prima che io la esponga debbo apertamente confutare quella tradizione comune ch’egli posto alle torture confessasse averlo spinto a tale eccesso un insaziabile desiderio di fama. Imperocchè ad ottenerla era anzi necessario il vantarsene, autore. Era poi del tutto incongrua la violenza de’ tormenti con chi non altro dovea bramare che lo strepito del suo misfatto. Stimo pertanto vera quella sua apologia a noi trasmessa nelle memorie di quel tempo nella seguente forma.

Io mi sono sempre maravigliato per la ingiustizia degli uomini nel giudicare le imprese illustri, e di quella dei legislatori nel prescrivere le pene. Perchè sottoposti alla tirannide delle opinioni condannano, vituperano, esaltano, applaudiscono azioni dello stesso merito e natura con manifesta incoerenza. Eccovi Possideo fra’ ceppi, il quale alza a voi intrepido lo sguardo or tratto alla presenza vostra dal carcere tenebroso come reo di sacrilego incendio. Ma primieramente la cagione motrice del mio eccelso disegno non fu già quella per cui tanti capitani e conquistatori esultando per le vittorie depredarono i più ricchi templi. Sovvengavi di quello di Mileto consegnato alle fiamme da Serse dopo averne rapiti i tesori, e di quello di Delfo saccheggiato più volte per la sua opulenza. Nè giovò loro la celebrità degli oracoli a preservarli da tanta profanazione. Io non fui spinto da abbietta ingordigia di furto, ma dal solo e generoso desiderio della fama. Ora con qual proporzione di giustizia furono e saranno impuniti gl’illustri depredatori, ed io severamente gastigato? Qual altra gloria siccome quella a cui anelo fu mai acquistata con minori sciagure degli uomini? Distrussi è vero, in una notte l’opera di secoli, una maraviglia del mondo, il santuario delle nazioni, il più splendido culto, il tesoro delle arti, e delle offerte pietose. Ma per me non pianse la vedova sul campo sanguinoso, non strinse la madre al seno palpitante il pargoletto al suono delle mie trombe, non rimboccarono di sangue i fiumi, non sospirarono gli orfani sull’avello del padre: non questi dilacerò il sajo per la morte del figliuolo. Regioni desolate da trionfi marziali non risurgono già più floride in breve, ma rimangono lungamente spettacolo di ammirazione a’ posteri avviliti. Dalle ceneri del vostro tempio risurgerà per lo contrario qual Fenice un altro alla Dea più adorno e più maraviglioso. Le regie de’ grandi per alcuno accidente distrutte rinascono dalla ruina più superbe. La Dea non meno si pregerà di riparare i vani oltraggi miei con manifestare la sua potenza. Fu pur consunto da fortuito incendio alla età de’ nostri avi il tempio di Delfo, e tutte le nazioni e greche, e barbare concorsero a riedificarlo più grandioso. L’incendio mio denominato sacrilego, or chiude i petti ad ogni misericordia, ma in breve aprirà gli scrigni anco degli avari. Le nazioni a gara comprese da sacro orrore verseranno tesori a placare la Dea, ed a vendicarne l’ingiuria. Avrà su questi fumanti residui ara più splendida per oro, e gemme, nuovo culto più fastoso, nuovo delubro, eterno e trionfale. Io fra poco scendo sotterra, ma non rimarrà con me sepolto il nome, nè potrà oscurarlo il tempo nè la vostra sentenza, nè quella del volgo. Con questa audace mano io mi vanto d’aver fatta più illustre Efeso, e me stesso immortale. Nè alcuno mi opponga che sia vile questa mia impresa, perchè senza pericoli insidiosa. Io stesso mi sono esposto allo strepito del giudizio, al rigore delle menti vostre: sdegnai la fuga, e l’impune segreto: accusatore di me stesso denudai il collo alla vostra mannaja ultrice. Nè la Dea guarda con dolenti occhi queste ruine. La sua eterna magione è il cielo. Che se ella si compiace della nostra venerazione in ergerle alcuna stanza in terra, molte ne ha in diversi popoli offertele del pari. Ma se nel prescrivere le pene dee l’equità vostra perdonare i danni della colpa, quali son questi? Chi ho offeso io negli averi, o nella persona? Chi se ne duole? Il tempio era da voi dedicato alla Dea: è dunque suo. Or s’ella è da me offesa, lasciatene la vendetta a lei. Nè certo sarebbe ardimento minore il vostro di arrogarvela, che non fu il mio di provocarla quando mossi la face alle sue sante mura. Ella ha potenza, virtù celeste e sovraumana, non le mancano le frecce del germano, i fulmini del padre, il tridente del zio a trafiggermi, incenerirmi, sobissarmi. Pur la spero clemente, perchè la sua grandezza è superiore a tutte le cose umane. La mia impresa non ha origine da sacrilego disprezzo, o da empia avversione al suo culto, ma da una disperata ebbrezza di gloria, affinchè si scuotesse la indifferenza umana, e si destasse anco la stupidità percossa con un modo inopinato. Nè credo che il trascorso di un mortale giunga a turbare le delizie dell’Olimpo.

Rimane forse che taluno ascriva a demenza la mia straordinaria deliberazione. Ma se la sublimità sua abbaglia a tal segno i vili occhi del volgo, deh non vogliate voi, sapienti giudici, scendere con esso a così infima sentenza. Pur se io debbo essere annoverato fra i privi di senno, me ne rimane però a sufficienza per maravigliarmi come tante nazioni acclamino da più di un secolo il nome di Serse, il quale in alcune opere manifestò una incomparabile stoltezza. Sa l’Asia, e la Europa la sua deliberazione di traforare da banda a banda il petroso monte Atos, e sa che gli scrisse una lettera, in cui lo minacciava di rovesciarlo in mare se ardiva ripugnare con la durezza delle sue roccie alla regale intenzione. E poco di poi avendo una procella distrutto il varco di navi da lui gettato sull’Ellesponto, fe’ lanciare ne’ suoi flutti molte catene, e batterlo co’ flagelli, mentre egli stesso con irati clamori minacciava dal lido quell’indomito elemento. Eccovi almeno due esempi d’incredibile follia in così celebre monarca assai maggiore della mia quando tale vi sembri. Ma se dopo un discorso non privo di senno come udite, pur taluno me ne giudica scemo, egli mi discolpa con la miglior difesa, perchè nella stoltezza non vi è pena. E forse gli animi vostri non spregiano le mie giustificazioni, ma li rattiene il pericolo dell’esempio. Aprite dunque le storie, io vi sfido a ritrovare in esse altro esempio simile al mio. Sendo pertanto il caso inaudito, mirabile, unico, non ne temete un secondo. In fine vi aspettate forse che, secondo la consuetudine degli oratori, io mi studj perorando di eccitare pietà ne’ cuori e lagrime sul ciglio, ma non è questa la mercede che io mi sono proposta ragionando con voi. Gloria immortale è la meta di ogni mio pensiero. Questa è quell’ambrosia, di cui si pasce la mente mia. Ecco queste fragili membra ricetto d’anima grande ed immortale. Queste sieno pur vittime de’ vostri giudizj rigorosi, quella ritornerà alla sua sorgente, e fra l’armonia delle sfere godrà spaziandovisi udire il suono eterno della fama.

Mentre così favellava rimaneano gli uditori percossi da maraviglia per l’audacia del suo disegno e per l’intrepidezza in sostenerlo. Balenavano gli occhi suoi più dell’usato; le ciglia irsute, le guancie ardenti, le vene turgide, il fremito di tutte le sue membra, facevano terribile il suo aspetto. Più volte i giudici sdegnati nell’udire un ragionamento così alieno da rimorsi, già stendeano la destra per imporgli il silenzio, ma li rattenne la libertà conceduta nel foro nelle difese, e molto più di se stesso. Taluni impallidivano a quella sacrilega eloquenza, altri in ogni istante aspettavano a fronte china i fulmini vendicatori. Quand’ecco si scosse il simulacro di Diana eretto in quell’aula: sdegnata parve a molti scoccare: altri sentì il rombo dell’arco, il fischio del dardo, il muoversi della faretra sull’omero. Tremò insieme la terra in guisa che traballarono i seggi del magistrato, e ondeggiò la calca spettatrice. Cadde in quel punto stesso a terra spento il reo, il quale già verso la fine del suo discorso, incominciava quasi impedito nella lingua a balbutire. Si confusero smarriti i giudici con gli uditori, e tutti si prostravano alla Dea. Cessò il tremuoto, e ricomposti gli animi, in quella morte repentina riconosceano la vendetta divina, il terrore della quale in sacra nebbia avvolgendo l’intelletto della moltitudine, produsse e conservò la fama di quel portento. Nè alcuni, i quali presenti al caso opinarono essere quello un effetto di veleno a se poc’anzi propinato dall’incenditore, ardirono manifestare quella congettura. Ben ricordevoli quanto sia pericoloso cimento l’opporsi alle accuse popolari di violata religione. Di che rimangono dolorose testimonianze gli esempi di Pittagora, di Prodico, di Ceo, di Anassagora, di Alcibiade, e di Socrate ora tardi compianto. Parve in ogni tempo, siccome a’ luoghi convenevoli di questa narrazione ho esposto, che Erostrato fosse come da fato inevitabile sospinto a tale impresa. Perchè i sogni della madre indicavano sempre fuoco, poi il mare lo spinse in Lemno isola sacra a Vulcano, e in quel tempio apparvero al fanciullo alcune fiamme alla fronte.

Le città dell’Asia inorridite per l’empia distruzione concordi pubblicarono decreto, che il nome dell’incenditore fosse abolito in guisa che niuno lo rammentasse nè in favella, nè in scrittura. Il qual divieto sparse vie più lo strepito del caso e del suo autore. Onde a Timeo, ed Egesia, e Teopompo ed altri nelle storie ne fecero menzione. Imperocchè la fama è il più indomito de’ mostri. Non basta a vincerlo nè potenza nè fortuna, anzi entrambe le sono sottomesse. Perciò vedemmo i più superbi conquistatori temere lei sola, e implorare il favore delle Muse adulatrici. Quel decreto adunque mostrò non darsi stoltezza per quanto sia giudicata la estrema, la quale non ne abbia altra superiore. Perchè Erostrato si propose di eternare il suo nome; fu tal fine in sè lodevole, benchè ne fosse il mezzo scellerato. Le città dell’Asia invece ebbero in comune un insensato proponimento, e con più insensata deliberazione sperarono di conseguirlo. Avvenne per fine, a rendere più memorabile quella notte, il nascimento di Alessandro cognominato il magno dal terrore delle sue gesta. La mattina seguente predissero i Maghi ch’era nata la ruina del mondo. Il desiderio insaziabile di gloria non fu al certo nel Macedone inferiore a quello di Erostrato, ma nodrito con più vasti incendj, e con più gravi sciagure di immense nazioni.



FINE.

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