< Vita di Giacomo Leopardi
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Capitolo II Capitolo IV

CAPITOLO III.


STUDI GIOVANILI.


1813 - 1817.


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Sommario:Storia dell'Astronomia. — L'Esichio e il Porfirio. — I Commentarii latini di quattro retori greci. — I frammenti di Padri greci del secondo secolo, e i frammenti di antichi scrittori greci di storia ecclesiastica. — Il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. — Il Commentario della vita e degli scritti di Sesto Giulio Aflfricano. — Il discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone. — Volgarizzamento dei frammenti di Dionigi d'Alicarnasso. — Mirabile progresso negli studi d'erudizione e di critica. — Risveglio letterario. — Studio della lingua italiana. — Utilità del tradurre. — Dalla sciatteria alla affettazione. — Relazione col libraio Stella e pubblicazione dei primi lavori letterari di Giacomo nello Spettatore. — Trasformazione dell'erudito e del filologo nel poeta e nel pensatore. — Segni forieri della trasformazione nel Saggio sopra gli errori popolari. — Le idee religiose e politiche di Giacomo alla fine del 1815.

Anche prima di attendere all’Esichio, Giacomo Leopardi aveva posto mano ad un grave lavoro di erudizione, a quella Storia dell’Astronomia, della quale esiste, come già dissi, un primo abbozzo nei manoscritti dell’anno 1812. Riprese il lavoro nell’anno appresso, distendendolo in quattro capitoli, e vi fece più tardi, in tempi diversi, alcune aggiunte. Il manoscritto che contiene questo rifacimento è diviso in tre volumi, il primo dei quali porta scritta, di mano dell’autore, la data dell’anno 1813: e di su questo pubblicò il Cugnoni il lavoro, che occupa quasi intero il secondo volume delle Opere inedite.1 Ciò che in esso colpisce per prima, e forse unica cosa, è l’erudizione. Per mettere insieme quel materiale immenso di notizie e di osservazioni svariatissime, il giovinetto dovè compulsare centinaia e centinaia di libri di ogni età, di lingue e materie diverse. Gli autori citati nell’elenco in fine dell’opera sono non meno di dugentotrenta, e i loro scritti un numero molto maggiore.

Sarebbe strana e irragionevole pretesa cercare nel lavoro del Leopardi un concetto scientifico che sia il filo conduttore di esso. Egli non aveva fatto studi speciali di scienze, non conosceva affatto la scienza di cui s’era messo a scrivere la storia. Ciò che lo aveva forse innamorato dell’ argomento era la misteriosa poesia di esso, di cui la religione gli spiegava le meraviglie. Guidato dal pensiero religioso egli, nella sua insaziabile sete di sapere, chiedeva a quelle montagne di libri, che raccoglievano agli occhi suoi, se non tutto lo scibile, una gran parte di esso, le notizie che gli dovevano svelare il mistero della creazione. Contemplando il cielo stellato, egli forse fin d’allora domandava a so stesso:

A che tanto facello?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren?

e si acquetava alla poetica risposta, che tutto esisto per attestare la gloria del Creatore.

Como al termino dei suoi studi di retorica aveva, quasi a coronamento di essi, tradotto lo odi e la poetica di Orazio o composta una tragedia, cosi è naturale che, terminati i suoi studi scientifici, e datone pubblico saggio, componosse, oltre a parecchio tazioni scientifiche e filosofiche, una Storia dell’Astronomia. Che poi quella storia, piuttosto che un lavoro scientifico, riuscisse un’opera letteraria e d’erudizione, non è da fare le meraviglie. Data la natura dell’ingegno del giovine autore, gli studi da lui fatti, e i materiali che aveva a sua disposizione, non poteva essere altrimenti.

A quel primo lavoro erudito tennero dietro, dopo l’Esichio ed il Porfirio, composti, come s’è detto, nei primi sei mesi del 1814, i Commentarii latini di quattro retori greci, scritti nel breve spazio di un mese, dal 9 ottobre all’8 novembre dello stesso anno. I retori sono Dione Grisostomo, Elio Aristide, Cornelio Frontone ed Ermogene. Ai Commentarii vanno aggiunti quattro opuscoli, e le Osservazioni dell’autore a ciascuno di essi.

Di questi Commentarii esistono due manoscritti, ambedue autografi: uno nella biblioteca Leopardi a Recanati (che è quello pubblicato dal Cugnoni nel primo volume delle Opere inedite); l’altro (più completo, e proveniente dalle carte De Sinneriane) nella Nazionale di Firenze.

Nell’Esichio, pure esorbitando l’erudizione, c’è già un progresso nella distribuzione della materia e nella trattazione, in confronto alla Storia dell’Astronomia; nè mancano osservazioni che mostrano la felice attitudine del giovine autore a questo genere di studi. L’opera è composta di tre parti: 1° Commentario della vita e degli scritti di Esichio Milesio; 2° Volgarizzamento delle opere di Esichio, Degli uomini illustri in dottrina, e Delle cose patrie di Costantinopoli; 3° Osservazioni intorno alle opere di Esichio. Le osservazioni non vanno oltre l’articolo terzo del primo capitolo della prima opera. Ove si osservi che i capitoli sono ventuno, e che se alcuni hanno un solo articolo, altri ne hanno otto e nove, si capirà facilmente che le circa settanta pagine occupate dalle Osservazioni nella edizione degli Scritti leopardiani del Cugnoni sarebbero, a lavoro finito, diventate parecchi volumi, da superare, come osserva il Cugnoni stesso, di qualche centinaio di volte la mole del testo. Forse il Leopardi stesso dovette accorgersi di ciò, e forse per ciò lasciò incompiuto il lavoro. Ma ch’egli anche più tardi attribuiva ad esso una certa importanza, può desumersi dal fatto che ne diede una copia al De Sinner quando gli consegnò tutti i suoi lavori filologici.

Il Porfirio fu invece compiuto. Il titolo dell’opera è: Porphyrii|De Vita Plotini, et ordine Librorum ejus|Commentarius Græce et Latine|Ex versione Marsilii Ficini emendata.|Græca illustravit, et Latina emendavit|Jacobus Leopardi|1814. L’opera si compone: 1° di un Commentario delle vite d’uomini illustri per dottrina scritte dagli autori antichi; 2° delle Emendazioni al testo greco e alla traduzione latina fatta dal Ficino della Vita di Plotino scritta da Porfirio; 3° delle Osservazioni, nelle quali l’autore illustra Porfirio, e dà ragione delle proprie emendazioni. L’opera era di Giacomo e dal padre suo destinata alla stampa; la quale non potò avere effetto per cagione sì della spesa si di altre difficoltà; ma fu veduta nel manoscritto da uomini illustri del tempo italiani e stranieri, che, avuto riguardo all’età dell’autore, la giudicarono meravigliosa. La parte più meravigliosa, a giudizio dei competenti, sono lo emendazioni al testo greco di Porfirio, lo quali mostrano una conoscenza sicura della lingua, che l’autore, come sappiamo, aveva cominciata a studiare da solo un anno, ed un acume od un intuito felicissimi. Questo lavoro, di cui esiste un solo manoscritto (quello che fu dato dal Leopardi al De Sinner, e trovasi, ancora inedito, nella Biblioteca Nazionale fiorentina), fu intorno al 1830 comunicato dal De Sinner stesso, coll’assenso dell’autore, a Federico Creuzer, che aveva lavorato tutta la vita intorno a Plotino, e ci trovò materia da giovarsene per le aggiunte e correzioni alla sua edizione degli Enneadi.2

Le gravi opere accennate fin qui non davano per allora altro frutto che la lode di qualche parente ed amico; ciò che a Giacomo non poteva bastare. Ma egli aveva gli occhi all’avvenire, a quell’avvenire che la sua certa e tranquilla speranza gli prometteva lietissimo. Verrebbe pure il giorno che, lasciando il piccolo teatro di Recanati per il gran teatro del mondo, raccoglierebbe il prezzo di tante fatiche!

Il padre pensava tutt’altro: l’uomo dee vivere tranquillo nel luogo dove la Provvidenza lo ha fatto nascere: questa era la sua teoria; e non sognava che i suoi figliuoli potessero averne un’altra: se anche gli fosse nato il sospetto che nel suo Giacomo lo studio della geografia avesse fatto germogliare il desiderio di conoscere il mondo, si teneva certo che la educazione e la vita claustrale della famiglia avrebbero fatto sfumare cotesti ed altri sogni di ragazzo.

Se non si potevano divulgare colla stampa i dotti lavori di argomento profano già compiuti da Giacomo, chi sa non fosse possibile trovare presso la Corte di Roma un mecenate a qualche opera d’argomento sacro! Questo pensiero, o venisse in mente a Monaldo, o, come altri suppone, a Giacomo stesso, forse non fu estraneo alla scelta dei due lavori che tennero dietro a quello dei Retori; e sono: 1° i Frammenti di Padri greci del secondo secolo; 2° i Frammenti di antichi scrittori greci di storia ecclesiastica; lavori composti in poco più di otto mesi, tra la fine di novembre del 1814 e i primi di luglio 1815, ch’era appunto il tempo della maggior felicità di Giacomo. Anche questi rimangono inediti nella Biblioteca nazionale di Firenze: se non che, più che veri e propri lavori, come già altri osservò, sono, specialmente il primo, una grande raccolta di materiali preparati per un’opera, che, se compiuta, sarebbe riuscita veramente colossale. I materiali raccolti per il primo lavoro occupano 424 grandi pagine in quarto del manoscritto, e si riferiscono a 67 Padri, intorno a ciascuno dei quali l’autore avrebbe scritto probabilmente un commentario del genere degli altri già composti. I materiali del secondo lavoro occupano soltanto 59 pagine.



Ai lavori fin qui indicati succedono per ordine di tempo; 1° il Saggio sugli errori popolari degli antichi; 2° il Commentario latino della vita e degli scritti di Sesto Giulio Affricano, con la traduzione pure latina di varii opuscoli e dei Cesti; 3° il Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone, col volgarizzamento degli scritti di esso pubblicati dal Mai.

Al Saggio fornì gran parte dei materiali la Storia dell’Astronomia. Quella storia nei tempi antichissimi era poco più che la storia dei pregiudizi ai quali le meraviglie del cielo stellato avevan dato origine fra i popoli primitivi ignoranti ed ingenui. Di qui venne forse al Leopardi la prima idea di raccogliere sotto varii capi in un vero trattato la storia di quei pregiudizi; che non altro sono gli errori popolari dei quali parla l’autore. Il trattato è diviso in diciannove capitoli, il primo dei quali dà un’idea dell’opera, e l’ultimo la ricapitolazione: gli altri diciassette discorrono dei pregiudizi appartenenti all’Astronomia, alla Geografia, alla Meteorologia, e alla Storia naturale. Il Saggio fu composto nel 1815, in due mesi, afferma il De Sinner, il quale ne ebbe dall’autore il manoscritto autografo (un piccolo in 4° di 306 pagine), che conservasi ora nella Nazionale di Firenze. L’autore, che aveva intenzione di pubblicare subito il lavoro, ne fece fare e corresse di sua mano una copia, che mandò nel 1816 all’editore Antonio Fortunato Stella di Milano; ma la copia pare andasse per qualche tempo smarrita: ad ogni modo rimase inedita, finché fu recuperata e pubblicata nel 1846 da Prospero Viani. Un terzo manoscritto del Saggio trovasi fra le carte napoletane.

Il Giulio Affricano, che conservasi inedito nella Nazionale fiorentina (e proviene parimente dal De Sinner), fu composto anch’esso nel 1815, in sei mesi, dice il Pellegrini; ed è compreso in sette quinterni autografi in 4°; il primo dei quali (di 37 pagine) contiene il Commentario della vita; il secondo e il terzo (86 pagine in tutto) la traduzione latina di scritti varii; gli altri quattro (169 pagine in tutto) contengono i Cesti; la traduzione dei quali non è compiuta, e vi manca il testo greco, a riscontro della traduzione.

Su Cornelio Frontone il Leopardi aveva già scritto, come s’è veduto, un Commentario latino, (uno dei Commentarli dei quattro Retori), nel quale parla della vita di lui, degli scritti rimasti e dei perduti; ma quando nel 1815 vennero in luce gli scritti di Frontone ritrovati dal Mai in un palinsesto ambrosiano, è incredibile la gioia e l’impazienza del giovine filologo. «Io invidiava, scrive egli, la sorte dei Milanesi, che poteano all’istante appagare la loro curiosità e soddisfare il loro desiderio.»3

E appena ebbe il libro, si mise a tradurre in italiano gli scritti frontoniani, e vi premise un nuovo e più largo discorso, pure in italiano, sopra la vita e le opere dell’autore, dedicando il lavoro al Mai con una lettera, nella quale fra le altre cose è detto: «È pur bella cosa aver reso il suo nome inseparabile da quello di uno dei più grandi uomini cbe i secoli abbiano ammirati.» La stima ch’egli mostra fare di Frontone come scrittore è veramente eccessiva; ma è scusata dall’entusiasmo del giovine per l’importanza e la novità della scoperta; e la traduzione non è senza pregi, benché poi l’autore negli anni maturi la giudicasse «lavoro precipitoso e indegno di vedere la luce.» Precipitoso è veramente, perchè fu compiuto nei primi due mesi del 1816; e lontano certamente dalla perfezione della prosa leopardiana dei tempi migliori; ma può considerarsi come un primo passo verso quella perfezione. Il fatto poi che anche questo lavoro fu da lui consegnato al De Sinner, perchè lo facessepubblicare in Germania, mostra ch’egli in fondo, almeno per la sostanza, gli attribuiva qualche valore.

Il manoscritto consegnato al De Sinner è copia con correzioni dell’autore (un vol. di pag. XLV o 282): l’autografo, sul quale pubblicò poi l’opera il Cugnoni, supplendo a qualche mancanza col manoscritto fiorentino, si conserva nella biblioteca Leopardi di Recanati.

Al genere di lavori dei quali abbiamo parlato fin qui si può riportare il Volgarizzamento fatto dal nostro nel 1817 dei frammenti di Dionigi d’Alicarnasso, pubblicati dal Mai l’anno innanzi, e la breve dissertazione, in forma di lettera al Giordani, con la quale sostenne, contro l’opinione di lui e del Mai, che i frammenti erano veri e propri pozzi dei libri perduti delle Storie di Dionigi, non già di un compendio di esse. L’opinione fu lungamente dibattuta fra i dotti, e dal dibattito risultò che il Leopardi aveva ragione.

È incredibile il progresso fatto dal giovino erudito nei quattro anni dal 1813 al 1817. Sotto quell’immenso capitale di cognizioni ch’era venuto accumulando, l’ingegno di lui, lungi dal rimanere oppresso e impacciato, si era svolto con una rapidità meravgliosa, crescendo di giorno in giorno di forza, di agilità, di sicurezza. Ciò che ordinariamente avviene anche negli ingegni più forti, che cioè raggiungano il loro pieno sviluppo nel periodo che corre dalla giovinezza alla virilità, dai venti ai trenta anni, in lui era avvenuto prima che toccasse l’anno ventesimo. Quali passi di gigante dalla Storia dell’Astronomia al Porfirio, da questo al Saggio augii errori popolari, al Giulio Affricano e al Frontone, dal Frontone al Dionigi! Il giovine, che a quindici anni non pare intento ad altro che a imbottirsi di dottrina, a diciannove è già maestro di filologia e di critica, un maestro, che può modestamente fare la lezione al Giordani e al Mai.



Se gli studi d’ erudizione sono stati una specie di palestra di ginnastica intellettuale, dove il giudizio, il raziocinio e l’acume critico si sono esercitati e affermati, anche la fantasia ed il senso estetico, che sonnecchiavano in fondo allo spirito del giovane, si sono in quell’ambiente venuti a poco a poco destando. In quelli stessi anni delle fatiche erudite egli non aveva abbandonati del tutto gli studi propriamente letterarii, se non forse nei due anni 1813 e 1814; ma negli anni dal 1815 al 1817 era venuto componendo scritti originali e traduzioni, con intendimento principalmente, se non esclusivamente, artistico.

La stessa Storia dell’Astronomia ed il Saggio sugli errori popolari non erano lavori di pura erudizione: questo specialmente era anche un lavoro filosofico e letterario. Aveva poi nello stesso anno 1815, a cui appartiene il Saggio, tradotto gl’Idilli di Mosco e la Batracomiomachia; nel 1816 aveva composto l’idillio Le remembranze, la cantica L’appressamento della morte e l’Inno a Nettuno, e tradotto il Primo libro dell’Odissea e il Secondo dell’Eneide; nel 1817 aveva scritto i Sonetti in persona di Ser Pecora, e la prima Elegia, e tradotto La Torta e la Titanomachia. Che l’intendimento di questi lavori fosse, come ho detto, principalmente, se non esclusivamente, letterario ed artistico, appare dalla natura di essi, ed è confermato da ciò che in proposito delle traduzioni l’autore scriveva al Giordani nell’aprile del 1817: «Quando ho letto qualche Classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità esaminate e rimenate a una a una piglian posto nella mia mente, e l’arricchiscono e mi lasciano in pace.»4

Fino al 1815, nelle opere ch’era venuto scrivendo, non si era dato gran cura della espressione, aveva badato più alle cose che alle parole. Lo confessa egli medesimo al Giordani con quella stessa lettera dell’aprile 1817: «Io disprezzava, anzi calpestava (scrive egli, non senza un po’ d’esagerazione) lo studio della lingua nostra; tutti i miei scrittacci originali erano traduzioni dal francese; disprezzava Omero, Dante, tutti i Classici; non volea leggerli; mi diguazzava nella lettura che ora detesto: clii mi ha fatto mutar tuono? La grazia di Dio.» E soggiunge che nei primi del 1816, leggendo nella Biblioteca italiana gli scritti di lui Giordani, essi aveano dato «stabilità e forza alla sua conversione ch’era sul cominciare.»5

Queste parole confermano che la sua conversione letteraria (egli la chiama conversione alle lettere belle) avvenne per un moto spontaneo, e quasi inconsapevole, della sua monte; e ribadiscono la conforma questo altro pardo allo stesso (Giordani in altra lettera del 20 maggio 1817: «È un anno e mezzo che io quasi senza avvedermene mi son dato alle lettere belle, che prima non curava; e le cose mie ch’ella ha vedute, ed altre che non ha vedute, sono state fatte in questo tempo, sì che avendo sempre badato ai rami non ho fatto come la quercia che A vieppiù radicarsi il succo gira, Fer poi schernir d’Austro e di Borea l’onte: a fare il che mi sono adesso rivolto tutto.»6

Si capisce che la conversione non sarebbe avvenuta spontaneamente da sé, come avvenne, se durante gli studi d’erudizione l’ingegno del Leopardi non fosse stato aperto e sensibile alle bellezze dei grandi scrittori, specialmente dei poeti. Egli aveva un bel dire che disprezzava Omero, Dante, tutti i Classici: a noi è lecito non prestar fede alle sue parole, poiché egli stesso ce ne porge gli argomenti. Nella lettera con la quale dedicava al Mustoxidi il Saggio sopra gli errori popolari, composto, come s’è veduto, prima che avvenisse la sua conversione si leggono queste parole: «Io vo in estasi quando leggo gli scritti dei vostri cari Greci, e, ardisco dirlo, non cedo che a voi nel vivo trasporto per quegli incantati alberghi delle Muse, degnissimi di essere dispregiati da chi non può conoscerli.»7 - S’egli aveva tanta ammirazione per la poesia greca, come possiamo credere che veramente disprezzasse Omero? Le medesime copiose citazioni da poeti greci e latini di cui abbonda il Saggio non mostrano forse come fin d’allora, e prima d’allora, la poesia greca e romana fosse familiare al giovane erudito? E l’Inno a Nettuno, composto nel 1816, quando la famosa conversione era appena sul cominciare, non è anch’esso una prova (e qual prova!) dell’amore del giovine poeta per la poesia greca? E ciò ch’egli ne scrive al Giordani non è una prova che egli, se voleva con le note all’ Lino far opera d’erudito, voleva con l’Inno fare opera d’arte, da emulare niente meno che i Greci? «Innamorato, scrive egli, della poesia greca, volli fare come Michelangelo che sotterrò il suo Cupido, e a chi dissotterrato lo credeva d’antico, portò il braccio mancante. E mi scordava che se egli era Michelangelo, io sono Calandrino.»8

Ad uno che scrive così si può credere quando afferma che disprezza e calpesta Omero? Quella sua confessione di barbarie fatta al Giordani con la lettera dell’aprile 1817, spogliata di ogni esagerazione e ristretta al suo giusto significato, non vuol dire altro che questo che già accennai; ch’egli cioè fino al 1815, scrivendo in italiano, non aveva posto cura nella forma, sopra tutto non aveva badato alla purità della lingua.

La Poetica d’Orazio travestita, il Pompeo ed altre poesie minori composte negli anni 1811 e 1812, stan lì ad attestare che nel Leopardi e’ era fin da ragazzo la tendenza e l’ attitudine all’ arte ed alla poesia. Quella tendenza, se nella prima foga degli studi eruditi parve per un tratto di tempo sopita, si ridestò a poco a poco per effetto degli studi stessi. Quei poeti greci e latini che il giovine autore compulsava e rileggeva per citarli nei suoi dotti lavori, lo richiamavano alle bellezze dell’arte; ed egli, conciliando l’amore di questa con l’amore della erudizione, si diede allora a tradurre di proposito dai poeti greci e latini e ad illustrare criticamente ed esteticamente le poesie che traduceva. L’un lavoro aiutava o compiva l’altro: lo scrittore esercitava al tempo stesso le sue facoltà ar- tistiche le critiche. Così nacquero lo traduzioni da Mosco, da Omero, da Esiodo, da Virgilio, e i discorsi critici che le accompagnano. In questo modo avvenne la conversione letteraria del Leopardi, la quale insomma non è altro che il suo ritorno alla poesia o all’arte. Quel ritorno gli foce sentire il pregio di una forma di scrivere castigata e corretta; e si mise allora tutto con grande ardore nello studio della lingua italiana e dello stile; al che gli giovò grandemente l’alternaro alla lettura dei classici italiani le traduzioni dai poeti greci e latini.

Traducendo egli intendeva di mettersi in gara con gli originali, e con gli altri scrittori che avevano tradotto le stesse opere prima di lui. Se nella gara non potè riportare la palma, il tradurre fu per lui un esercizio utilissimo. Le sue traduzioni sono tutt’altro che impeccabili, e rimangono assai lontane dal pregio degli originali; ma lo vennero addestrando all’ uso del linguaggio poetico, al maneggio della verseggiatura, e gli vennero aprendo a poco a poco i più riposti segreti dell’arte. Paragonando le prime traduzioni con le seconde, e queste con le terze, si scorge in tutte il rapido progresso che il traduttore veniva facendo. Egli le ripudiò poi tutte, come imperfette e lontane dall’ideale cui mirava; ma a mostrare la cura che metteva in esse basta il fatto che rifece per ben due volte la traduzione della Batracomiomachia.

Nei primi tentativi di crearsi una forma di scrivere corretta ed elegante, il Leopardi, com’è naturale, cadde nel vizio contrario a quello che fuggiva. Fuggiva la sciatteria; cadde nell’affettazione. Ciò apparisce sopra tutto negli scritti in prosa. Se la prosa del Saggio è macchiata da qualche gallicismo, né sempre corretta, ha però un’andatura franca e disinvolta, che invano si cerca negli scritti in prosa dei due anni seguenti, gli anni della conversione. Nel Saggio lo scrittore dice quel che vuol dire, alla buona, senza prendersi soggezione del lettore, e perciò riesce piacevole ed efficace; nel preambolo alla traduzione del secondo libro dell‘Eneide lo scrittore non è più lui; pare che abbia paura della semplicità e della naturalezza; sfugge le parole e le espressioni comuni e piane, e riesce impacciato e affettato. Qualche anno più tardi disse egli stesso che quel preambolo era scritto in uno stile infernale e al tutto da fanciullo.9 Anche il Discorso sulla Titanomachia d’Esiodo non manca di qualche affettazione; e in generale ne sono macchiati quasi tutti, quale più quale meno, gli scritti di prosa di quei due anni.

Ma quel bagno di purismo non fu inutile per lo scrittore ; e il forte ingegno di lui seppe liberarsi ben presto di quel po’ di scoria pedantesca che gli studi di lingua lasciarono su gli scritti suoi di quel tempo. L’istinto suo lo portava alla semplicità nell’arte, e quell’istinto non tardò ad avvertirlo quando e come ne deviava. Nella traduzione dei frammenti di Fron- tone e di Dionigi egli mise un intendimento artistico, non meno che nelle traduzioni poetiche da Mosco, da Omero, da Virgilio. E quando ebbe finito il Dionigi, nella traduzione del quale volle, come il Davanzati con Tacito, gareggiare di brevità, con l’autore, ne rimase così contento, che scrivendone allo Stella, al quale ne offrì la stampa, gli diceva: «Se mi è lecito parlare della mia traduzione, le dirò che la ho fatta con tutto il possibile studio, non avanzando una parola senza averla maturamente ponderata, e con tutta la cognizione delle due lingue, di cui io sono capace. Credo che poco di meglio possa uscire dalla mia penna, e a me paro di esserne sodisfatto, chennon è solito.»10 Lo Stella, qualunque si fosse la ragione, non stampò la traduzione del Dionigi; e il Leopardi qualche tempo dopo, tornando a rivederla, la giudicò scritta con tale affettazione, che avrebbe temuto di rendersi ridicolo divulgandola.11

Lo stesso presso a poco gli accadde di tutti gli altri lavori, sia tradotti sia originali, da lui composti in quei due anni. Un lavoro del quale, appena scrittolo, era contento, passati due o tre mesi non gli piaceva più, tanto era rapido il progresso ch’ei faceva nell’arte. I mesi, dice con ragione Pietro Pellegrini, per lai erano anni.12

I lavori giovanili di questo tempo furono quelli coi quali il Leopardi cominciò a farsi conoscere fuori del cerchio ristretto dei parenti e degli amici della famiglia. Li stampò nel periodico Lo Spettatore italiano e straniero, che pubblicavasi a Milano dal libraio A. F. Stella.



Milano era la città che teneva in Italia il primato del movimento letterario: vi dimoravano il Monti, il Mai, il Giordani; e lo Stella vi esercitava con moltariputazione il commercio di libraio e di editore. Monaldo entrò in relazione con esso nei primi del 1816, probabilmente per dargli qualche commissione di libri, e proporgli qualche cambio. La sua biblioteca, composta in gran parte, come sappiamo, di libri dei soppressi conventi, abbondava di opere antiche e scarseggiava delle moderne. La mancanza era gravemente sentita dai figliuoli, in specie da Giacomo; e il padre, desideroso di non porre inciampi ai meravigliosi studi di lui, cercava di provvedere al difetto meglio che potesse. Libri di storia, di viaggi, di letteratura, venivano regolarmente da Milano alla biblioteca Leopardi, e insieme con essi i due periodici lo Spettatore e la Biblioteca italiana e qualche rivista inglese per Carlo.

La relazione stretta fra il libraio milanese ed il conte marchigiano non si limitò all’acquisto e al cambio de’ libri. Monaldo pensò subito di trarne profitto per la stampa delle opere del suo Giacomo, e con una delle prime lettere (febbraio 1816) propose all’editore la pubblicazione del Saggio sugli errori popolari e della traduzione del Frontone. Il libraio accettò, salvo sottoporre i manoscritti al giudizio dei compilatori della Biblioteca italiana, ch’erano, come è noto, il Monti, il Breislak e il Giordani. Nell’agosto di quello stesso anno lo Stella, facendo un viaggio per l’alta e la media Italia, ebbe occasione di passare per Recanati; vi si fermò per breve tempo e fece la conoscenza personale della famiglia Leopardi, con la quale, particolarmente con Giacomo, strinse e mantenne poi sempre cordiali relazioni.

Invece di sottoporre il lavoro di Giacomo sul Frontone al giudizio dei compilatori della Biblioteca italiana, lo Stella, forse per consiglio di essi, lo aveva fatto leggere al Mai, al quale, come sappiamo, era dedicato, e ch’era naturalmente il giudice più autorevole. Il Mai ne scrisse una lettera cortese al giovine autore, incaricando lo Stella di portarla. La lettera lodava il lavoro, faceva intorno ad esso alcune osservazioni, ma ne sconsigliava la pubblicazione. Qualcuno ha sospettato potesse non piacere all’uomo illustre che un giovinetto si permettesse di fargli, per quanto timidamente, qualche critica; e il sospetto può non essere ingiusto, so ò vero che nella seconda edizione del Frontone il Mai tenne pur conto di quelle critiche e se ne giovò.

Ne’pochi giorni che il libraio milanese si trattenne a Recanati, è naturale che fra lui e i giovani Leopardi, Giacomo in particolar modo, si parlasse di lavori letterari e di pubblicazioni, e, fra l’altro, dell’opera ch’essi potevano dare alla compilazione dello Spettatore. Lo Stella propose a Giacomo di fare per il giornale qualche rivista letteraria e a Carlo qualche articolo di letteratura inglese. I fratelli accettarono, e Giacomo promise subito, e dopo qualche tempo mandò un articolo sul Salterio ebraico, tradotto in italiano dall’abate Giuseppe Venturi. L’articolo fu pubblicato, senza nome d’autore, nei quaderni 63 e 64 (31 ottobre, 15 novembre 1816) del tomo VII del periodico, con in fine le iniziali M. D. Se Giacomo mandasse altre riviste letterarie allo Spettatore non è accertato;13 ma vi pubblicò la maggior parte degli scritti letterarii da lui composti fra la fine del 1815 e tutto il 1817.

Il primo lavoro suo che comparve nel periodico, anche prima dell’ articolo sul Salterio, fu la traduzione del primo libro dell‘Odissea, pubblicata nei quaderni 55 e 56 (30 giugno e 15 luglio 1816) del tomo VI. Poi di seguito, negli altri quaderni di quell’anno e in quelli dell’anno successivo, comparvero il Discorso su Mosco e la traduzione degli idilli, il Discorso su la Batracomiomachia e la versione di essa, il Discorso su la Fama di Orazio, l‘Inno a Nettuno e le traduzioni della Torta e la Titanomachia.

Le traduzioni poetiche fatte dal Leopardi nel così detto periodo della sua conversione sono migliori delle sue traduzioni in prosa, e delle prose e poesie originali: non ci si sente, come in quelle, l’affettazione e lo stento; c’è anzi, nella fedeltà, una certa scioltezza di fraseggiare e di verseggiare. Lo Stella, ch’era in continua relazione epistolare con Giacomo, gli andava scrivendo, fin dalla pubblicazione del saggio dell‘Odissea, che le sue traduzioni piacevano. Ciò che non tolse che nel quaderno 59 dello stesso anno 1816 dello Spettatore un F. C, scrivendo un articolo sopra un poema epico d’argomento moderno, scherzasse un po’ intorno a quel saggio di traduzione del Leopardi. Questi se n’ebbe lì per lì un po’ a male, benché pigliasse la cosa con disinvoltura. Aveva supposto che l’F. C. fosse il suo parente Francesco Cassi di Pesaro; e quando l’anno dopo stampò a Milano dallo Stella la sua traduzione del secondo libro dell‘Eneide mise nel preambolo due parole di accenno a quello scherzo,14 e mandò una copia dell’opuscolo al Cassi, offrendogli la sua amicizia. Il Cassi rispose che l’autore dell’articolo firmato F. C. non era lui, e il Leopardi, dicendo le ragioni della sua supposizione, riconobbe che s’era ingannato.15



Il senso estetico e il critico, svegliatisi contemporaneamente, come dissi, nel nostro autore, furono i due elementi che primi cooperarono a trasformare l’erudito e il filologo nel poeta e nel pensatore; ma non furono i soli: ad essi se ne aggiunse più tardi un terzo, che compì, allargandola, l’opera della trasformazione. Il giovinetto diventò uomo: il suo cuore si destò; e si destarono nel cuore i più ardenti desiderii della gioventù: l’uomo cominciò a sentire l’impero della bellezza; ebbe intera la rivelazione della vita; acquistò pienissima la coscienza dell’essere suo. La trasformazione non avvenne d’un tratto, ma per un lento lavorio dello spirito; perciò gli effetti di esso si mostrarono per gradi a poco a poco. Il poeta il patriota precedettero, corno vedremo, o annunziarono il pensatore. Fino ai diciotto anni Giacomo era stato interamente sotto l’influenza paterna: le sue idee in religione, in filosofia, in politica, erano state le idee del padre suo; la sua condotta nella vita quella che la famiglia aveva voluta. Lo avevano avviato al sacerdozio, ed egli aveva lasciato fare. Purché gli concedessero libertà di studiare a modo suo, in tutto il resto egli fino allora era stato disposto a fare a modo degli altri. Le sue idee filosofiche e religiose di quel tempo (la filosofia era naturalmente subordinata alla religione) furono da lui esposte nel Saggio su gli errori popolari; le idee politiche nella Orazione per la liberazione del Piceno, scritta nello stesso anno 1815 in cui aveva composto il Saggio.

E per due anni ancora non diede segno nei suoi scritti della trasformazione che andava operandosi in lui; benché lampi forieri di essa si possano oggi scorgere nello stesso Saggio. «Credere una cosa, scrive egli nel primo capitolo, perchè si è udito dirla, e perchè non si é avuta cura di esaminarla, fa torto all’intelletto dell’uomo.»16 Questo, che ora censurava, e niente altro che questo, aveva egli fatto fino allora intorno alla religione. Ma quel pensiero critico, una volta entratogli in testa, doveva fare il suo cammino; e lo fece spietatamente. Intanto però egli terminava il suo libro con questo inno alla religione.

«Religione amabilissima! è pur dolce poter terminare col parlar di te, ciò che si è cominciato per far qualche bene a quelli che tu benefichi tutto giorno; è pur dolce poter concludere con animo fermo e sicuro, che non è filosofo chi non ti segue e non ti rispetta, e non v’ha chi ti segua e rispetti che non sia filosofo. Oso pur dire che non ha cuore; che non sente i dolci fremiti di un amor tenero, che soddisfa e rapisce; che non conosce l’estasi in cui getta una meditazione soave e toccante, chi non ti ama con trasporto, chi non si sente trascinare verso l’oggetto ineffabile del culto che tu e’ insegni. Comparendo nella notte dell’ ignoranza, tu hai fulminato l’errore, tu hai assicurato alla ragione e alla verità una sede che non perderanno giammai. Tu vivrai sempre e l’errore non vivrà mai teco. Quando esso ci assalirà, quando coprendoci gli occhi con una mano tenebrosa minaccerà di sprofondarci negli abissi oscuri, che l’ignoranza spalanca avanti ai nostri piedi, noi ci rivolgeremo a te, e troveremo la verità sotto il tuo manto. L’errore fuggirà come il lupo della montagna inseguito dal pastore, e la tua mano ci condurrà alla salvezza.»17

Le idee politiche esposte dal nostro autore nella Orazione non tanto riflettevano le opinioni del padre suo, quanto le tristi impressioni lasciate in lui fanciullo dalla invasione francese e da ciò che aveva udito dire di quel governo. L’immagine di Napoleone gli era rimasta nella mente come quella di un tiranno scellerato: tutto ciò che sapeva della Francia napoleonica era per lui riprovevole e odioso. Associando a queste idee i suoi ricordi del mondo romano, e immaginandosi d’essere un oratore antico, scagliò i fulmini delle sue parole contro un tiranno immaginario; contro il povero e prode Gioachino Murat, che cadeva ahimè fulminato dalle palle del Borbone. Mentre i patrioti italiani deploravano spento in lui il futuro liberatore d’ Italia, il giovinetto Leopardi gl’idirizzava questo amare parole: «Folle straniero, perdio volevi tu sollevarci contro i nostri principi? Avevamo noi forse dei tiranni? Egli ò strano che il solo tiranno che fosso in Italia abbia esortati i popoli alla ribellione, o intimata guerra a una sognata tirannia. Noi avevamo dei sovrani affettuosi ed amabili che anteponevano la felicità dei loro sudditi alla propria ambizione: o piuttosto che non aveano altra ambizione che quella di formare la felicità dei popoli. Invano tu volevi strapparceli. Noi li possediamo tuttora, noi li conserveremo, e queste famiglie sacre saranno la eredità dei nostri posteri, e il prezioso pegno che gl’italiani fedeli e sensibili consegneranno ai loro figli.»18

Oh come Monaldo dovè rimanere sodisfatto a leggere la chiusa del Saggio e queste parole della Orazione! Dunque l’educazione da lui data ai suoi figli aveva portato nel primogenito i suoi frutti! — Ahimè per poco! — Il Saggio e e l’Orazione, ch’egli credeva essere l’affermazione dei principii religiosi e politici che avrebbero guidato per sempre la vita di lui, erano invece il testamento dell’uomo fatturato dall’esempio e dagli insegnamenti paterni che, sentendo venire la sua fine, si prepara a cedere il posto all’uomo della natura rivelato dagli studi a sé stesso.




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  1. Opere inedite di Giacomo Leopardi, pubblicato sugli autografi recanatesi da Giuseppe Cugnoni, volumi due; Halle, Niemeyer, 1878 - 1880.
  2. Per questo e per gli altri lavori filologici del Leopardi, vedi Francesco Moroncini, Studio sul Leopardi filologo; Napoli, Morano, 1891.
  3. Opere inedite di Giacomo Leopardi, pubblicate dal Cugnoni, voi. I, pag. 329.
  4. Epistolario di Giacomo Leopardi, vol. I, pag. 42.
  5. Idem, ibid., pag. 56, 59.
  6. Epistolario, vol. I, pag. 71.
  7. Scritti letterari di Giacomo Leopardi, ordinati da G. Mestica; Firenze, Le Monnier, 1899; vol. I, pag. 75, 76.
  8. Epistolario, vol. I, pag. 71.
  9. Epistolario, vol. I, pag. 131.
  10. Idem, ibid., pag. 88.
  11. Idem, ibid., pag. 137.
  12. Vedi Giacomo Leopardi, Studi filologici, raccolti e ordinati da Pietro Pellegrini e Pietro Giordani; Firenze, Le Monnier, 1845, pag. 467.
  13. Clemente Benedettucci ristampa nelle sue Spigolature leopardiane (Recanati, Simboli, 1885) una rivista sulle Eroidi d’Ovidio, tradotte dal Fernandez, pubblicata nel quaderno III del tomo VIII (1° giugno 1817) dello Spettatore, attribuendola dubbiamente al Leopardi; ma noi crediamo col Mestica che non sia di lui. Vedi Mestica, Discorso proemiale agli Scritti letterari del Leopardi, vol. I, pag. XXIX.
  14. Vedi Giacomo Leopardi, Scritti letterari, pubblicati da G. Mestica, vol. II, pag. 114.
  15. Epistolario, vol. I, pag. 67.
  16. Giacomo Leopardi, Scritti letterari citati, vol. I, pag. 83.
  17. Giacomo Leopardi, Scritti letterari citati, vol. I, pag. 835 e seg.
  18. Giacomo Leopardi, Scritti letterari citati, vol. I, pag. 367.


Note

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