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145 Capitolo Vili. GLI IDILLI, LA CANZONE AL MAI, « LA TELESILLA. » 1819-1821. Sommario: La canzone Per dontta inferma di malattia lunga « mor» tale. — La canzone Su lo strazio. — Annotazioni all' Eusebio. — Tracce dei primi idilli e loro importanza. — GÌ' idilli pub- blicati nel 1826. — Il paesaggio negli idilli. — Gli accessorii; la figura principale. — La materia degli idilli. — Giudizio del Montani. — Disegno di una canzone sulla Grecia. — La canzone al Mai. — Relazione dì essa con le due prime can- zoni patriotiche. — Contradizione apparent«. — I tentativi drammatici: La Maria Antonietta: h' Erminia: La Teleailla. Dopo le due canzoni AlV lidia e Sopra il monumento di Dante, scoppiategli dal cuore in un momento di en- tusiasmo vero, il Leopardi compose nei primi mesi del 1810 la canzone Per donna inferma di malattia lunga e mortale, e l'altra Su lo stranio di una gio- vane, il cui titolo vero nell'autografo è : < Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal cor- ruttore per mano ed arte di un chirurgo. > La canzone Per donna inferma, che l'autore, come vedremo, voleva subito pubblicare insieme con l'altra Su lo strazio, rimase inedita fino all'anno 1871, nel quale la pubblicò per nozze Alessandro D'Ancona, credendo erroneamente che fosse quella Su lo strazio. Dopo il D'Ancona la ristampò Prospero Viani nell'-^^ pendice aW Epistolario e agli Scritti giovanili. Il De Sanctis, trovandola molto inferiore alle due prime canzoni, credè, ma ingannandosi, che fosse stata scritta (.'iMAitiNi, Letip. 10 146 CAPITOLO Vili. avanti. Altri critici, cercando chi fosse la donna per la quale era stata composta, misero innanzi il nome di Teresa Fattorini ; ma s'ingannarono anch'essi. Da una lettera dedicatoria, che trovasi fra le carte na- poletane, e rimase ignota al D'Ancona e al Viani, risulta che la giovane inferma guarì, e che appar- teneva a famiglia di condizione agiata ed in rela- zione con la famiglia Leopardi. Non è improbabile che fosse, come il Mestica suppone, quella Serafina Basvecchi, di cui è menzione nel capitolo quinto. La canzone è una serie di lamenti e di riflessioni dolorose sulla morte della bellezza e della gioventiì e sulla tristizia del mondo; lamentazioni e riflessioni un po' monotone e fredde, svolte in istrofe di stile più o meno petrarchesco e classicamente corretto, nelle quali non scoppia mai, dal principio alla fine, un accento di commozione vera. Il poeta avrtl certa- mente provato dolore per la malattia della giovane, ma non è riuscito a trasfonderlo nei suoi versi, i quali perciò rimangono una pura esercitazione lette- raria. Non altro ò la canzone Ver donna malata. Peggio ancora quella Su lo strazio.^ Potrà parere strano che il Leopardi si lasciasse tentare dal fatto avvenuto a scrivere questa seconda canzone, perchè da qualunque lato il fatto si con- sideri, i)arc diflicilc trovarvi qualche cosa di poetico. Non c'ò, secondo me, niente di più volgare e di più ripugnante a qualsiasi maniera di idealizzazione. Una giovane donna, lasciatasi noli' assenza del marito sedurre, e rimasta incìnta, quando sa clie il marito sta per tornare si risolve, d'accordo con l'amante, a sopprimere il frutto dell' illecito amore, sottoi)o- nendosi ad una operazione chirurgica, nella quale riiuane uccisa. Il triste fatto avvenne nel gennaio
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nnpok'tniio, ora in corvo di kininpn. GLI IDILLI, LA CANZONE AL MAI EC. 147 del 1819 a Pesaro, e ne seguì un processo, pel quale il chirurgo fu condannato a sette anni di galera.* Se ne sparse la notizia nei luoghi vicini, e chi sa come fu raccontato al Leopardi! L'impressione ch'egli n'ebbe fu, come appare dal titolo della canzone, che il seduttore desse commis- sione al cliirurgo di uccidere la donna col feto ; ciò che non pare possibile. Il poeta non vide in quei due uomini clie due belve, due orsi (così li chiama), e nella donna una infelice che ebbe la sventura di < svegliar dolce fiamma in basso core. > Il volgo, dice il poeta chiudendo la canzone, accuserà del misfatto l'amore, ma a torto : colpevoli sono soltanto il destino e la viltà umana: l'amore e la bellezza sono l'unico bene della vita. Altri amor biasmi, io no che se nel primo Fiorir del tempo giovanil non sono Appien di viver lasso, M'avveggio ben che di suo nume è dono. Si capisce come il Leopardi, data la sua irritabi- lità nervosa, data la bontà dell'animo suo, e il con- cetto che aveva dell'amore e della bellezza, si com- movesse alla narrazione del triste fatto, e si sentisse spinto a fulminare co' suoi versi il carnefice nefando (com'egli chiama il chirurgo) e Vamante scellerato. Invano, dice a quest'ultimo, la terra coprirà il tuo misfatto ; io con la ultrice mano lo trarrò fuori alla luce del sole e al pianto degli uomini. E credendo comuni- care ai lettori la sua commozione, descrive la opera- zione cui la donna fu sottoposta, e il misero scempio che fu fatto delle carni di lei ; ma ciò non commuove, disgusta. Se la lingua e la verseggiatura di questa canzone potranno sembrare a taluno letterariamente lodevoli,
- Vedi Mestica, Studi leopardiani, pag. 175 e seg. 148 CAPITOLO YIII.
come la lingua e la verseggiatura dell' altra ; nessuno potrà lodarvi quello che, come nell' altra, vi manca, cioè, l'essenza della poesia.
Pure l'essenza della poesia era nella mente del- l'autore, ed egli aveva tu tt' intorno a sé gli elementi che al tócco di quella essenza si sarebbero come per incanto animati. Quelli elementi erano l'amore della bellezza femminile, l'amore della bella campagna re- canatese e la infelicità sua: e da quelli elementi nacquero, appunto in questo anno 1819, gl'idilli, nei quali fa la sua apparizione quella gentil forma di donna che, come altrove vedemmo, fu il conforto e lo strazio della infelice sua giovinezza. A quel tristissimo anno, nel quale dal marzo in poi egli visse brancolando mezzo cieco per le stanze della casa paterna, e rodendosi il cuore col suo pen- siero, appartengono anche le Annotazioni all'Eusebio del Mai, pubblicate in Roma quattro anni appresso. Agli idilli il Leopardi era venuto pensando anche prima del 18J9. Parlai già dell'idillio Le rimembranze, da lui composto nel 1816; e se gl'idilli pubblicati nel 1825 e nel 1820 ' furono tutti composti nel 1811) poco dopo, non mi pare improbabile che qualcuna dello tracce di altri idilli, che si sono poi trovate no' suoi manoscritti, sia anteriore a quell'anno; ma la maggior parto di esso appartiene senza dubbio al 1819. Il Carducci o lo Zumbini, pubblicando questo trac- ce, ne rilevarono l'importanza; e lo Zumbini osservò che per esso, più ancora che per gl'idilli, il lettore può farsi un'idea giusta dell'amore che il poeta ebbe per
- Noi Nuovo Uicofiliior; anno 1, 1826 (Milnno), png. 008 e Mg..
Anno II, 1S2(>, png. 45 <» w>g. — In Bologna, 1820, noi citato ▼«' liimntlo, Vivili liti mule (ìiaeomo Ltopardl. GLI IDILLI, LA CANZONE AL MAI EC. 149 tutta quella vita paesana e quelle scene campestri cui accennò così spesso nella sua poesia.' Gl'idilli sono sei, tutti in isciolti, L'infinito, La sera del giorno festivo (poi, La sera del dì di festa), La ri- cordanza (poi, Alla lima), Il sogno, Lo spavento noi- turno (poi. Frammento), La vita solitaria. Quanti di essi e quali fossero veramente compiuti nel 1819 non si può dire, perchè se l' autore, raccogliendoli insieme col titolo di Idilli nel volumetto di Versi pubblicato a Bologna nel 1826, vi appose la data del 1819, un indice autografo degli scritti di lui assegna loro come. data della composizione gli anni 1819, 1820 e 1821.* I migliori illustratori e commentatori delle poesie del Leopardi ritengono che l'ultimo di essi sia La sera del giorno festivo, il quale idillio con tutta probabi- lità non potrebbe essere stato composto più tardi del- l' aprile 1820.^ Non è diffìcile però eliminare l'ap- parente contradizione di queste date. Gl'idilli, sia per la sostanza sia per la forma, costituiscono un gruppo di poesie a sé che furono tutto composte o abbozzate fra la metà del 1819 e i primi mesi dell'anno seguente; ma poiché l'autore non li pubblicò fino al 1825, é naturale che vi tornasse sopra e li correggesse, e magari desse a qualcuno la forma compiuta e definitiva, negli anni 1820 e '21.* ¥ì"à gl'idilli del 182G non comparve ///cassero so- ìitario, a cui certamente il poeta pensò nel 1819, come appare da un accenno in quel Supplemento generale a tutte le mie carte, di cui dovrò parlare appresso : ' ma
- Vedi ZuMBiNi, Sludi sul Leopardi, voL I, cap. V.
- Questo indice, che trovasi fra le carte napoletane, porta
la data 25 febbraio 1826. Fra le stesse carte trovasi un altro in- dice delle Opere di G. Leopardi con la data 16 novembre 1816.
- Vedi nell'Epistolario del Leopardi la lettera al Giordani
del 6 marzo 1820.
- Vedi ZuMBixi, op. cit., voi. I, nota a pag. 212, 213.
^ Vedi Operette morali di G. Leopardi; Livorno, Vigo, 1870, pag. 503. 150 CAPITOLO Vili. per allora non lo compose. Lo compose più tardi e lo pubblicò la prima volta nella edizione napoletana delle poesie del 1835, mettendolo innanzi al gruppo degli idilli che conservò uniti, benché avesse eliminato il titolo di idilli da quella e dalle precedenti raccolte delle sue poesie, a cominciare dalla fiorentina del 1831. Badando più alla sostanza che alla forma, egli diede allora a tutte le sue poesie l'unica denominazione di Canti. Veramente il nome di idilli conviene fino ad un certo punto ai sei componimenti poetici, che ho nomi- nati, cioè conviene ad uno solo, allo Spavento notturno, un breve dialogo fra Alceta e Melisso, al quale il primo racconta di aver veduto in sogno cadere la luna sul prato. Questo, benché nella stampa occupi il quinto luogo, si crede comunemente che fosse composto dei primi : al Carducci par greco ; e si stacca interamente per la forma e pel contenuto dagli altri cinque. Giacomo, per sua confessione, non cominciò a sen- tirsi poeta, se non dopo aver letto parecchi poeti greci. Tradusse gl'idilli di Mosco, imitò dal greco l'Inno a Nettuno e le due anacreontiche; e i primi idilli che pensò ed abbozzò nel 1819 (dei quali la- sciò solamente le tracce) sono tutti, se non di forma greca, veri e propri idilli, cioè quadretti della vita campagnola, puramente oggettivi, e perciò meno lon- tani dall'idillio come lo concepirono gli antichi. Ma quando in quello stesso anno seguitò a comporre nuovi idilli, egli per effetto di quella mutazione dell'essere suo, per la quale aveva cominciato a sentire la sua infelicità in un modo più tenebroso, si era già trac- ciata una nuova via da seguire nella composizione di quel genere di poesie. La nuova via è indicata da questa nota che si leggo fra lo sue carte : < Idilli espri- menti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo. >' Perciò nei cinque idilli composti secondo ' N«Uo o*rt« nnpolotnne ora in oorcio di stampa. GLI IDILLI, LA CANZONE AL MAI EC. 151 questo nuovo concetto la parte idillica si riduce al paesaggio, al bel paesaggio di Kecunati, dipinto con pochi ed efficaci tocchi e colori nei suoi aspetti più varii. Di notte col lume di luna: Dolce e chiara è la notte e senza vento E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. In un mattino di primavera colla pioggia: 11 sol che nasce I suoi tremuli rai fra le cadenti Stille saetta. E sorgo e i lievi nugoletti, e il primo Degli augelli susurro, e l'aura fresca E le ridenti piagge benedico. In un quieto pomeriggio d'estate sulla riva di un laghetto : Ed erba o foglia non si crolla al vento, E non onda incresparsi, e non cicala Strider, né batter penna augello in ramo, Né farfalla ronzar, né voce o moto Da presso né da lungo odi né vedi. Tien quelle rive altissima quiete. Su l'alba o a mezzogiorno in campagna: per le piagge apriche Su la tacita aurora, o quando al sole Brillano i tetti i poggi e le campagne. Tale lo sfondo del quadro nei cinque idilli : gli ac- cessorii che lo compiono sono, un colle solitario e una siepe, lo stormire del vento fra gli alberi, il canto dell'artigiano che torna a casa a tarda notte, la gal- linella che saluta il nuovo giorno battendo le ali, il 152 CAPITOLO Vili. viso di vaga donzelletta che va per le sue faccende, il canto di una fanciulla che passa la notte al lavoro. Ma nel quadro disegnato con queste leggiadre tinte campeggia sempre, come figura principale, la figura pensosa e malinconica del poeta; del poeta che, se- duto dinanzi alla siepe nell'ermo colle, medita l'in- finito; del poeta che nel silenzio della notte pensa alla sua donna, la quale dorme e sogna di tutt' altri che di lui; del poeta che parla alla luna, la cui vista gli ricorda le angoscie passate ; del poeta che rivede in sogno la morta fanciulla da lui amata segretamente ed alla quale ora apre l'amor suo ; del poeta che fugge le cittadine infauste mura, e ripara in campagna, dove natura gli dimostra alcuna, benché scarsa, pietà. Se delle due donne la prima sia la Basvecchi, e la seconda la Fattorini, o un'altra, o nessuna, è cosa che poco importa : probabilmente la fanciulla del so- gno, in quanto infelicissima e morta, è la figlia del cocchiere, in quanto amata e sognata è la Brini. Ma ciò giova forse alla migliore intelligenza della poesia? Tutti gli accidenti della vita del poeta e della vita d'intorno a lui, diventando elementi di poesia, si tra- sformavano, 8i idealizzavano e assumevano un'appa- renza e un significato affatto diversi dalla realtà. Onde è assurdo o ridicolo pretendere di riconoscere nei fantasmi amorosi creati dalla sua mente la tale o la tal' altra donna, proprio quella e non altra. Ci sono tutte, e nessuna. La materia dei cinque idilli sono lamentazioni, ri- flessioni, meditazioni su la tristo sorto che al poeta fecero hi natura ed il mondo, con qualche accenno alla infelicità universale dogli uomini. ]ja filosofìa di Giacomo e il doloro suo, dal quale essa era nata, co- minciano ora a prendere possesso della sua poesia. Travagliosa Era mia vita; od ò, nò cangia atile, mia diletta luna! GLI IDILLI, LA CANZONE AL MAI EC. 153 Vano è saper quel che natura asconde Agl'inesperti della vita, e molto All'immatura sapienza il cieco Dolor prevale. Giovane son, ma si consuma e perde La giovanezza mia come vecchiezza; La qual pavento; e pur m'è lunge assai. E tu pur volgi Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando Le sciagure e gli aifanni, a la reiua Felicità servi, o Natura. In cielo, In terra amico agl'infelici alcuno E rifugio non resta altro che il ferro. Questo ciel che sì benigno Appare in vista a salutar m'affaccio, E l'antica Natura onnipossente, Che mi fece all'afìanuo. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Qui per terra Mi getto, e grido e fremo. Oh giorni orrendi In così verde etade ! È materia da idilli questa ? No : ma essi segnano, dopo le due canzoni patriotiche, un momento nuovo nella poesia del Leopardi, il principio di un nuovo genere di poesia, che avrà più largo svolgimento in appresso, e che sarà il più originale e caratteristico, anzi il solo veramente originale e caratteristico. < Alcuni degli idilli, scrisse il Montani nella An- tologia del 1827 (novembre-dicembre), a me non pare che in tutta la poesia italiana abbiano paragone. — E chi sa dire se l'abbiano veramente nella poesia d'altre nazioni? Talvolta, leggendo gì' idilli, imaginai, per così esprimermi, d' udire la voce di un fratello di Werther. Poi un pensiero, una frase, una semplice 154 CAPITOLO Vili. parola venne ad avvertirmi ch'io udiva la voce di un essere forse unico della sua specie. Quest'essere buono, come son buoni quelli che sovrastano con la mente al comune dei mortali, entrò nel mondo con le più dolci affezioni, e si sentì ben presto profondamente infelice. > Questo sentimento profondo della sua infelicità oc- cupava interamente Tanimo del poeta quando egli cominciò a scrivere i nuovi idilli, e divenne d'allora in poi il motivo fondamentale di tutte le sue opere in verso ed in prosa. La poesia degli idilli non attrasse così fattamente a sé il Leopardi ch'egli, dopo le due canzoni all'Italia e su Dante, avesse allontanato affatto il pensiero dalla poesia storica e patriotica. È probabilmente di questo tempo, forse posteriore di poco alle due prime canzoni, il disegno di una Can- zone sulla Grecia, che conservasi nelle carte napole- tane. La canzone doveva essere principalmente storica: dopo un accenno alla gratitudine che tutti i popoli, specialmente l'italiano, debbono alla Grecia come a maestra nelle scienze, nelle arti e nelle lettere ; do- veva far paragone del suo stato presente coli' antico, cercando di ravvivare in lei il sacro fuoco non ancora spento; esaltare quei popoli greci, che si mantengono con la^forza in una certa libertà; incoraggiare coloro, siano greci, siano stranieri, che si adoprano a ricon- durre la Grecia all'antica grandezza, celebrare la Grecia come madre della grazia o sua introduttrice nella vita; confortarla a confidare di vincere i Tur- chi, ricordandolo le suo anticlu* vittorie sui barbari; terminare con una descrizione lirica dello conquiste d'Aledsandro. GLI IDILLI, LA CANZONE AL MAI EC. 1 > Dal disegno lasciato dal poeta non è possibile farsi un'idea esatta di ciò che sarebbe stata la canzone, se egli l'avesse composta: abbiamo veduto quanto riuscisse diversa dall'abbozzo in prosa la canzone al- l'Italia. Il poeta, per scrivere la poesia, aspettava che tornasse l' ispirazione, e l' ispirazione non tornò. In- vece r ispirazione venne da un'altra parte, per un al- tro argomento. Nei primi mesi del 1820 le condizioni fisiche e mo- rali del Leopardi, non che migliorare, erano andate peggiorando. Mentre egli era sotto il peso de' suoi dolorosi pensieri e si disperava di non potere per Vosti- nata imbecillità de' nervi degli occhi e della festa com- piere nessuna delle tante opere che andava meditando, ecco si sparge pel mondo, e giunge anche a Recanati, la notizia della scoperta dei Libri della Bepuhhlica di Cicerone, fatta dal Mai. A quella notizia egli sente, come per virtù di una corrente elettrica, rianimarsi nelle membra doloranti lo spirito, e dimentico de' suoi mali, si leva a cantare, a celebrare, a rampognare. E come or vieni Si forte ai nostri orecchi e sì frequente, . Voce antica dei nostri, Muta sì lunga etade? Ancora è pio Dunque all'Italia il cielo; anco si cura Di noi qualche immortale. E poiché gli parve quella, o nessun'altra. L'ora da ripor mano alla virtude Rugginosa dell'itala natura, anche fu quella per lui l'ora di riprendere con più alta ispirazione e intonazione l'apostolato civile e 156 CAPITOLO Vili. patriotico iniziato con le canzoni All' Italia e Su Dante. La canzone per Dante termina con questa apo- strofe agli italiani: Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio ; Mira queste ruine E le carte e le tele e i marmi e i templi; Pensa qua! terra premi; e se destarti Non può la luce di cotanti esempli, Che stai? levati e parti. Da questo medesimo concetto muove e si esplica la canzone al Mai ; con tanto maggiore efficacia, quanto qui sono gli stessi antichi che si levano dai loro se- polcri a rampognare i nepoti degeneri. Non c'è in- giuria che il poeta risparmi ai suoi concittadini; li chiama inonorata, immonda plebe, secolo morto, secolo di fango, esempio di viltà; sante ingiurie, poiché mi- ravano a scuotere l'Italia dal suo torpore e renderle la coscienza di sé. La canzone è piena di entusiasmo e di movimento, e il pensiero spazia per essa in più vasto campo che nelle due precedenti. Tutta la gloriosa storia della nostra cultura da Dante all'Alfieri è evocata con brevi e rapidi tócchi, a fare manifesta la bassezza pre- sente ; ma chi la evoca ò l'autore degli idilli, è il poeta già dominato dal sentimento della infelicità umana, dalla paurosa idea della nullità di tutte lo cose. Egli celebra lo sdegno e il dolore di Dante e del Petrarca, Pardimento di (Colombo, lo dolci fantasie dell'Ariosto, le sventuro del Tasso, i forti e liberi sensi dell'Alfieri; ma quello che vorrebbe essere inno di gloria si tra- sforma in elegia e finisce in un singulto. .... Ahi dal dolor comincia o nasco Lutalo canto. £ pur mon affava e morde 11 mal chu n'addolora Dol tedio chu n'aiVo^u. GLI IDILLI, LA CANZONE AL MAI KC. 157 Che giova l'avere scoperto un nuovo mondo V II vero, appena trovato, c'impedisce le care immagina- zioni : .... Ahi ahi, ma conosciuto il inondo Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto L'etra sonante e l'ahna terra e il mare Al fanciuUin, che non al saggio, appare. Cacciati in bando i felici errori, che in età meno ti;iste fecero bella la vita, che cosa rimane? Il certo e solo Veder che tutto è vano altro che il duolo. Questi disperati pensieri, i quali fanno uno strano contrasto con lo scopo della canzone, non impediscono al poeta di concludere: scopritor famoso. Segui ; risveglia i morti. Poi che dormono i vivi; arma le spente Lingue de' prischi eroi ; tanto che in fine Questo secol di fango o vita agogni E sorga ad atti illustri, o si vergogni. Che cosa importa al lettore della contradizione del poeta? Guadagnato dall'entusiasmo di lui, non ha il tempo né la voglia di ritìettere e di ragionare. E chi vuol ragionare, se pensi alla teoria del Leo- pardi sulle illusioni, ch'egli riguarda come cose so- stanziali e reali (teoria non ancora esposta e ragionata in ogni sua parte, ma che trovasi in germe nella can- zone stessa), dovrà riconoscere che quella contradi- zione è più apparente che vera. Più volte il Leopardi, parlando al Giordani dei generi letterari che mancavano ancora, in tutto o in parte, all'Italia (vedi lettere del 20 marzo 1820 e 158 CAPITOLO Vili. del 6 agosto 1821), nomina fra gli altri il drammatico, con manifesta intenzione di fare anche in esso le sue prove. E forse le stava facendo, o le aveva già fatte mentre scriveva : ma di quelle prove non giunsero a noi che alcuni abbozzi e frammenti nelle carte napo- letane. Dopo la tragedia fanciullesca Pompeo in Egitto, il giovane poeta era tornato alla poesia drammatica nel 1816, cominciando il 30 di luglio una Maria An- tonietta, della quale scrisse pochi versi (non belli) della prima scena dell'atto primo, e pochi appunti in prosa, abbastanza informi, di alcune scene degli atti quarto e quinto. Ciò che di più interessante intorno a questa tragedia è rimasto nelle carte del poeta è l'appunto, riferito nel capitolo precedente, di una can- zone in musica senza parole, da mettere in bocca a Maria Antonietta. Qualche anno appresso pensò una Ifigenia, tragedia o dramma, che doveva finire con la morte della fanciulla; gittò in carta l'abbozzo di alcune scene drammatiche d'argomento cavalleresco, Erminia ; e cominciò un dramma d'argomento ro- manzesco, Telcsilla. Della Ifigenia non rimane nelle carte dell'autore altro che la indicazione del proposito di scriverla; ùeW Erminia e della Telcsilla ò cenno in quel mano- scritto del Leopardi intitolato Supplemento generale a tutte le mie carte, di cui diede primo notizia il Sainte- licuve, che fu in parte pubblicato da Emilio Teza e da me.* Il Supplemento non potò essere scritto, come ragionevolmente opinò il Sainte-Beuve, che poco dopo il 1819; non più tardi, credo, del 1820.* Gli abbozzi così dell' /sVmmt'a, corno della Telcsilla^ sono natural- mente anteriori; ma mentre doU' isVmm/'tt il poeta ' Nel citato volume Le optrtltt morali di Giacomo Ltopardi; Livorno, Vigo, 1870, a pag. 008 e nog. • VimII il mio Mcritto / ttntatioi dvainmatiet di Oiaeomo L«o- jtardi, pubtjlicalo iiulln Nuova Anloloi/lu (fniic. 16 aprile 1001). GLI IDILLI, LA CANZONE AL MAI EC. 159 non lasciò che l'abbozzo, della Teìesilla distese in Tersi (endecasillabi sciolti) tutta la prima parte e il prin- cipio della seconda. Oltre queste parti verseggiate, esistono nel manoscritto alcuni appunti informi e con- fusi concernenti tutto il dramma. Le parti verseg- giate dovettero essere scritte dopo il Suppìetnento, ma non molto dopo; crederei non oltre la metà del 1821. L'argomento deìV Erminia è tratto dalla Gerusa- lemme. L'abbozzo, misto di prosa e di versi, ma scritto tutto di seguito come prosa, comincia con un dialogo in versi fra Erminia e Vafrino, scudiero di Tancredi, che accompagna la donna alla casa del pastore, pro- mettendole che il giorno di poi sarebbe tornato a pren- derla per condurla da Tancredi. Il pastore accoglie amorevolmente Erminia, la quale racconta ad esso la sua storia e gli domanda notizie del combattimento fra Argante e Tancredi. Sopraggiungono alcuni sol- dati portando Tancredi ferito e svenuto. Erminia si manifesta a lui ; dopo di che deliberano di avviarsi tutti insieme a Gerusalemme, dove il giorno dipoi si deve combattere. Il componimento doveva avere de- gli intermezzi cantati, parte dai figli del pastore, parte da Erminia. L'argomento della Teìesilla è cavato, come notò già il Carducci, dal Girone Cortese dell'Alamanni.' Nel poema la dama di Maloalto, moglie di Danaino, è innamorata di Girone, il fido amico di suo marito. Girone, che non vuol tradire l'amicizia, conforta la dama a mantenersi fedele al dover suo : ma una volta, trovandosi solo con lei, in un momento di debolezza, sta per cedere alla tentazione del peccato; si ravvede però in tempo, e in un accesso di disperazione si tra- passa il petto con la spada. Trasportato al castello di Maloalto, è curato amorevolmente da Danaino e dalla dama, guarita oramai della sua funesta passione. ' Vedi Carducci, Degli spiriti e delle forme ec., pag. 60. 160 CAPITOLO Vili. Fondamento al dramma leopardiano è l'amore di Girone e della dama di Maloalto, Telesilla ; ma le cir- costanze del fatto sono sostanzialmente cambiate, tanto che gli amanti cedono alla passione, e l'amore finisce tragicamente. Il dramma doveva, pare, avere due parti : perso- naggi della prima, la sola compiuta, sono, oltre Gi- rone, Danaino e Telesilla, due pastori, una pastorella, e la madre di lei. I due giovani pastori e la pastorella sono nel bosco a pascere le pecore. Minaccia di piovere, e vogliono ricondurre il gregge al coperto ; ma è una nuvoletta che passa, e fa più fresca la pastura ; si trattengono e giuocano a chi primo colga d'un sasso il tronco di un albero. A un tratto giunge un cavaliere armato in sella ; hanno paura e van per fuggire : è Danaino che dice all'un d'essi: — Fermati e non temere; queste armi non fanno male ai pastori, ma soltanto ai nemici. — E lo avverte che fra poco dovranno passare un gio- vane guerriero ed una donna, sua moglie e l'amico suo: dica loro ch'egli ha ritrovato uno dei nemici e l'ha ucciso, che ora va per ispacciar l'altro, e poi tornerA. alcastello di Maloalto, dove li attende. Quando il guerriero si è allontanato, i pastori si mettono a gara a raccogliere i funghi che la recente pioggia ha fatto spuntare, fincììò viene la massaia che li invita a tor- nare a casa. Partiti i pastori, viene Girone in compagnia di Te- lesilla, che Dannino ha lasciata in custodia a lui, per- chè glie la rimcni a casa, mentre egli va in corca dei suoi nemici. Attratto dalla amenitA. del luogo, (Ji- rono propone alla dama di riposarsi un poco sul- l'erba, giacché Maloalto i>, vicino; o poiché olla mo- stra aver paura della solitudine del luogo, egli la rassicura dicendolo che nessuno può farlo oltraggio finché ii in compagnia di lui, il quale sarebbe lieto di dare per lei la vita e il sangue. GLI IDILLI, LA CANZONE AL MAI EC. 161 Queste parole danno occasione ad un dialogo d'amo- re, che occupa tutta la prima parte del dramma. Gi- rone e Telesilla si amavano in segreto, ma finora nessuno dei due aveva manifestato all'altro l'amor suo; Girone anzi temeva di non essere corrisposto; ed ora quando, da una parola sfuggita a Telesilla, si accorge che il suo timore era vano, vuol sapere da lei quando e come cominciò ad amarlo; ed essa gli narra che ciò avvenne ad un torneo, dove egli fece mirabili prove di valore. Egli le risponde: Io quanto oprai Quel dì, per te l'oprai, nò cosa alcuna Ebbi tuttora in mente, altro che quindi Aver tu mi dovessi in qualche pregio, E que' sudori e que' perigli estremi E quel mio sangue ti movesse alquanta Compassion di me. Poi segue dicendo tutto ciò ch'egli sentì e provò mentre combatteva, guardando lei sola ed occupato soltanto di ciò ch'ella avrebbe pensato di lui. E con- chiude : Anima mia, Quando i' sarò lontano, e fra disagi E fra perigli sempiterni, e '1 mio Cordoglio struggerammi, avrai tu nullo Pensier di questo sfortunato ? TELBSILLA. Oh mai Non favellar così. Ma forse in breve Se' per lasciarmi ? GIKOKE. E forza, e immantinente Come t'ho ricondotta a Maloalto. TELESILLA. Oimè dunque sì tosto? Chiarini, Leo^). U 162 CAPITOLO Vili. GIEOKE. cara, al pianto Siam prodotti ambedue. Non ci vedremo Forse mai piìi: ben certa cosa è questa Che '1 dolor nostro non avrà mai fine, E che non troverem di questa sorta Un'altra occasion. Parca che '1 fato N'avesse qui congiunti a bella posta. Seguono pochi altri versi, che lasciano capire come i due amanti stanno per cedere alla tentazione del peccato, e con essi finisce la parte prima. Della seconda il poeta non compose che il prin- cipio, poco più di una quarantina di versi. Due cacciatori, sul far del giorno, prima che spunti il sole, attendono alla caccia dei lupi. Girone, che dor- miva dietro alle piante, si desta al rumore ch'essi fanno, e dice: io deggio Aver dormito. Oh tristo me che feci? Che feci? ed esce, e si rimprovera acerbamente e si dispera per il peccato commesso. Qui termina la parte verseggiata del dramma. Nel manoscritto seguono ad essa cinque foglietti di ap- punti, parte in versi parte in prosa, ma scritti tutti di seguito come prosa; senza nessun ordine, senza nessun legame fra loro, senza nessun accenno allo svol- gimento del dramma. (ìli appunti si riferiscono così alla parte di questo giù, fatta, corno a quella che re- stava da faro. Se da essi non ò dato ricnvaro (|ii!ilo doveva essere nella mente del poeta il resto (1( 1I;l azione in tutti i suoi particolari, si può da (luaiclio appunto indovinarne qualche cosa e indovinare l.i chiusa. Par*' •lic. iiiciili-c rli ;un:uill si (lc-l,i\ ,11111 ;iir;il1»;i nella f(ti> l.i •- ili-'|tiit;u:ui<) ir:i loro (ire:! il Iuiu.ik; no a Maloalto, Danaino fosso uscito, sia per corcarli, GLI IDILLI, LA CANZONE AL MAI EC. 163 sia per cercare il secondo nemico, che non aveva an- cora rintracciato. Lo trova, e mentre sta combattendo con esso, Telesilla ode la voce di lui, ne rimane for- temente turbata, e in cuor suo sente desiderio che egli non vinca, ma dice a Girone : certo ch'ei vincerà, elle nessuno gli resiste neirarmi fuor di te solo. Da- naino, come s'è spacciato del nemico, trova i due amanti, e fatto certo della loro infedeltà, trafigge la donna, e sfida a duello Girone, dal quale rimane uc- ciso. Allora Girone disperato uccide sé stesso. Che il dramma dovesse terminare così, sembra po- tersi dedurre da queste parole di un appunto messe in bocca a Girone: È morta Telesilla? e Danaino E morto? Danaino? ed io l'uccisi? Quel Danaino? Oimè che fatto è questo? Io mi sento affogar. Danain, Telesilla, anch'io m'uccido. A questi versi seguono nell'appunto questi altri, che probabilmente dovevano essere pronunziati da uno dei pastori, dei cacciatori, stato testimone della orribile tragedia : Io son tutto di ghiaccio, e non mi reggo Dallo spavento. Io vo' fuggir, se mai Sopraggiungesse alcuno, e discoprisse Com'io sì da vicino ho visto il tutto. Anche nella seconda parte del dramma dovevano ricomparire i pastori. E ci doveva essere qualche loro canto in rima, di cui è cenno negli appunti. Quando il poeta immaginò la Maria Antonietta, aveva diciotto anni ; e per quanto la sua salute fosse già rovinata, il pensiero della sua infelicità non aveva 164 CAPITOLO Vili. — GLI IDILLI EC. ancora interamente occupato l'animo suo, sì ch'egli non potesse volgere la mente ad argomenti in tutto fuori di sé, e trattarli oggettivamente. S'egli avesse seguitato allora ad esercitarsi nella poesia drammatica, chi sa che da quel suo mirabile ingegno, aperto ad ogni voce antica e moderna del- l' umanità, sensibilissimo ad ogni impressione della vita e della natura, appassionato dell'arte, desideroso di cose nuove, non si fossero sprigionate faville ca- paci di dare all'Italia quel teatro drammatico che ancora le manca! Qualche anno dopo, anche nel 1821, allorché scrisse al Giordani, era tardi. Oramai i casi della vita avevano chiuso l'animo di lui ad ogni altro sentimento che non fosse quello della infelicità sua, della infelicità umana. Girone nei versi che ho riferiti parla come il poeta alla donna del Sogno, come parlerà più tardi Con- salvo ad Elvira. li