Questo testo è incompleto. |
◄ | Capitolo XI | Capitolo XIII | ► |
223 Capitolo XII. I^ * OPERETTE MORALI. » 1823-1824. Sommario: Ritorno a Recanati. — Lettera al Jacopssen. — Cor- rispondenza col cugino Melchiorri. — Studi nello Zibaldone. — Stampa delle Canzoni. — Composizione delle Operette mo- rali. — Idee dell'autore intorno al ridicolo e alla satira. — La prosa moderna vagheggiata dal Leopardi. — La materia delle Operette morali. — Ordine e tempo della loro prima com- posiziono. — La Storia ilei genere umano e i primi dialoghi. — La commedia si muta in tragedia. — La Scommessa di Prometeo e il Dialogo della Natura e di un Islandese. — Va- rietà delle altre prose. — Cristoforo Colombo e il Leopardi. — Una nota gioconda nella lugubre sinfonia delle Operette morali. Giacomo vedeva con pena avvicinarsi il giorno della sua partenza per Recanati. Per quanto nelle lettere ai suoi avesse detto male dei Romani e di Roma, per quanto desiderasse di rivedere Carlo e Pao- lina e il resto della famiglia, non poteva non sentire la differenza grande fra la vita libera e distratta che aveva condotto presso gli zii e quella terribilmente uniforme ed uggiosa che avrebbe dovuto riprendere in casa sua ; né le lettere del fratello e della sorella erano fatte per incoraggiarlo a tornare; anzi nem- meno quelle del padre, il quale agli 11 d'aprile del 1823 gli scrisse : < Il sentirvi prossimo a ritornare mi col- merebbe della più sincera compiacenza, se non dovessi credere che l'allegrezza mia andrà accompagnata da qualche vostro cordoglio per la infelicità di questo sog224 CAPITOLO XII. giorno. > ' E fino dai primi tempi che Giacomo era a Roma gli aveva una volta scritto : < Siete libero nel- r invitare qualunque vi piaccia e giudichiate capace di diradare, almeno per pochi momenti, l'opacità del no- stro soggiorno. La mamma vostra potrà talora im- bruttirsene; ma può darlesi questo piccolo dispia- cere. >■ Un soggiorno che Monaldo chiamava opaco doveva essere a dirittura tenebroso. Giacomo, rispondendo al padre, non gli nascondeva che il piacere di tornare in famiglia gli era amareg- giato dal pensiero di cambiare la vita distratta di Roma con la solitudine del paese natale. < Mi farei difficilmente credere, se dicessi che il soggiorno di Recanati per sé medesimo mi sia più grato che il sog- giorno di Roma. > < Io sotto naturalmente inclinato, sog- giungeva, alla vita solitaria; ma ho veduto per espe- rienza che nella solitudine rodo e divoro me stesso.^ > Il 3 maggio rientrava in Recanati, e il giorno dopo scriveva una lettera allo zio Antici per ringra- ziarlo dell'ospitalità, ed una al cugino Melchiorri in- caricandolo de' suoi saluti agli amici e conoscenti di Roma, specialmente al cav. Marini, per il quale gli raccomandava l'affare di Paolina. Alcuni giorni dopo mandava al Melchiorri un articolo già promesso al De Romanis per le sue Effemeridi ; articolo che il Be- nedettucci crede sia la recensione i\e\V Iliade d'Omero volgarizzata da Michele Ijconi, pubblicata nel qua- derno del giugno 1823, e da esso Renedettucci ri- stampata nelle suo Spigolature leopardiatie. Al Me- stica e a me non pare possibile che quella recensione sia del Leopardi. Se Giacomo tornato a casa si volse indietro a con- siduraro il lavoro letterario da lui fatto nei cinque ' iMtért aeriitt a Oiaeomo Leopardi dai tuoi pai-ftili, png. 107. » Idom, pAg. 68. • Kp ini ola rio, voi. I, png. 488, 489.
- Giacomo Lbopaedi, Seritti tdiii tconoteiitti. HpigolAturo di
Clomonto HonodetluecI; Reoannti, Simboli, 188C, png. 118 o sog. LE < OPERETTE MORALI. > 225 mesi della sua dimora in Roma, avrà dovuto ricono- scere che esso era ben poca cosa; anzi come lette- ratura era niente. Oltre i due articoletti sul Filone dell'Aucher e sulla Ttepulhlica di Cicerone ritrovata dal Mai, pubblicati nelle Effemeridi letterarie di Roma degli ultimi del 1822, egli non avea fatto altro che com- pilare il catalogo dei codici greci della Biblioteca Bar- berina, e trascrivere nella biblioteca stessa un fram- mento ignorato della orazione di Libanio ùnè? -cfiv tepwv, con la intenzione di pubblicarlo in Germania; di che avea già parlato col Niebuhr. Se non che il Mai, levandoglielo quasi di mano, lo pubblicò prima lui. Giacomo se n'ebbe molto a male; credè che il Mai gli avesse voluto fare un dispetto; e da quel mo- mento non volle più avere intrinsichezza con lui. Non volle nemmeno mandargli le Annotazioni aH'Eusebio,^ quando nel dicembre furono pubblicate le copie a parte; e più tardi parlando di lui aflFermò ch'egli, come il Mezzofanti, doveva la porpora al gesuitismo, non alla filologia. Dissi nel capitolo innanzi che il Leopardi nei primi tempi che fu a Roma, veduto l'ambiente poco favo- revole, smise forse l'idea di stampare le Canzoni. Ma poi, passato qualche tempo, mutò pensiero e le pre- sentò alla Censura, la quale, contro ciò ch'egli si aspet- tava e gli altri gli predicevano, diede il permesso di pubblicarle; ma mentre forse andava pensando di mettere mano alla stampa, dovè partire da Roma e abbandonò per allora quel pensiero. ♦ * Fra gli stranieri conosciuti dal Leopardi a Roma l'unico forse col quale potè parlare di letteratura e di filosofìa, fu un signor A. Jacopssen di Bruges nei • Vedi Epistolario, voi. I, pag. 530. CniAniNi, Leojj. jr 226 CAPITOLO XII. Paesi Bassi. Dovè conoscerlo in casa Cancellieri, o dagli zii. Se la lettera n° 228 àéìV Epistolario è diretta a lui, come suppongono gli editori, e pare probabile, Giacomo il giorno dopo averlo conosciuto gli mandò in dono le sue prime tre Canzoni; e quando egli fu partito da Roma, gli scrisse una lettera in francese, affettuosa ed espansiva, che lo raggiunse a Ginevra. A giudicare dalle due lettere successive che gli amici si scambiarono (le sole che ci sono note) c'era fra loro molta conformità di sentire e di pensare. Incli- nati tutti due alla malinconia, erano tutti due idea- listi e pessimisti. Con la lettera sopra accennata Giacomo aveva scritto all'amico che, dopo avere passato la prima gio- ventù senza mai applicarsi all'arte di godere della vita, finalmente aveva cominciato ad istruirsi nell'arte di non soffrire. Sul quale argomento il Jacopssen ri- spondeva: < J'aime infiniment à considérer le bonheur 80US ce point de vuc; car si le bonheur essentielle- ment négatif prive de toute jouissance, de tonte émo- tion profonde, il rachète par la durée ce qui manque à son intensité passagòre. >' Anche egli, fatta espe- rienza degli uomini e della vita, nella quale aveva pure provato quei godimenti che al Leopardi erano stati sempre interdetti, e pensando all'esistenza uniforme monotona che, tornando al suo paese, gli si apriva dinanzi, diceva: < Je deviens sauvage, ours; jo re- cherche la solitude ; mcs livres si favoris, mes pro.jets si nombreux, mcs espérances aux couleurs do pourpre ot de rose, tout s'cffaco, tout so d^^pouillo d'appas et de charmcs; cn véritó quand on y róllóchit, l'hommo est bien fou d'aimor si obstinóment cetto existence si pleine d'cnnuis, de dégoùts et do déboiros. > K con- cludeva: < Ics fitros organisÓH lo plus unifonnément heurcux sur ce mondo sont positivcmcnt ceux qui • KpMolario, Tol. I, pRg. 4WJ iti notn. LE < OPERETTE MORALI. > 227 ont le iiioins de sensibilité et qui analysent le moiiis les élénients du bonheur. >' Scrivere queste cose al Leopardi era invitarlo a quelle riflessioni, a quei ragionamenti, ch'erano la sostanza intima di tutto 1' essere suo : e rispose la bellissima lettera del 23 giugno 1823, eh' è la 25G (ÌGÌV epistolario. Giova riferirne almeno due passi. < Sans doute, mon cher ami, cu il ne faudrait pas vivre, ou il faudrait toujours sentir, toujours airaer, toujours espérer. La sensibilité ce serait le plus pré- cieux de tous les dons, si l'on pouvait le faire va- loir, ou s'il y avait dans ce monde à quoi l'appli- quer. Je vous ai dit que l'art de ne pas soufi'rir est maintenant le seul que je tache d'apprendre. Ce n'est que précisément, parce que j'ai renoncé à l'espé- rance de vivre. Si dès les premiers essais je n'avais été convaincu que cette espérance était tout-à-fait vaine et frivole pour moi, je ne voudrais, je ne con- naitrais mème pas d'autre vie que celle de l'enthou- siasme. > L'insegnamento che balza fuori da tutta la lettera si riassume in queste parole : < Je conviendrai, si l'on veut, que la vertu, comme tout ce qui est beau et tout ce qui est grand, ne soit qu'une illusion. Mais si cette illusion était commune, si tous les hommes croyaient et voulaient étre vertueux, s'ils étaient com- patissans, bienfaisans, généreux, magnanimes, pleins d'enthousiasme ; en un mot, si tout le monde était sensible (car je ne fais aucune diftérence de la sen- sibilité à ce qu'on appelle vertu), n'en serait-on pas plus heureux ? Chaque individu ne trouverait-il pas mille ressources dans la société? Celle-ci ne devrait- elle pas s'appliquer à réaliser les illusions autant qu'il luì serait possible, puisque le bonheur de l'homme ne peut consister dans ce qui est réer?> ' Epistolario, voi. I, pag. 452. 228 CAPITOLO XII. Questi pensieri sulle illusioni sono una parte so- stanziale della filosofia del Leopardi, sono, direi quasi, la parte complementare e correttiva di essa, ed an- nunziano in certo modo la magnanima e consolante dottrina di un affratellamento universale degli uomini, con la quale egli la suggellò nella Ginestra. Nei cinque mesi passati in Roma il Leopardi scrisse appena ventisette pagine dello Zibaldone; nei rima- nenti mesi del 1823 ne scrisse 877. Anche ciò dimo- stra quanto la sua vita in Roma fosse diversa da quella di Recanati. Qui, mancando d'ogni distrazione, pas- sava tutto il tempo a studiare e meditare. Con la lettera al Jacopssen, di cui ho riferito due passi, scriveva: < Je vis ici comme dans un ermitage;mes livres et mes promenades solitaires occupent tout mon temps. Ma vie est plus uniforme que le mouvement des astres, plus fade et plus insipide que les parole de notre Opera. > E al Giordani : < Non ti nego che questa mia sepoltura non mi riesca alquanto più mo- lesta di prima, specialmente perch'io non ci ho quella libertà che ho sperimentata fuori di qui per alcuni mesi. >' Ciò lo induceva a fare sollecitazioni per T im- piego, del quale voleva persuadere a so stesso di non avere ancora perduto ogni speranza. Scrisse nell'ago- sto al cardinale Consalvi, rammentando le promesse fatte al Niebuhr, e raccomandandosi con una umiltà di espressioni che a leggerlo fa male ; e scrisse quasi contemporaneamente al iJunsen pregandolo di interessarsi per lui.* Più tardi fece nuove pratiche presso il IJunsen stesso e il cardinale Guerrieri Gon- zaga per ottenere un posto di cancelliere del Censo, indicando al liunsen quello di Urbino rimasto allora vacante. Tutto invano.'
- KpUtolario, voi. I, pftg. 466.
- Idom, pag. 408, 469.
- Idem, png. 486, 604 o 606. LE « OPERETTE MORALI. > 229
Fuori della Canzone Alla sua donna, di lavori pro- priamente letterari il poeta negli ultimi otto mesi del 1823 non fece altro che il volgarizzamento della Satira di Simonide sopra le donne, e di alcuni versi morali dal greco.' Ma scrisse anche, come ho detto, 877 pagine dello Zibaldone, che rappresentano un la- voro intellettuale notevolissimo. Le poche pagine scritte nei cinque mesi di Roma sono quasi unicamente note ed osservazioni sulla lin- gua latina, la maggior parte brevi ; molte sopra luo- ghi di Cicerone. Anche nelle moltissime di Recanati, benché il Leopardi scrivesse al Niebuhr, che aveva rinunziato quasi interamente agli studi filologici^ i quali non si possono coltivare in un paese privo affatto di codici e di buone edizioni de' classici, abbondano, anzi tengono la parte principale, le osservazioni intorno alle lingue. In generale sono lunghe; ce n'è delle lunghissime, sulla lingua greca, sulla latina, sulla ita- liana, sulla francese, sulla spagnuola, sulla tedesca, sui diversi caratteri, sulle somiglianze, le differenze, le relazioni delle une colle altre, sull' origine e la de- rivazione dei linguaggi. Si capisce che molte di queste osservazioni erano materiali che l'autore seguitava a raccogliere per quella sua opera sulle lingue, alla quale accennai in fine del capitolo IX. E se non si possono dire veri e propri studi filologici nel senso che intendeva il Leopardi, perchè spesso hanno carat- tere letterario e filosofico, anche la filologia ha in esse non poca parte. Vi sono poi in quelle 877 pagine considerazioni e pensieri di filosofia morale, di religione, o meglio
- Questi versi rimasero inediti nelle carte napoletane, ora
in corso di stampa. 230 CAPITOLO XII. sulle religioni, dissertazioni sulla letteratura in gene- rale, sulla poesia, sui poemi; osservazioni di storia, di politica, di estetica, di arte, tutte di grande im- portanza. Da qualcuno di quei pensieri si può indovinare che l'autore andava meditando le Operette morali. Ma prima di mettervi mano volle pubblicare le Can- zoni, Egli aveva oramai sentito la inferiorità delle due Per donna malata e Su lo stranio; per ciò, lasciate queste da parte, deliberò di raccogliere, insieme con l'ultima Alla sua donna, le sei che aveva composte innanzi, e le tre prime mandate fuori nel 1818 e nel 1820, dieci in tutto; e di unirvi le Annotazioni e la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e Teofrasto vicini a morte. Invece che a Roma, risolvè di stamparle a Bologna, e sulla fine d'ottobre scrisse al Brighenti, chiedendogli qualche notizia intorno alla spesa. Avute le notizie, ed accettate, dopo brevi trat- tative, le condizioni dello stampatore, ai 5 dicembre mandò il manoscritto e le istruzioni per la stampa, e il 15 maggio del 1824 i quaranta scudi, prezzo con- venuto per cinquecento copie del libretto. S'intende che Monaldo non doveva saper niente di questa edi- zione; perciò Giacomo raccomandò caldamente al Bri- ghenti clie i fogli del libro, i quali dovevano essorfj:li mandati j)rima che fosse legato, per potervi faro l'errata-corrige, fossero spediti a lui sotto il nome del signor Alberto Popoli. La stampa cominciò nel luglio e fu finita nel settembre. Il 25 ottobre Giacomo mandava M copio delle Can- zoni al cugino Mclchiorri a Roma, perdio lo distri- buisse agli amici di là, alcune secondo le indicazioni da lui dategli, altro a piacer suo; ma lo i)regava di non darne nessuna al Marini, di non dargliela almeno a nome suo. S'era avuto a malo delia condotta da lui tenuta circa il divisato matrimonio con la Pao- lina, sopra tutto che non avesse risposto ad una sua LE < OPERETTE MORALI. > 231 lettera. < Si risponde, diceva, anche ai villani, e io non sopporto chi mi manca di quel che è dovuto a tutti. > Una delle prime notizie ch'ebbe dal cugino in- torno all'incontro delle sue Canzoni fu questa, che gli Arcadici ne avevano detto male. E rispondeva : < Ti assicuro che io provo sempre un gran piacere quando sono informato del male che si dice di me. Del resto poi, se gli Arcadici abbiano ragione o torto, giudicherà il pubblico. >' La salute del Leopardi dopo il ritorno da Roma fu abbastanza buona fin quasi alla tine del 1824; * tanto che egli potò dedicare tutto quell'anno alla com- posizione delle Operette morali concepite tre anni in- nanzi. Rammentiamoci che il 4 settembre del 1820 aveva scritto al Giordani: < In questi giorni, quasi per ven- dicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho im- maginato e abbozzato certe prosette satiriche. > Que- ste parole indicano non solo l'origine delle Operette morali, ma anche lo spirito col quale furono concepite. Pochi mesi innanzi egli aveva scritto al Brighenti: < In ventun anno, avendo cominciato a pensare e sof- frire da fanciullo, ho compito il corso delle disgrazie d'una lunga vita, e sono moralmente vecchio, anzi decrepito, perchè fino il sentimento e l'entusiasmo, eh' era il compagno e l'alimento della mia vita, è di- leguato per me in un modo che mi raccapriccia. >' Da questo tempo in poi egli, come abbiamo veduto, andò d'anno in anno, di mese in mese, rassegnan-
- Epistolario, voi. I, pag. 528.
- Vedi Epistolario, voi. I, pag. 516.
3 Epistolario, voi. I, pag. 265. 232 CAPITOLO XII. dosi alla fortuna, rinunciò alla speranza di vivere, studiò l'arte di non soffrire, si trasformò di Era- clito in Democrito, ma in un Democrito che, men- tre ride, ha nella voce e negli occhi il pianto della disperazione. Questo stato dell'animo suo si sente nelle Canzoni composte dal 1820 al 1822, si sente nelle lettere. Qualcuno ha creduto ch'egli cominciasse subito dopo il 1820 a scrivere qualcuna delle Operette mo- rali, e che vi lavorasse con gran lena nel 1821 e nel '22. Invece è certo che non ne scrisse nessuna prima del 1824. Tutto ciò che di relativo ad esse fece prima di quell'anno sono gli abbozzi di pro- sette satiriche, accennati al Giordani nel settem- bre 1820, e il Disegno di diàloghi satirici alla ma- niera di Luciano, del quale parlai nel capitolo IX : ma di quel disegno scrisse il 6 agosto del 1821 al- l'amico che fino allora non aveva colorito niente.' Che le Operette morali furono tutte composte nel 1824 lo dichiara l'autore stesso nella notizia pre- messa all'edizione napoletana del 1835.* E se ciò non bastasse, abbiamo nelle carte napoletane il mano- scritto autografo di esso, nel quale ò notato di cia- scuna il giorno in cui fu cominciata e quello in cui fu finita. La prima fu cominciata il 11) gennaio 1824, l'ultima fu finita il 16 novembre dello stesso anno. Ma se tutte furono composto in quell'anno, ebbero però nella mente dell'autore una lunga preparazione nei quattro anni precedenti, corno appare da alcuni accenni nelle lettere e dai Pensieri dello Zibaldone, tra i quali ò importantissimo questo del 27 luglio 1821, col quale l'autore spiega gl'intendimenti della sua satira, o di che genere fosso il ridicolo ch'egli vo- leva adoperare in essa.
- Vodi Kphlolarh, voi. I, pag. 341.
• Vo<llIft in Scfitll UtUrarl di diacomo Ltopardl por cura di 0. Montica; voi. II, pag. 880. LE < OPERETTE WXJRALI. > 233 < A volerò che il ridicolo primieramente giovi, se- condariamente piaccia vivamente e durevolmente, cioò la sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualche cosa di serio e d'importante. Se il ridicolo cade sopra bagattelle e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giova, poco diletta e presto annoia. Quanto più la materia del ridicolo è seria, quanto più importa, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il contrasto ec. Ne' miei dialoghi io cer- cherò di portar la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii fondamentali delle calamitA, e della mise- ria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia, l'andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le di- sgrazie e le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell'uomo, lo stato delle nazioni ec. E credo che le armi del ridi- colo, massime in questo ridicolissimo e freddissimo tempo, e anche per la naturai forza, potranno giovare più di quelle della passione, dell'aft'etto, dell'imma- ginazione, dell'eloquenza, e anche più di quelle del ragionamento, benché oggi assai forti. Così a scuo- tere la mia povera patria e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell'affetto e dell'entusiasmo e dell' eloquenza e dell' immaginazione nella lirica e in quelle prose letterarie ch'io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica, della filosofia nei trattati filosofici ch'io dispongo; e le armi del ri- dicolo ne' dialoghi e novelle lucianee eh' io vo pre- parando. >' Ciò che il Leopardi espone in questo pensiero giova a bene intendere e giudicare non solamente le sue satire in prosa, cioè le Operette morali, ma anche » Pensieri di varia filosofia ec, voi, III, pag. 133, 134, 234 CAPITOLO XII. quelle in verso, cioè la Palinodia e i Paralipomeni, come vedremo a suo tempo. Il modo come furono composte e la loro lunga pre- parazione dimostra, secondo me, che le Operette mo- rali non sono, come può parere a prima vista, e come parve a taluno, una raccolta di scritti varii, non aventi un intimo e stretto legame fra loro ; sono invece, come volle l'autore, un'opera organica nel suo complesso e nelle sue parti, nell' ossatura dei pensieri e nella va- rietà della forma; e sono anche un'opera d'arte, come le poesie, anzi sono in parte esse stesse poesia. Il Leopardi, essenzialmente poeta, fu poeta anche nelle prose, vuoi per le invenzioni, vuoi per il ritmo delle frasi e dei periodi. Le Operette morali sono come un intermezzo fra le prime poesie e le ultime. Dopo avere mostrato cogli Idilli e con lo Cannotti che cosa poteva nella poesia propriamente detta, il Leopardi volle, componendo le Operette morali, met- tere in atto il suo ardito e superbo proposito, di dare all' Italia quella prosa che, secondo lui, le mancava, una prosa dove la lingua e lo stile essendo classico e antico paresse moderno, e fosse facile a intendere e di- lettevole così al vohjo come ai letterati.^ Datosi dopo la relaziono col Giordani alla lettura assidua degli scrittori nostri dei tempi migliori, o tro- vatosi (ino ud un cerio punto d'accordo coll'amico noli' idea che la perfetta prosa italiana dovesse cer- carsi noi connubio della lingua dei trecentisti con lo stile greco, quando per lo studio largamente fatto sugli scrittori delle tre grandi letterature si sentì pa- drone della lingua e dello stile giudicò di potersi ci- I V«di SpMeiarlo, voi. I, pug. 260. LE < OPERETTE MORALI. > ^o.'j meritare alla creazione di quella prosa ; e vi si cimentò seguendo i criteri da lui esposti nei Pensieri dello Zibaldone accennati da me in fine del capitolo X. In un certo momento parve aver sentito che qual- che cosa di più bisognava alla piena riuscita del suo intento, studiare cioè la lingua, oltre che ne- gli scrittori, sulla bocca del popolo. Fino dal 1817, scrivendo al Giordani, gli aveva espresso il pensiero che, per divenire buon prosatore, oltre il molto eser- cizio e la molta lettura, fosse necessarissimo qualche anno di dimora in paese dove si parli la buona lin- ffìia, qualche anno di dimora in Firenze.^ Al che il Giordani rispondeva, dissuadendolo: < Non ci è paese in tutta Italia dove si scriva peggio che in Toscana e in Firenze; ed oltre ciò non è paese che parli meno italiano di Firenze. >* E il Leopardi, che capiva di non essere stato capito, ribatteva giudiziosamente, . spiegando meglio il suo pensiero : < Io faceva conto di imparare dagli idioti, o piuttosto di rendermi fa- migliare col mezzo loro quella infinità di modi volgari che spessissimo stanno tanto bene nelle scritture e quella proprietà ed efficacia che la plebe per natura sua conserva tanto mirabilmente nelle parole. > < Ma poiché Ella non crede, soggiungeva, che gli idioti fio- rentini mi possano insegnar niente di buono, mi acquieto alla sua sentenza. >* Del resto se il Leopardi, prima di scrivere le Ope- rette morali, non andò per qualche anno a Firenze, ciò non avvenne perchè egli si fosse veramente acquie- tato alla sentenza del Giordani, ma perchè non gli fu possibile. E fu gran danno: s'egli avesse potuto sodisfare quel suo desiderio, forse non mancherebbe alle sue mirabili prose quel po' di vivo e di caldo che vi si desidera. Il gelido delle Operette morali si attri-
- Epistolario, voL I, pag. 63.
- Idem, voi. Ili, pag. 96. » Idem, voi. I, pag. 77. 236 CAPITOLO XII.
buisce da alcuni alla materia, mentre dipende uni- camente dalla forma. Se a traverso quella materia fosse corso qualche fresco e puro zampillo di lin- guaggio parlato e ne fosse sparita qualche lieve af- fettazioncejla che anche dopo le sapienti correzioni posteriori vi è rimasta; se l'atteggiamento del pensiero e della espressione e il ritmo del periodo non fossero sempre modellati sopra i perfetti esemplari degli an- tichi ; se l'autore si fosse talora lasciato andare alla scioltezza e ad una certa sprezzatura del parlar fa- miliare, io credo che le Operette morali sarebbero la prosa italiana moderna per eccellenza. Proponendosi di scrivere con una lingua e uno stile che fosse classico e antico e paresse moderno^ il Leopardi si propose un impossibile. Lo riconobbe in certo modo egli stesso con queste parole dello Zibal- done: < Chi, scrivendo oggi, cerca o consegue la per- fezione dello stile, e procede secondo le sottilissime avvertenze e considerazioni dell' arte antica intorno a questa gran parte, e secondo gli esempi perfettis- simi degli antichi, si può dir con tutta verità, che scriva solamente e propriamente ai morti, non meno di chi scrive in latino, o di chi usasse il greco antico. > ' Forse il Leopardi volle dire che una perfezione di scrivere com' egli la ideava non sarebbe stata intesa e degnamente apprezzata dagli uomini del suo tempo; ma non ò per ciò men vero ch'egli con quelle parole accennava, forse non volendo, a quello ch'ò l'unico difetto della sua prosa. In quei cinque o sei anni dopo il 1817 che il Leo- pardi dedicò agli studi di lingua e di stile, si era ve- nuta da una parto lentamente compiendo la sua con- versione filosofica, maturando lentamente dall'altra la sua concezione pessimistica della vita e del mondo. I lugubri pensieri che durante quel periodo di inte-
- PétukH, voi. VII, pag. 170. LE < OPERETTE MOEALI. > 237
riore trasformazione avevano occupato la sua mente illuminato di fosca luce le sue Canzoni, ora ch'egli ricercava le forme della prosa, si andavano svolgendo e ordinando come a comporre una dottrina, si arma- vano di tutte le armi della dialettica, della satira, dell'ironia, per persuadere ch'essi erano la verità, ch'essi potevano dare la spiegazione del gran mistero dell'essere. La materia delle Operette morali è perciò trista, desolata, sconfortante; è quel che deve essere, cioè l'espressione sincera del concetto che l'autore si era formato degli uomini, della vita, del mondo. Non im- porta cercare se quel concetto sia vero, perchè il vero assoluto non esiste ; quel concetto era un modo tutto personale di vedere e giudicare le cose, fuso in una forma letteraria limpida e nuova, tutta personale an- ch'essa; e ciò costituisce l'originalità e l'importanza delle Operette morali. « « Le Operette morali nella loro prima composizione constano di venti piccole prose, tredici delle quali a dialogo; le altre narrative, dottrinali o fantastiche. Esse furono composte nell'ordine e nel tempo che qui appresso è indicato. L Storia del genere umano (dal 19 gennaio al 7 feb- braio 1824) ; II. Dialogo (VErcole e Atlante (10-13 feb- braio) ; III. Dialogo della Moda e della Morte (15-18 feb- braio) ; IV. Proposta di premi fatta dalT Accademia dei Sillografi (22-25 febbraio) ; V. Diàlogo di un Lettore di umanità e di Salhistio (26-28 febbraio) ; VI. Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo (2-G marzo) ; VII. Dialogo di 3Ialambruno e di Farfarello (1-3 aprile); Vili. Dia- logo della Natura e di un'Anima (9-14 aprile); IX. IHa- logo della Terra e della Luna (24-28 aprile); X. La Scommessa di Prometeo (30 aprile-8 maggio); XI. Dia238 CAPITOLO XII. logo di un Fisico e di tm Metafìsico (14-19 maggio); XII. Dialogo della Natura e di un Islandese (21-30 mag- gio) ; XIII. Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (1-10 giugno); XIV. Dialogo di Timandro e di Eleandro (14-24 giugno) ; XV. Il Parini ovvero della Gloria (6 luglio-13 agosto); XVI. Dialogo di Fe- derigo Buysch e delle sue mummie (16-23 agosto) ; XVII. Detti memorabili di Filippo Ottonieri (29 ago- sto-26 settembre) ; XVIII. Dialogo di Cristoforo Co- lombo e di Pietro Gidierres (19-25 ottobre) ; XIX. Elo- gio degli uccelli (25 ottobre-5 novembre) ; XX. Cantico del Gallo silvestre (10-16 novembre). Nella stampa fu leggermente mutato l'ordine de- gli ultimi novo componimenti : il Dialogo di Torquato Tasso e il Dialogo della Natura e di un Islandese, furono cambiati di posto, mettendo ciascuno dei due in quello dell'altro, e il Dialogo di Timandro e di Eleandro, che occupava il quattordicesimo posto, fu messo l'ultimo. La ragione di questa mutazione, che fu conservata in tutte le edizioni succedute alla prima, ò, quanto al Dialogo di Timandro, evidente, poiché in esso si contiene la difesa delle dottrine esposte nelle Operette morali. La Storia del genere umano, che si può considerare come l'introduzione del libro, ò una specie di allego- ria, la quale descrive per via di miti, tratti in gran parte dallo Metamorfosi d'Ovidio, lo vario etil del mondo; che sono quattro, come quello della vita del- l'uomo, r infanzia, la gioventù, la virilità, la vecchiezza. Queste ctA, rappresentano le vario trasformazioni del genere umano dallo stato selvaggio al vivere civile. In ciascuna dello dette età l'uomo ò infelice, perchò incontentabile, ed ò incontentabile, perchè la realtA, dello coso non può appagarlo; ma nella seconda etiY ò più infelice olio n(;lla prima, nella terza pii\ cho nella seconda, nella quarta è a dirittura infelicissimo. Il ohe ft quanto diro cho il progresso o la civiltA sono LE < OPERETTE MORALI. > 239 il maggior male dell'uomo, il quale era tanto meno infelice, quanto era più rozzo e ignorante. Nei primi quattro dialoglii e nella Proposta di premi l'autore comincia a mettere in pratica ciò che si era proposto col pensiero dello Zibaldone citato innanzi : trasporta il ridicolo alle cose serie e imi)or- tanti della vita. La leggerezza ed inerzia degli uo- mini, le sciocchezze e i danni del seguire la moda, la falsità degli amici, l'infedeltà delle donne, la non- curanza e il disprezzo della virtù e della gloria, la mancanza d'amor patrio, la sciocca superbia del cre- dere che il mondo e tutte le cose che in esso esi- stono siano state create a benefizio del genere umano, sono i vizi e i difetti contro cui rivolge i suoi strali. Col concetto della piccolezza dell'uomo e della infelicità necessaria di tutti i viventi i tre dialoghi che seguono (componimenti settimo, ottavo e nono) c'introducono nel vero mondo del pensiero leopar- diano, dove non si tratta più dei vizi e difetti de- gli uomini, ma dei principii fondamentali delle ca- lamità e della miseria umana, dove la commedia si muta in tragedia. A Maìamhnmo, mago, che prega Farfarello, uno degli spiriti infernali, di farlo felice per un momento solo. Farfarello risponde: Non posso; e non potrebbe neppure Belzebù in persona. k\V Anima che nascendo sente dalla Natura di essere condan- nata alla infelicità e ne chiede il perchè, la Natura risponde: Tutti gli uomini sono necessariamente in- felici, e tanto più infelici quanto è maggiore la loro eccellenza. Alla Terra, che sentendo la Luna essere in tante cose diversa da sé, le domanda se in lei i mali sono più dei beni, e se i suoi abitanti sono felici o in- felici, la Luna risponde che i mali sono infinitamente superiori, e che i suoi abitatori sono tanto infelici, ch'essa non si scambierebbe col più fortunato di loro. A illustrare e far quasi toccare con mano la ve- rità di queste sentenze seguono terribili La Scommessa 240 CAPITOLO XII. di Prometeo e, a breve distanza, il Dialogo della Na- tura e di un Islandese, dove la tragedia precipita spa- ventosamente al suo fine. — Oh dunque l'uomo è la creatura più perfetta dell'universo? — Venite e ve- dete: là, nel paese di Popaian, nel nuovo mondo, stanno intorno a un vaso di terra posto a un gran fuoco alcuni uomini, che cuociono, per mangiarsele, le carni dei loro figliuoli. — Ah dunque la vita è una bella cosa? è il miglior dono che il cielo potesse fare agli uomini? — Giudicatene : quell'uomo che è lì morto, con accanto i suoi due figliuoletti, era ricchissimo, stimato da tutti, aveva molto favore in corte, e per tedio della vita ha ucciso sé e loro, raccomandando ad un amico il suo cane. Tremenda la scena di quel povero Islandese, che avendo fuggito la Natura per cento parti della terra, e fuggendola ora per l'interno dell'Affrica, ad un tratto se la trova dinanzi sotto una forma smisu- rata di donna bella e terribile, che lo interpella: — Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita? — Il povero Islandese risponde con una terribile requisitoria, nella quale sono enu- merati tutti i fastidi, i pericoli, gli stenti, i danni, i dolori onde la Natura flagella in ogni parte del mondo il genere umano. La Natura osserva frcddamcte che essa non sa niente del male che fa agli uomini, che quelle tali azioni ch'ella fa, non le fa nò per nuocer loro nò per giovarli. Intanto sopraggiungono duo looni < così rifiniti e maceri dall'inedia, che appcn.i li.iinio forza di potersi mangiare quoH'Islandcso, come fanno. > Nei due scritti dei quali ho parlato l'autore ha messo come in azione la vita umana (|ii.il< v'j}\ lu vede; il ragionamento non ò che illustrazione dei fatti. Invece il Dialogo di un Fisim o di un Metafisico ò tutto ragionamento. Il Fi > ne clu; la vita ò un bene por so medesima, i. ìm;h .»> hi ralh ^m:i di Mvcr trovato l'arte di vivere lungamente; il M«t ili i ■ »LE < OPERETTE MORALI. > 241 stiene la tesi contraria, che cioè la vita è infelice, e perciò meglio è averla breve che lunga : il Fisico rap- presenta l'opinione comune, il Metafisico la filosofia dell' autore. Nelle altre prose c'è molta varietà di contenuto e di forma ; ed alcune di esse si collegano per un filo molto sottile al concetto generale che anima il libro, il qua! concetto ha, come dire il suo centro nella Scommessa di Prometeo e nel Dialogo della Natura e di un Islandese. Il Dialogo del Tasso è una disquisizione filosofica sul piacere e la noia; la quale disquisizione in ultima analisi concliiude a questo : che il piacere non esiste, essendo la vita umana intessuta di dolore e di noia; che è quanto dire che la vita manca del suo scopo, poiché gli uomini nascono e vivono al solo piacere. 11 Farini è un trattato, in dodici capitoletti, intorno alla gloria che può conseguirsi con le lettere e con le scienze, quella cioè alla quale mirò propriamente l'autore, quella che fu lo scopo di tutte le sue azioni, il sogno di tutta la sua vita. Discorse le difficoltà del conseguirla e del conservarla, il trattato finisce di- mostrandone la vanità. I Detti memorabili di Filippo Ottonieri, divisi in sette capitoletti, sono una specie di autobiografia dell' autore, il quale, sotto il nome di un personaggio immaginario, delinea alcuni tratti del suo carattere ed espone alcune sue osservazioni sin- golari. Interessante sopra gli altri è il primo capi- tolo, nel quale l'autore, parlando di Socrate, fa in parte il suo ritratto, un ritratto in cui la bruttezza del corpo e la bellezza e nobiltà dell'animo fanno un insieme simpatico e commovente. Nel Dialogo di Cristoforo Colombo si cercherebbe invano il Colombo della storia. Come in tutti gli altri scritti del Leopardi, anche qui l'attore principale è il Leopardi stesso, nascosto sotto la veste di uno degli interlocutori. Al Gutierrez che lo interroga se sia pro- Chiarini, Leop. 1<> 242 CAPITOLO XII. priamente certo clie troveranno terra, Colombo, il quale comincia un po' a dubitarne, risponde che ad ogni modo l'aspettazione, le ansie e i pericoli di questo viaggio hanno avuto per lui e pe' suoi compagni que- sto vantaggio, di liberarli per qualche tempo dalla noia, e far loro cara la vita e pregevoli molte altre cose che altrimenti non avrebbero avuto in considerazione. Come è certo che una simile risposta non sarebbe mai uscita dalle labbra del grande navigatore, così è certo, secondo la spiritosa osservazione del De Sanctis, che Giacomo Leopardi non avrebbe scoperta l'America. Le Operette morali sono una musica solenne e lu- gubre, nella quale un coro di voci lamentose, stra- zianti, canta che ciò che esiste e sente è creato per soffrire. Anche i quattro ultimi componimenti dei quali ho fatto cenno mettono in quel coro una nota che non stuona; ma in fine del coro, sopra i gemiti e il pianto della gente che soffre, s'ode su in alto una nota gioconda: è il canto degli uccelli, i quali sono, dice l'autore, le pivt liete creature del mondo. L'Elogio degli uccelli è come un'oasi, dove finalmente il lettore trova riposo e conforto dal triste viaggio a traverso le desolate pagine delle Operette morali. E riposandosi pensa: Oh quanto dolore deve essere costato questo libro, nel quale anche il riso ò fatto di lacrime! Esaltando la sorte degli uccelli che, liberi e felici, volano e cantano per gli spazi del cielo, il misero poeta piangeva, io penso, sulla propria captività. Ma da quella fantasia poetica ilare e lieta passa subito ad una tristo e lugubre, il Cantico del Gallo silve- stre. \j Elogio fu finito il 5 novembre; il Cantico fu cominciato il 10.— Su, mortali, destatevi, dice il can- tico; ripigliate la soma della vita, dalla (jualc non siete ancora liberi ; ma vorrà tempo che riposerete per sempre nella quiete del sonno; poiché Tessere delle cose ha per suo unico fine il morire ; e lo creature ani- mate, cercando affannosamente per tutta la vita la LE < OPERETTE MORALI. > 243 felicità, e non trovandola, riposano finalmente nella morte. — Anche un altro componimento di genere fantastico, lì Dialogo di Federico liuyschedelle sue mummie, tratta lo stesso argomento, un argomento caro al poeta, il quale più tardi dedicherà ad esso una delle sue poesie più commoventi. 11 gallo silvestre dice agli uomini: — Se la vita è infelice, consolatevi ; l' infelicità vostra cesserà con la morte. — Le mummie di Federico Ruysch cantano la stessa canzone: In te, morte, si posa Nostra ignuda natura : Lieta no, ma sicura Dell'antico dolor. E ragionando con lui, affermano che la morte non ò dolorosa; piuttosto, piacevole. Non andrà molto tempo, e nella fantasia del poeta la morte diventerà una bellissima fanciulla, nel cui virgineo seno egli vorrà posare, addormentandosi, il volto. Il Dialogo di Timandro e di Eleandro, col quale si chiudono le Operette morali, è, come dissi, la difesa che l'autore fa delle sue dottrine. A Timandro, che biasima la sostanza e l' intenzione degli scritti d'Elean- dro, e gli domanda che cosa lo muove a scrivere quelle brutte cose degli uomini, questi (eh' è, s'in- tende, l'autore) risponde : < L' intolleranza di ogni si- mulazione e dissimulazione: alle quali mi piego tal- volta nel parlare, ma negli scritti non mai; perchè spesso parlo per necessità, ma non sono mai costretto a scrivere ; e quando avessi a dire quel che non penso, non mi darebbe un gran sollazzo a stillarmi il cer- vello sopra le carte. > ' E in fine del dialogo soggiunge : < Se ne' miei scritti io ricordo alcune verità dure e
- Giacomo Leopardi, Opere, Firenze, Le Monnier, 1846; voi. II,
pag. 42. 244 CAPITOLO XII. — LE < OPERETTE MORALI. > triste, per isfogo dell'animo, o per consolarmene col riso, e non per altro ; io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d'animo, iniquità e disonestà di azioni, e per- versità di costumi ; laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita. >' Disse cosa giusta, ma ovvia, chi osservò che il Leo- pardi nella Ginestra, affermando l'infelicità della vita, suggeriva l'unico rimedio che a lui pareva atto a sa- narla, un forte sentimento di solidarietà umana dinanzi alla insensibilità della natura.^ L'osservazione, se non esposta e formulata nei medesimi termini, dovè esser fatta da quanti avevano letta e intesa la poesia;" e concetti affini a quello della Ginestra si trovano adom- brati in altri scritti dell'autore; si trovano, come ac- cennai, nella lettera al Jacopsscn; si trovano nelle pa- role stesse di Eleandro qui sopra citate. Il pessimismo leopardiano non fa divorzio dalle belle e nobili idealità della vita, che chiama illusioni; anzi le esalta e rac- comanda come il farmaco più efficace ai mali di essa. I OiACOHo LioPABDT, Opti'e, od. cit., voi. II, pag. 47. • Vftdi Carducci, Dm/li Hjnriti e dt^lle forme ec, pag. 115. ' Vedi / Canti di Giacomo Leopardi, comniontnli da Aifrodo .StrAccalì; Firenxe, Sansoni, 1892; pag. 225, 22G noi commento Hi TV. 1W>, 14&.