< Vita di Giacomo Leopardi
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Capitolo XXII. Gli ultimi scritti e la morte
Capitolo XXI Nota al Capitolo IX

445 Capitolo XXII. GLI ULTLMI SCRITTI E LA MORTE. 1837. SoMMAnio : Alternativa fra la paura e il desiderio di morire. — Triste presontimento. — Paura del cholora. — Disegno di una edizione delle Opere del Leopardi da farsi a Parigi. — L' enfiagione al ginocchio. — Nuovi e gravi sintomi d* idro- pisia. — Il Leopardi non sente la gravità del suo stato. — Consiglio dei medici di ricondurlo in villa. — Renitenza di lui ad andarvi. — È risoluto il ritorno in campagna. — Let- tera del Ranieri a Monaldo. — Morte quasi repentina del poeta: suoi ultimi momenti narrati dal Ranieri. — I Pen- sieri e i Paralipomeni, — Analogia dei Pensieri con le Ope- rette inorali. — Pessimismo dei Pensieri. — Un raggio di luce nello tenebre dei Pensieri. — Il metro dei Paralipomeni. — I personaggi del poema. — La critica e i Paralipomeni. — Il conte Leccafondi. — Topaia. — Le digressioni. — Il Ra- nieri annunzia a Monaldo la morte del figlio. — L'edizione delle Opere del Leopardi. — 11 Ranieri s'intende col Le Mou- nier. — Il volume degli Studi giovanili. — Sdegni del Ranieri per la pubblicazione dell'epistolario. — Pubblicazione delle altre opere. — I manoscritti napoletani. La vita del Leopardi era stata fin dalla prima giovinezza un'alternativa fra la paura e il desiderio di morire. Se è vero che negli ultimi giorni egli di- cesse al Ranieri e alla Paolina: < Non dubitate, che amendue ne avrete ancora per quarant' anni da as- sistermi, >' dobbiamo credere che queste parole non rispondessero ad un' intima convinzione di chi le prof- feriva. Cli' egli, nei sette anni del sodalizio, avesse non rade volte il presentimento della sua fine non lontana, ' Sette anni di so<lali::io ec, pag. 57. 446 CAPITOLO XXII. appare da molti luoghi delle sue lettere, in partico- lare delle lettere al padre. Nell'ultima di queste, che è anche l'ultima del- l'epistolario, scritta il 27 maggio 1837, cioè quattordici giorni avanti che il poeta morisse, ci sono queste pa- role : < Se scamperò dal cholera, e subito che la mia salute lo permetterà, io farò ogni possibile per rive- derla in qualunque stagione; perchè ancor io mi do fretta, persuaso oramai dai fatti di quello che sempre ho preveduto, che il termine prescritto da Dio alla mia vita non sia molto lontano. I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l'età ad un grado tale, che non possono più crescere; spero che, superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all'eterno riposo, che invoco caldamente ogiìi giorno non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo. >' Questa volta il presentimento doveva avverarsi.

  • *

Ciò che nell'agosto del 1836 indusse il Leopardi a tornare nella villetta di Torre del Greco, fu, se- condo il Ilanieri, il primo e lontano annunzio del cholera, che poi scoppiò a Napoli il 18 ottobre. Alla fino dell' inverno il cholera parve cessato, e il poeta nel febbraio del 1H37 fece ritorno in città. Salvo la l)aura del morbo, innestatagli, dice il Ranieri, dal IMaten, che fu ucciso dalla paura stessa in Sirnctis.i aHsai prima che il morbo vi giiingesse, Giacomo aveva goduto fino ai primi di dicembre del 1836 saluto r( - Intivamcnto buona. Ma se quella paura era stata eccessiva, come dice il Ranieri, e come appare da ciò che il Leopardi stesso

Epistolario, vol. III, pag. 50, 51. GLI ULTIMI SCRITTI E LA MORTE. 44*

scriveva al padre il 9 marzo 1837, le condizioni di salute del poeta, al suo ritorno in città, erano tali da giustificare anche la paura di una catastrofe immi- nente. < Io, grazie a Dio, scriveva il poeta, sono salvo dal cholera, ma a gran costo. Dopo aver passato in campagna più mesi tra incredibili agonie, correndo ciascun giorno sei pericoli di vita ben contati, immi- nenti e realizzabili d'ora in ora; e dopo aver soflerto un freddo tale, che mai nessun altro inverno, se non quello di Bologna, io aveva provato il simile ; la mia povera macchina, con dieci anni di più che a Bo- logna, non potè resistere, e fino dal principio di di- cembre, quando la peste cominciava a declinare, il ginocchio con la gamba diritta mi diventò grosso il doppio dell'altro, facendosi di un colore spavente- vole. > Aggiunge nella lettera che non potè consul- tare medici per la gravità della spesa ; che alla metà di febbraio ammalò di un attacco di petto con febbre; che, passata la febbre e tornato in città, si rimise in letto come convalescente, quale era ancora men- tre scriveva; che finalmente il ginocchio e la gamba erano disenfiate, in modo che se ne trovava come guarito. Nonostante le condizioni di salute aggravatesi, il poeta andava sempre pensando alla edizione delle sue opere. Fin da quando l'edizione dello Starita era stata sospesa con la proibizione del secondo volume, egli aveva scritto il 22 dicembre 1836 al De Sinner a Parigi per chiedergli se credeva che mandando là un esem- plare delle sue o poesie o prose con molte correzioni ed aggiunte inedite, ovvero un libro del tutto inedito, si troverebbe un libraio {come Baudry o altri) che senza alcun compenso pecuniario all'autore, ne desse un'edi- zione a suo conto. < Io credo di no, soggiungeva; e quella pazza bestia di Tommaseo, che, disprezzato in Italia, si fa tenere un grand' uomo a Parigi, e che è 448 CAPITOLO XXII. nemico mio personale, si prenderebbe la pena di dis- suadere qualunque libraio da tale impresa. > ' Non so che cosa il De Sinner rispondesse; ma dalla successiva lettera del Leopardi, del 2 marzo 1837, risulta che quegli chiese al poeta una breve notizia della edizione, da presentare al libraio. Il poeta la mandò; ed era questa: < Je ferai à mes OPERETTE MORALI les additions que je promets dans la Notice qui les précède dans l'édi- tion de Naples. Elles consistent en trois Opuscules d'une étendue assez considérable. On peut voir leurs titres dans la Notice que j'ai citée.' > J'ajouterai aussi à mes poésies des morceaux inédits. > En Italie j'aurai donne quelque traduction^ inè- dite : par exemple, une traduction du Manuel d'P^pic- tète, une traduction de quatre Discours moraux d'Iso- crate, etc, tout cela n'est bon à rien en France. > Je veux publier un volume inédit de Pensées sur les caractères des hommcs, et sur leur conduite dans la société; mais je ne veux pas m'obliger de le donner au méme libraire qui publicra le reste, si auparavant je n'ai pas vu du nioins le premier volume imprimé, afin de pouvoir jugcr de l'cxécution. > Au reste je ne tiens en aucune manière à ce que l'édition soit faite sous le titre general d'tEuvres. On peut, et memo on dovniit publier un volume sous le titre indépendant do CANTI, et dcux autrcs sous colui d'Ol-EKETTE MORALI. Jo forai dos améliora- tioriH nombreuKcs ìi tous ccs trois volumes. > Inviando questa notizia per l'editore francese, il Leopardi aggiungeva: < Io manderei i due primi vo- ' KpMolario, voi. Ili, pag. «9.

  • Vodi U Notizia noi voi. II dogli Sn-illi li-IU,arì pulibiicnti

lUl MoNticn, a png. 'W>. I trn opiiN'jnli hoiio il h'ninimi'ulo apo- crifo (ti Miratone da jMtnpHaro, il Cop^rnlro i> il Dialogo <li l'Io- tino (t di l'orflrio. GLI ULTIMI SCRITTI E LA MORTE. 449 lumi in un esemplare correttissimo e chiarissimo, ma il terzo, cioè il secondo delle operette morali, non posso mandarlo altrimenti, per la parte edita, che nell'edi- zione di Firenze, tal qual è: ' perchè mi è impossibile di fare i cangiamenti e le correzioni necessarie sopra quell'edizione, che è senza interlinee e senza margini. Però è indispensabile che di questo terzo volume io possa vedere le ultime prove di stampa, dove io farei i cangiamenti dovuti, che non sarebbero mai troppo gravi, né difficili ad eseguire. Senza questa condizione, difficilmente l'affare potrebbe avere eflfetto. >* L'enfiagione al ginocchio fu il primo grave indizio del prossimo disfacimento del misero corpo dell' infe- lice poeta. Non so se i medici la giudicassero poi come un fenomeno della idropisia, dalla quale, per giudi- zio loro, secondo afferma il Ranieri, il poeta fu spento. Il fatto è che anche cessata l'enfiagione, passato l'at- tacco di petto e la febbre, egli dovè rimanere in letto fino alla metà di marzo. Soltanto dopo questo tempo potè uscire qualche rara volta per passeggiare. Non avendo più febbre, aveva scritto al padre di essere convalescente ; ma quella che chiamava conva- lescenza, non era già un avviamento alla guari- gione, era una semplice sospensione di alcuni feno- meni morbosi, durante la quale le malattie, che gli rodevano alla radice le forze vitali, continuavano, lentamente e spietatamente, l'opera loro distruggi- trice. Cotesta sospensione durò fin verso la metà di maggio, quando un nuovo e più grave fenomeno si manifestò, del quale il poeta mise un breve cenno nella lettera al padre del 27 maggio, dicendo ch'era stato as- sai ito per la prima volta da un vero e legittimo asma che gV impediva il camminare, il giacere e il dormire. Egli,

  • È l'edizione del Piatti, Firenze, 1834, nella quale furono

pubblicati per la prima volta i dialoghi d'un Venditore d'alma- nacchi e d'un Passeggere, e di Tristano e d'un Amico. - Epistolario, voi. Ili, pag. 41. Chiarini, Leop. 29 450 CAPITOLO XXII. nonostante il presentimento al quale accennammo, non sentiva forse la gravità del suo stato, e non pensava a pericolo più o meno imminente; ma la gravità era tale che i medici, i quali andavano a visitarlo ogni giorno,' non si dissimulavano il pericolo; e persuasi che si trattasse d'idropisia, sperimentati vani tutti gli altri rimedi, suggerirono, come ultimo tentativo, di ricon- durre l'infermo in campagna a Torre del Greco. Quello che il Leopardi chiamava semplice asma ner- voso, aggiungendo, dice il Ranieri, essere l'asma segno certissimo di longevità, era invece l'annunzio della sua morte vicina. L'affanno andò crescendo di giorno in giorno; le forze diminuivano; e il Ranieri sgomento, non sa- pendo a che altro partito appigliarsi, deliberò di se- guire il consiglio dei medici, e ricondurre il malato in campagna. Ne parlò a lui, lo esortò, lo pregò; ma né le esortazioni né le preghiere non valsero a persua- derlo. Egli, dice il Ranieri, oppose un reciso rifiuto. Dato che ciò sia vero, é difficile indovinarne le ca- gioni; ma il Ranieri stesso ci permette di non creder vere le due messe innanzi da lui nel Sodalizio, cioè l'odio del Leopardi per la campagna e il non poter egli avere a Torre del Greco i gelati di Napoli, dei quali era ghiottissimo.' Mentre scriveva ciò nel 1880, si dimenticava di avere più di trenta anni avanti scritto, nella Notizia premessa allo Opere e nel Supplemento^ che il poeta, nel giorno stesso destinato alla partenza, divisava fu- ture gite e future veglie campestri^^ parlava dei tìiira- cóli di esse gite o diceva di voleì'c subito levarsi per andare in villa. Finalmente (sempre secondo il Ranieri) un rab- buffo del medico persuase il malato a cedere. Allora

  • Béttt anni di aodalUtio «o., png. CA. ' Idem, pag. 64 o 58.

' Lkopardi, Optrt, «d. oU., voi. I, pag. xxvi. Vedi in quoato volume « pag. 468. h GLI ULTOII SCRITTI E LA MORTE. 451 cominciò a imperversare il cholera : e qui nuove in- certezze, essendo opinione generale che il muoversi, in quella condizione della salute pubblica, fosse pe- ricoloso. Comunque, ai primi di giugno fu risoluto l'an- dare: ma il poeta ne rimandava l'esecuzione da un giorno all'altro. Intanto Monaldo con una delle ultime lettere al figlio' pregava il Ranieri di consigliarlo a recarsi presto a rivedere la famiglia. 11 Ranieri, che aveva scritta, a dettatura di Giacomo, la lettera a Monaldo del 27 maggio, sentì il bisogno di scrivere direttamente egli stesso al padre dell'amico suo; tanto più che le condizioni di salute di questo erano andate e an- davano facendosi di giorno in giorno più gravi. Gli scrisse il 13 giugno una lunga lettera, con la quale lo assicurava che, malgrado la molta repuynanza di Giacomo a lasciare il clima di Napoli, al quale do- veva la. sua sanità, egli era nel più fermo proponimento di correre al pia presto a riabbracciare i suoi ; gli di- ceva le ragioni vere che avevano impedito il ritorno di lui a Recanati; e gli parlava del male gravissimo dal quale era stato ora assalito; male di cui Gia- como gli aveva dato un cenno in modo assai vago nella lettera del 27 maggio, parte per non affliggerlo, parte perchè egli, il Ranieri, aveva creduto utile di lasciare ignorare a lui stesso una parte del vero. < Il dì quin- dici di maggio, diceva la lettera, egli si levò sma- nioso dal letto con un fiero afianno che gì' impedì per più notti di giacere, e lo gettò in una grandis- sima prostrazione di forze. Io non mancai di chiamar subito il dottor Mannella.... Il Mannella mi dichiarò, » Deve essere probabilmente una delle tre citato in principio della lettera di Giacomo al padre del 27 maggio; ma non sa- prei mdovinare quale. Queste lettere, che dovrebbero trovarsi fra le carte napoletane, non ci sono; come non ci sono altre molte che Monaldo scrisse al figlio durante la residenza di lui a Napoli. 452 CAPITOLO XXII. benché in segreto, che qucU' affanno era una minac- cia cV idropericardia, gli ordinò assai medicine.... ma mi aggiunse esser quella una malattia derivante in sostanza da ragioni di struttura, e forse gentilizia;... nella qual malattia l'arte aveva poco che fare; ma molto poteva fare la natura. > ' Aggiungeva il Ranieri che un altro medico da lui chiamato, il dottor Po- stiglione, aveva confermato le cose dette dal Man- nella, e che, seguendo i consigli e le prescrizioni loro, egli avrebbe il giorno dipoi condotto l'ammalato in campagna a Torre del Greco. « Ella può esser certo, diceva in fine il Ranieri, che tutto quello che è pos- sibile ai mortali, tutto è stato, è, e sarà fatto in prò del suo figliuolo e dell'unico amico che la Provvi- denza mi ha conceduto. > Venne il 14 giugno, giorno fissato alla partenza per la campagna. Erano le 5 pomeridiane: la car- rozza che doveva condurli attendeva alla porta di casa; e il poeta si disponeva a desinare.' < Era già scodellata, scrive il Ranieri, la mine- stra. Ed egli, postosi a sedere a mensa più gaio del solito, n'aveva già tolte due o tre cucchiaiate, quando rivoltosi a ino, che me gli era seduto allato: > Mi sento un pochino crescere l'asma, mi disse: si potrebl)c riavere il dottore? ' Ltillfru ÌH«dita di Aufonio lUtnifri, puhblicntn <lii Oonnnro Bonanno por no/./.o Mnrlini-KuHpoli; Uoinn, JHO'.), \m^. IJ. ' Nolla Notizia |>i'nm(<HHa allo Opere il IJiiniori avovn narrata con poclio paroln la morto <l(tl Loopanli. Ma avondo poi il pa* dro Olirci o il padro Scarpa, K<)N(iiti, Hcritto o utanipato dio il poota, convortitoNÌ nn(;li iillinii anni u riontrato noi Krunilx) «lolla Chiosa eattolien, avova in punto di morto ritrattati, ad uno di loro che Io a•Millt^, i nuoì orrori; omho Uaniori agj^iunHo noi \H\1 alla Notisin un Supplémunlo, noi (pialo, a dimootruro la falnith dallo invonxioni goMuiticho, doNcriNno con molti particolari gli itltiini tnoinnnti doli» vita dol huo forando amico, (jnento Hcritto i' il dociimonto piii iinportanto, nn/.i il hoIo nttondibils, dalla morto dol Loopnrdi; od io ne riforiNco, con lo parole ntooMO del Hanicri, In parto piii importante. GLI ULTIMI SCRITTI E LA MOETE. 453 > E perchè no ? gli risposi. Anzi andrò di persona per esso. > Era uno dei più memorabili giorni della morta- lità cholerica : e non mi parve stagione da mandar messi. > Io credo che, a malgrado di tutti i miei sforzi, dovette trasparire dal mio viso una qualche piccola parte del mio fiero turbamento. Perchè, levandosi, egli ne motteggiò e ne sorrise; e, stringendomi la mano, mi ritoccò della lunga vita degli asmatichi. Andai con la carrozza medesima che ci attendeva; affidandolo a' miei, massime alla mia sorella Paolina.... > Trovo ili casa il Mannella, che si veste e viene. Ma tutto era mutato. Avvezzo, per un lungo e penoso abito di mortalissime malattie, a sentir troppo fre- quentemente i messi di morte, il nostro adorato in- fermo non seppe più riconoscere i veri dai falsi. E parte imperturbabile nella sua fede che tutto il male suo fosse nervoso, si confidava ciecamente di poterlo pla- care col cibo. Laonde, a malgrado delle caldissime preghiere dei circostanti, tre volte s'era voluto levare dal ktto, dove l'avevano adagiato così vestito com'era, e tre volte s'era voluto rimettere a mensa per desi- nare. Ma sempre, ai primi sorsi, era stato sforzato, a suo malgrado, di rimanersene, e di riappressarsi al letto: dove, quando io sopraggiunsi col Mannella, lo trovammo né anche a giacere, ma solamente sulla sponda, con alcuni guanciali di traverso che lo so- stenevano. > Si rallegrò del nostro arrivo, ci sorrise; e, ben- ché con voce alquanto più fioca e interrotta dell'usato, disputò dolcemente col Mannella del suo mal di nervi, della certezza di mitigarlo col cibo, della noia del latte d'asina, de' miracoli delle gite e di volere di presente levarsi per andarne in villa. Ma il Mannella, tiratomi destramente da parte, mi ammonì di man- dare incontanente per un prete; che di altro non 454 CAPITOLO XXII. v'era tempo. Ed io incontanente mandai e rimandai e tornai a rimandare al prossimo convento degli ago- stiniani scalzi. > In questo mezzo il Leopardi, mentre tutti i miei gli erano intorno, la Paolina gli sosteneva il capo e gli asciugava il sudore che veniva giù a goccioli da quell'ampissima fronte, ed io, veggendolo soprappreso da un certo infausto e tenebroso stupore, tentavo di ridestarlo con gli aliti eccitanti or di questa or di quella essenza spiritosa ; aperti più dell' usato gli oc- chi, mi guardò più fiso che mai. Poscia : > Io non ti veggo più, mi disse come sospirando. > E cessò di respirare; e il polso nò il cuore non battevano più: ed entrava in quel momento stesso nella camera frate Felice da Sant'Agostino, agosti- niano scalzo; mentre io, come fuori di me, chiamavo ad alta voce il mio amico e fratello e padre, che più non mi rispondeva, benché ancora pareva che mi guar- dasse. > Qui il Ranieri, detto com'egli non potendo capa- citarsi che il suo amico fosse morto, e sostenendo che viveva ancora, supplicasse il frate ad accompa- gnare religiosamente il passaggio di quella grande anima, prosegue: « Egli (il frate), tocco e ritocco il polso e il cuore, replicava costantemente, che quella grand'anima era già passata. Alla fine, fattosi nella stanza uno spontaneo e solenne silenzio, il pio frate, inginoccliiatosi appresso al morto o al moribondo, fu esempio a noi tutti di fare altrettanto. Poscia in un profondo raccoglimento, orò, orammo tutti un gran pezzo. E levatosi, e fattosi a una tavola; scrissi^ le parole q«ii a|)pre8so; o ne porse il foglio a mo, clic, levatomi anch'io e impresso l'ultimo bacio sulla Tronto di quel cadavere, ero già trascorso da uno spietato dubbio in una spietatissima certezza. > Si ccrtifka al siffnor parroco, qualmente istanta- neamente è passato a m'uilìor vita il conte Giacomo GLI ULTIMI SCRITTI K LA MOUTE. 455 Leopardi di Recanati, al quale ho prestato le ultime preci de' morti : ciò dovevo, e non altro. Fadre Felice da Sant'Agostino, agostiniano scalzo. >' Con questo certificato, con quelli dei medici, e più col miracoloso alido della Provvidenza, com'egli dice, potò il Ranieri salvare il cadavere dell'amico dalla confusione del camposanto cholerico, e dargli a suo tempo sepoltura nel vestibolo della chiesetta subur- bana di San Vitale, dove il modesto monumento da lui postogli, e guasto in parte dalle ingiurie del tempo e dalla incuria degli uomini, è stato di recente re- staurato e abbellito a spese dello Stato. «  Chi pensi le condizioni di salute nelle quali il Leo- pardi si trovava nel 188:^, quando il Ranieri lo con- dusse da Firenze a Napoli, non potrà non meravi- gliare che la vita gli durasse ancora altri quattro anni, e che in quei quattro anni potesse comporre qualche cosa. Oltre le poesie, delle quali ho parlato nei due ca- pitoli precedenti, attese, come accennai, a due lavori di maggior mole: i Fensieri e i Faralipomeni della Batracomiomachia, dei quali dettò al Ranieri le ul- time ottave il giorno avanti di morire. I Fensieri furono probabilmente composti, tutti o quasi, prima del dicembre 183ti; sono tutti di mano dell'autore, ad eccezione di uno, il XCVII, eh' è di ca- rattere del Ranieri; sono scritti in piccoli foglietti, e preparati dall'autore stesso per la stampa. Sono centoundici, e sono, credo, tutto ciò che egli scrisse in prosa nei quattro anni della sua dimora a Napoli. Qualcuno ha supposto che fossero una scelta fatta dal Ranieri; ma la supposizione non ha fondamento; come

  • Ranieri, Sette anni di sodalizio oc, pag. IIU e seg. 456 CAPITOLO XXII.

non ha fondamento l'altra supposizione, che fossero materiali preparati per qualche altra operetta morale. Indubbiamente i centoundici pensieri sono quei Pensieri sui caratteri degli iiomini e sulla loro con- dotta in società, dei quali il Leopardi nella notizia mandata al De Sinner per il libraio francese diceva di voler pubblicare un volume. Probabilmente s'egli avesse potuto pubblicarlo, se cioè gli fosse bastata la salute e la vita, la mole dei pensieri avrebbe potuto accrescersi, essendogli agevole trarne altri dai mate- riali che aveva raccolti nello Zibaldone. I Pensieri hanno, per il contenuto, una grande analogia con le Operette inorali, e possono conside- rarsi come un'appendice di esse; salvo che, mentre le Operette morali sono il prodotto della speculazione filosofica e della fantasia poetica dell'autore, i Pen- sieri sono il risultato della esperienza da lui fatta della società umana. Le conclusioni della esperienza naturalmente confermano, aggravandole, quelle della speculazione e della fantasia. La speculazione e la fantasia avevano condotto il poeta ad affermare che la vita ò necessariamente misera, che il dominio di essa appartiene al male, e che 1' uomo è tanto più infelice quanto ha mente più alta e cuore più nobile. L'esperienza dice che < il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene e di vili contro i generosi. > ' Questa sentenza ò svolta abbastanza largamente nel primo Pensiero, il quale è una specie d' introdu- zione a tutti i Pensieri y e comincia esso stesso con questa specie d' introduzione : < lo ho lungamente ricusato di creder vere le C()s(> che dirò qui sotto, oltreché la natura mia era troppo riraota da esso, e che l'animo tendo sempre a giudi- care gli altri da so medesimo, la mia incliiiuzìoiu; non è stuta mai d'odiare gli uomini, ma di umatli.

  • Giacomo Lkopakdi, Optrt, vul. II, png. 113. GLI ULTIMI SCRITTI E LA MORTE. 457

In ultimo r esperienza quasi violentemente me le ha persuase: e sono certo che quei lettori che si trove- ranno aver praticato cogli uomini molto e in diversi modi, confesseranno che quello ch'io sono per dire ò vero; tutti gli altri lo terranno per esagerato, tin- che l'esperienza, se mai avranno occasione di vera- mente fare esperienza della società umana, non lo ponga loro dinanzi agli occhi. >' L'autore evidentemente vuole giustificarsi del modo suo pessimistico di considerare gli uomini e la vita. Le sue osservazioni hanno qualche lato vero, cioè sono vere in certi casi particolari e determinati; ma egli quasi sempre dà ad esse un significato generale. L'esperienza ch'egli fece della società nella vita sua hreve, e nella condizione sua d'uomo quasi sem- pre infermo, non poteva essere, e realmente non fu, molto grande; e per quanto la sua viva penetrazione {;li facesse intuire molte verità e lo facesse vedere molto addentro nei misteri del cuore umano, egli, che studiò il cuore umano sopra tutto in sé, non potè acqui- stare degli altri uomini e della società quella piena e sicura conoscenza che si immaginò. I suoi Pensieri sono pieni di sentenze come que- ste; anzi si può dire che queste sentenze ed altre come queste sono la sostanza principale ch'egli viene svolgendo e illustrando coi suoi Fensieri: — Natural- mente V animale odia il suo simile; e l'odio verso i pro- prii simili e maggiore verso i più simili. — L'uomo è sempre tanto malvagio quanto gli bisogna. — Gli uo- mini diventano malvagi coli' uso del mondo. —Il mondo ronde l'uomo misantropo. — Il mondo loda e insegna tutte le virtù fìnte, deprime e perseguita tutte le vere. — L'impostura è l'anima della vita sociale. — Nessuno che possa eleggere, elegge di esser buono: gli sciocchi sono buoni, peì'chè altro non possono. — Il mondo ride '■ Giacomo LcorARDi, Opere, voi. II, pag. 113. 458 CAPITOLO XXII. alle cose che dovrebbe ammirare, e biasima quelle che invidia. — La fortuna è fortunata nel mondo, non il valore. — Chi vuole innalzarsi dia bando alla modestia. — Chi ha coraggio di ridere è padrone del mondo. Fra tanta tenebra di osservazioni e riflessioni trova pur modo d'insinuarsi, come un raggio di luce, questo pensiero affettuoso e gentile: Buoni amici e cordiali si trovano veramente nel mondo, e non sono rari. L'at- testazione di questo fatto, del quale l' autore fece egli stesso esperienza, e che consolò grandemente la sua misera vita, e ne alleviò, quanto era umanamente pos- sibile, i mali, mostra ch'egli riconobbe che c'era pure nel mondo qualche particella di bene. Basta quella at- testazione a provare ch'egli con le sue sconfortanti sen- tenze non intese di escludere affatto dal mondo ogni azione virtuosa. E ciò, autorizzandoci a intendere le dette sentenze in un senso limitato e ristretto, at- tenua quello che hanno di veramente eccessivo. Chi oserebbe negare che alcune di esse siano vere anche oggi, applicato alla società nostra? anzi più vere oggi che non quando furono scritte? Queste per esempio: V impostura h l'anima della vita sociale. — La fortuna è fortunata nel mondo, non il valore. — Chi vuole in- nalzarsi, dia bando alla modestia. Io non credo che nel campo intellettuale abbiano mai combattuto con tanta fortuna come oggi la sfacciataggine, la ciarla- taneria e r immoralità. So i Pensieri sono, per il contenuto, come una appendice allo Operette morali, per la forma dolio scri- vere sono qualche cosa di più, sono il perfeziona- mento della prosa leopardiana. I Paralipomeni, un poema satirico di otto canti in ottava rima, possono considerarsi come l'ultimo lavoro del poeta, finito, comò dicemmo, il giorno avanti cli'cgli GLI ULTIMI SCBITTI E LA MORTI-:. 45i> morisse, e perciò mancante delle ultime correzioni. Non si sa con precisione quando l'autore cominciasse a scriverlo; probabilmente a Napoli nell'inverno dal 1834 al 1835. Nel manoscritto, che conservasi fra le carte napoletane, il primo canto è tutto di mano dell'au- tore, e di scrittura accurata, con qualche correzione; j;li altri sette canti sono di mano del Ranieri, dettati a lui dal poeta, il quale li venne componendo a me- moria; e ne dettava le varie parti all'amico a mano a mano che le aveva composte.' Il Leopardi, che nelle liriche a metro libero fece un uso tanto parco, quanto sapiente, della rima, volle col poema dar prova che sapeva padroneggiare anche i metri abbondanti di rime, e scelse per esso l'ottava. La preferì alla sestina, che pure aveva usata egli stesso nella traduzione della Batracomiomachia, e che era stata usata dal Casti in un poema d'indole so- migliante ai Farai ipomeni; la preferì, credo, perchè la solennità della forma e la tenuità della materia nella parte narrativa davano maggior risalto alla sa- tira, e perchè la larghezza del periodo poetico si pre- stava meglio alle digressioni tilosotìche e storiche, che sono parte importantissima del poema. Il quale è una continuazione dell'antico poemetto greco, La hattaijlia dei topi e delle rane; ma, quanto allo scopo, non ha niente di comune con esso. Il poemetto greco è una parodia delle battaglie omeriche àoiVlliade; il poema italiano è una satira di fatti avvenuti e di persone vissute a tempo del poeta. La Batracomiomachia finisce con la disfatta dei topi per mano dei granchi, mandati da Giove a di- fendere le rane, e con la morte del re dei topi, Man- giaprosciutti; i Paralipomeni cominciano con la fuga dei topi che, tornati di gran fretta alle loro case in ' Vedi Giusti, Epistolario, Firenze, Succ. Le Monnier, 1883, voi. II, pag. 174, 175. Vedi anche Xuovi documenti ec. pubblicati da G. Piorgili; Firenze, Succ. Le Monnier, 1892, pag. 208. 460 CAPITOLO XXII. Topaia, mandano un messaggero al campo dei gran- chi, per chiedere spiegazione del loro intervento nella guerra, proclamano la monarchia costituzionale ed eleggono il successore del morto re. Gli avvenimenti descritti nei Paralipomeni allu- dono ai fatti della rivoluzione napoletana del 1820; i topi sono i Napoletani, le rane i sudditi del Papa, 1 granchi gli Austriaci. I personaggi principali del poema, parte sono tratti dal vero, parte sono imma- ginarli. Senzacapo è Francesco I, imperatore d'Austria; il barone Camminatorto è il principe di Metternich ; Rodipane è il re costituzionale di Napoli, Francesco, figlio di Ferdinando I ; Rubatocchi, il conte Leccafondi e il generale Assaggiatore sono tutti e tre personaggi nella loro essenza ideali. Ma come nel disegnare e colorire qualche fatto e figura reale il poeta tolse alcuni elementi da altri fatti e persone che quelle da lui volute rappresentare, così è possibile che nella creazione dei personaggi ideali si sia intruso qualche elemento di realtà. Nella figura del re di Napoli non ò difficile scoprire una certa rassomiglianza con Luigi Filippo re dei Francesi. Rubatocchi ò l'eroe ideale, nel quale il poeta impersona il suo amoro di patria, il suo culto dell' onore, della gloria, della virtù ; Lecca- fondi ò il tipo dei liberali italiani di quel tempo, tutti, secondo il Leopardi, più o meno utopisti, sia che in- tendano liberare la patria con le riformo civili, o con le congiure; Assaggiatore ò il modello della assenna- tezza politica, alla quale il poeta avrebbe voluto che gl'Italiani ispirassero le loro azioni. Disgraziatamente, quale sia questa assennatezza non si sa, perchò il poema finisce prima che Assaggiatore abbia esposto le sue idee.' Non mi paro esatto che i Paralipomeni siano, come ò sembrato ad alcuni, una satira di tutta la vita ' Vo<Ii il boi Sdffylo (li un coimiii^nfo nuovo al l'itraUpomnni di ToMNAVu I'aonotti; Hpolotu, IDOt. GLI ULTIMI SCRITTI E LA MORTE. 461 umana : secondo me, essi sono una satira di tutto ciò che, patrioticamente, civilmente, filosoficamente, parve al nostro poeta condannabile o degno di riso nella so- cietà del suo tempo. Egli esalta nel poema l'amor patrio, l'eroismo, la virtù, e deride ciò che non gli sembra rispondere a questi alti ideali del suo spirito e del suo cuore; deride le utopie, i vanti sciocchi dei liberali; deride il falso patriotismo, che grida nelle pubbliche concioni, che ostenta le congiure e scappa dinanzi al nemico ; deride e condanna la falsa filosofia delle scuole teologiche signoreggiante al suo tempo. Potrà darsi che in qualche giudizio e apprezzamento particolare si inganni (quanti dei patrioti che contri- buirono al risorgimento d'Italia non condannarono, come lui, le congiure!); ma senza dubbio il sentimento patrio e l'amore del vero che ispirano tutto il poema sono foi-ti e sinceri, e l'intendimento della satira è nobile ed alto. Io non partecipo l'opinione di coloro, che giudi- cano il Leopardi non levarsi nella satira oltre la me- diocrità. Anche nei Paralipomeniy come nella Falino- dìa, quelli che ad alcuni paiono difetti, a me sembrano pregi. Il poeta, dicono, si dimentica talora che le sue bestie son bestie e parla di loro e delle cose loro come fossero uomini. È vero; ma se per effetto di quella quasi dimenticanza, certamente voluta, sotto il nome e i lineamenti della bestia si vede più chiaramente il tipo del personaggio umano che il poeta ha voluto raffigurare, la satira ne riesce, quanto più aperta, tanto più efficace e saporita. Fra i personaggi del poema uno dei più felice- mente riusciti è, secondo me, il conte Leccafondi, mandato ambasciatore dai topi, dopo la loro disfatta, al campo dei granchi. Cotesta figura di diplomatico, impastato di filan- tropia, di politica, d'economia, di patriotismo, ci ri- chiama alla mente con grande efficacia quella turba 462 CAPITOLO XXII. di uomini enciclopedici, e di rivoluzionari, più o meno temperati, che col loro dottrinarismo, coi loro scritti e con le loro congiure lavoravano al perfezionamento morale dell'uomo e alla liberazione della patria. Di cotesti uomini il Leopardi dovè conoscerne e osser- varne parecchi negli anni che fu in Firenze al gabi- netto Vieusseux; e dalle figure loro rimastegli im- presse nell'animo trasse fuori la figura morale del suo Leccafondi, figura che non cessa di essere rispet- tabile e simpatica, benché una fine ironia ne metta in mostra le debolezze, le utopie, i pregiudizi, e il bonario sorriso del poeta la circonfonda tutta quanta. Il topo diplomatico ha poco o niente di topesco, lo concediamo; ma ne ha quel tanto che basta alla sa- tira ; e alla satira basta il nome e qualche attributo essenziale. Quando alle bestie avete dato la parola ed altre qualità e facoltà umane, quelle bestie non sono più bestie, ma uomini. L'obiezione, che altri insigni scrittori di favole e di poemi bestiali conservarono ai loro personaggi molto più degli attributi animaleschi che non abbia fatto il Leopardi, non ha per me gran valore. L'arte non ha altre leggi fuori di quelle che lo scrittore di genio impone a sé stesso; ma le leggi ch'egli ha fatte per 80 non obbligano gli altri. Ciò che importa ò che lo scrittore riesca ad ottenere gli effetti che si pro- pone; e il Leopardi, a parer mio, li ha ottenuti. Topaia, quale 6 descritta dal poeta, non (- la città dei topi, ma una Napoli sotterranea, con palazzi, col- legi, ospedali, statue, colonne ed archi, tutta roba che non ha niente che furo coi topi. Vero; ma appunto in ci('), e nella sproporzione enorme fra la grandezza della città e la piccolezza degli abitanti, sta la sa- tira, pcrchò appunto da ciò sorgo il contrasto e il ridicolo. Anche V illustrazione che il poeta fa di To- paia con altro descrizioni topografiche, la galleria del Furio, la grotta di Pozzuoli, la città di Trevi, lo roGLI ULTIMI SCRITTI E LA MOHTE. 463 vine d'Ercolano, contribuisce all'efifetto. E quel misto di cose vere con le inventate è molto gustoso. La mistura della realtà con la favola e delle dis- sertazioni filosofiche col racconto è una delle carat- teristiche del poema, e conferisce alla sua originalità. Le digressioni e le dissertazioni possono parere troppe e troppo lunghe (ce n' è una che occupa quasi tutta la metà di un canto); e può credersi che, de- viando troppo spesso e per troppo tempo l'attenzione del lettore dal racconto, nocciano all' interesse di que- sto. Ma nei Paralipomeni le digressioni sono, direi quasi, parte integrante dei fatti, sono come lo spirito che li vivifica e illumina; perciò, invece di scemare, accrescono l'interesse della narrazione. L'eloquenti ottave del primo canto sull'odio degli stranieri contro il nome italiano sono uno scoppio d' indignazione, che oggi può parere incivile ed in- giusta, ma che al tempo del Leopardi era l'espres- sione genuina e sincera di un forte amor patrio, del- l'amor patrio che aveva ispirato al poeta la canzone all'Italia. Quello scoppio d'indignazione, la digres- sione storica a proposito del rifiuto di Rubatocchi di farsi re, e l'eroica morte di lui rappresentano nel poema il patriotismo dell'autore, e spiegano e giusti- ficano la satira ch'egli fa dei liberali utopisti e dei congiurati da strapazzo. La lunga digressione in principio del canto quarto sulla civiltà dello stato primitivo degli uomini, che creati perfetti da Dio si allontanarono a poco a poco dalla originaria perfezione, alla quale da secoli si sforzano di tornare; e, le due più brevi, del canto sesto sulla intelligenza dei bruti, e dell'ottavo sul consenso universale addotto in prova della esistenza di una vita futura ; trattano ardui problemi filosofici con una lucidità di linguaggio ed un rigore di razio- cinio, non hanno precedenti nella poesia italiana mo- derna. Chi dicesse che quei ragionamenti in versi non 464 CAPITOLO XXII. sono poesia, dovrebbe buttare fra la spazzatura della prosa molta parte del poema di Lucrezio, ed anche alcuni pezzi della Commedia di Dante. Alla semplicità della tela del poema risponde la semplicità della lingua e dello stile, così nella parte discorsiva, come nella narrativa, la quale è rallegrata da descrizioni di scene naturali, che, mettendo sotto gli occhi del lettore i luoghi dove accaddero i fatti, ag- giungono vaghezza ed evidenza alla narrazione. Tutta l'opera letteraria del Leopardi ha del mira- coloso; ma niente è più miracoloso dei Paralipomeni, se si pensa al tempo e al modo in cui furono composti. Il 17 giugno 1837 il Ranieri scrisse a Monaldo an- nunziandogli la morte del figliuolo. < Sappia, gli diceva, che l'angelo, il quale Iddio ha chiamato alla sua eterna pace, ha fatto la più dolce, la più santa, la più serena tranquilla morte. >' Si scusava del non dilungarsi in particolari, per la ftpavmiosa desolazione in cui trovavasi, e prometteva che presto sarebbe tornato a scrivergli. Difatti il 2(5 giugno gli mandava una se- conda lettera, i)iona di notizie, non tutte esattissime, intorno alla morte di (iiacomo, alle suo malattie, alla vita che avevano condotto insieme, alla loro andata a Napoli, ai benefizi che il malato aveva ritratti da quel clima. Kra in fine della lettera un cenno dei pochi oggetti che (ìiacomo aveva lasciati morendo, e l'as- sicurazione ch'egli non era vissuto iti (/rande slretteeea. Questa assicurazione voleva dire che, dove non erano bastati gli Hcar.si denari mandatigli da casa, aveva supplito la famiglia Uanieri. Monaldo rispose che, quanto agli oggetti lasciati dal figlio, non voleva ve-

  • KhopI documtntl oo., pag. 287. Q

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.2 o •5 o .>o <! ^ M g O "« M s Q 5 -< 1 b: 1 M w o C aj o -Ji '\ a^ 1 GLI ULTIMI SCRITTI E LA MORTE. 4G5 der nulla, salvo i libri e le carte. A ciò il Ranieri sog- giunse, che i manoscritti, che Giacomo aveva portati seco da Recanati a Firenze, erano stati consegnati da lui stesso al De Sinner, coni' era notorio in tutta la repubblica letteraria; che a lui Ranieri non resta- vano se non le carte o note relative alle cose composte da Giacomo dopo l'ultima sua partenza da Recanati; < e di queste, diceva, io non posso disporne in altra guisa, secondo l'espressa volontà del nostro amato de- funto, se non servendomene accuratamente per l'edi- zione di tutte le sue opere, che fra non molto si farà in Parigi, e della quale egli m' impose durante la sua malattia, eh' io, quando Iddio avesse disposto di lui, divenissi l'editore. >' Questo che il Ranieri scriveva non era la esatta verità; poiché s'è poi veduto, ed egli stesso lo disse, che possedeva anche altre carte, fra le quali lo Zibal- done; ma egli adempì scrupolosamente al suo dovere di amico, negando di dare i manoscritti che dovevano servire alla edizione delle opere, e riservando a sé il diritto di farsi editore di queste. Se i manoscritti delle cose postume fossero andati nelle mani di Mo- naldo, probabilmente gl'Italiani non avrebbero potuto leggere né La Ginestra, né / Paralipomeni. Per la edizione delle opere, che doveva farsi dal Baudry, il Ranieri si mise subito in relazione col De Sinner, ed aveva intenzione di recarsi egli stesso a Parigi per assistere con lui alla edizione. Poi, non essendo potuto andare, ed essendosi il De Sinner assentato da Parigi, incaricò un amico che recavasi là di trattare della cosa col Baudry; ma questi al- l'ultimo momento, per consiglio del Tommaseo, ritirò la parola che pareva aver data, e ricusò di farsi edi- tore delle opere del Leopardi. Allora il Ranieri fece, per mezzo di quell'amico, stampare a Parigi a sue

  • Nuovi documenti ec, pag. 252, 253.

Chiarini, Leop. 30 466 CAPITOLO XXII. spese I Paralipomeni, ed avvisò al modo di trovare in Italia un editore delle altre opere. Tentò a Napoli, ma invano. Egli aveva una gran paura dei preti, e dei fastidi che gli avrebbero dato per quella edizione; e voleva d'altronde pubblicare gli scritti dell'amico suo integralmente, senza togliere o mutare niente. Di ciò s'era fatto come una religione; e da ciò la dif- ficoltà di trovare l'editore. Finalmente nel 1843 potè, per mezzo del Niccolini, mettersi in relazione con Felice Le Monnier, che aveva da poco cominciato a pubblicare in Firenze la sua Biblioteca nazionale; riuscì, dopo lunghe trattative, ad intendersi con lui; e due anni dopo, in due volumi di quella Biblioteca, furono pubblicate le Opere di Giacomo Leopardi, edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo intendtmento dell'autore, da Antonio Banieri.* Come compimento di questa edizione, il Ranieri cede al Le Monnier il volumetto dei Baralipomeni stampato a Parigi. I materiali che servirono alla edizione erano quelli stessi che il Leopardi aveva preparati e ordinati, prima per lo Starita, poi per il Baudry. L'edizione comprendeva tutti gli scritti in versi e in prosa, editi ed inediti, approvati dall'autore; cioè, i Catiti pubblicati dallo Starita, e riprodotti dal Piatti nella edizione del 1836, con la giunta di due inediti (Il tra- monto della luna e La Ginestra) ; le Operette morali, secondo l'edizione dello Starita per le primo tredici, e secondo l'edizione del Piatti del 1834 per lo altre otto, colla giunta di tre nuove (il Frammento apo- crifo di Stratone da Lampsaco, il Copernico, dialogo, e il Dialogo di Plotino e di Porfirio)] la Compara- zione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto

  • V«di, p«r 1a «tori» di quoiita odixiono, lo Ncritlo di Fkan»

onoo Paolo Lviso: lAioparil « Ranhri, Htorin di tinn odiziono; Firenze, «annoti i, 18W. vicini a morte, edita con le Canzoni ; i Pensieri (centoundici), inediti ; il Martirio dei santi padri, edito dallo Stella ; e i volgarizzamenti in prosa dal greco di Epitteto, di Senofonte, d'Isocrate, e di Giorgio Gemisto Pletone, parte editi, parte inediti. Le cure, anche meticolose, che il Ranieri adoperò perchè l'edizione riuscisse in tutto e per tutto conforme alla volontà dell'autore, non possono lodarsi abbastanza. Ad esse dobbiamo se il Leopardi, poeta, pensatore, artista, fu presentato al pubblico quale egli volle essere conosciuto e giudicato. Ma qui bastava; qui l'opera del Ranieri era finita. Ed egli non aveva diritto d'impedire che altri amici ed ammiratori del Leopardi, i quali non pensavano come lui, facessero quello che a lui non era piaciuto di fare. Il Giordani, appena morto Giacomo, ora andato predicando che si doveva di lui ristampare ogni cosa, anche gli scritti giovanili e imperfetti; e si diede attorno per sollecitare in tutti i modi la pubblicazione di tutte le opere, offrendo la sua cooperazione e i suoi consigli. Scrisse al Ranieri, scrisse al De Sinner, i quali non vollero saperne di lui, considerandolo come un importuno e un intruso. Allora il piacentino, mentre Felice Le Monnier andava stampando i due volumi delle Opere, messosi d'accordo col professore Pietro Pellegrini, e raccolti, coll'aiuto di lui, quanti più scritti potè del Leopardi già editi e rifiutati dall'autore, ne offrì la stampa allo stesso Le Monnier, che fu ben contento di accettarla; e nel medesimo anno 1845 pubblicò un terzo volume delle opere del Leopardi con questo titolo: < Studi filologici, raccolti e ordinati da Pietro Pellegrini e Pietro Giordani. > Il volume era preceduto da una prefazione del Giordani, ed aveva in fine un saggio di lettere del Leopardi ed alcuni brevi scritti del Pellegrini, del Giordani stesso e di Prospero Viani, riguardanti l'autore. Al terzo volume ne tenne dietro ben presto un quarto, che conteneva il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, pubblicato da Prospero Viani sopra il manoscritto da lui ritrovato presso i successori del libraio Stella. Tutte queste pubblicazioni dispiacquero al Ranieri ; ma nessuna lo indispose e lo indispettì quanto quella dell' epistolario, in due volumi, fatta nel 1849 dallo stesso Viani per gli stessi tipi di Felice Le Monnier. Nell'epistolario erano le lettere di Giacomo al padre scritte da Napoli ; fra le altre quella del 3 febbraio 1835 nella quale i Napoletani son chiamati tutti ladri e b.f. degnissimi di Spagnuoli e di forche.1 Ranieri ebbe il torto, a nessuno meno perdonabile che a lui, il quale doveva conoscere l'amico suo, di prendere come scritte per se quelle parole. < Quando mi sentii dichiarato degnissimo di Spagnuoli e di forche, scrisse nel 1853 ad una signora di Recariati, mi soprapprese uno di quegli stupori e di que' silenzi che gli antichi hanno talvolta dipinti nei personaggi del loro inferno, e che la nullità de' tempi odierni non può neanch'io solamente immaginare. >' E per quelle parole e per altre che gli furono riferite, e ch'egli a torto credo oscurassero la fama della sua eroica amicizia per il Leopardi, considerò la pubblicazione dell'epistolario come qualche cosa peggio che una profanazione; e dichiarò che non lo aveva e non lo avrebbe mai letto. Ma gli sdegni irragionevoli del Ranieri non impedirono che quello pubblicazioni fossero accolte con favore dagli studiosi e giovassero all' incremento degli studi leopardiani e alla fama dell'autore. Dei due volumi di scritti giovanili e doll'epistolario furono, dopo la prima, fatte altro edizioni; e, coni'ò naturale, coli' incremento dogli studi leopardiani crobbo negli studiosi il desiderio cho tutto si pubblicasse quanto rimaneva ancora inedito dell'autore, il cui nome andava crescendo ogni giorno. Nel 1878 il Viani pubblicò una Appendice all'epistolario e agli scritti giovanili (Firenze, G. Barbèra, editore), e Giuseppe Piergili un volume di Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti (Firenze, Successori Le Monnier). Nello stesso anno il professor Giuseppe Cugnoni mandò fuori il primo volume, e due anni appresso il secondo, delle Opere inedite di giacomo leopardi pubblicate sugli autografi recanatesi (Halle, Max Niemeyer, editore). Questi due volumi, tutti di cose molto giovanili, comprendevano i Commentarli sui Retori, il Commentario su Esichio Milesio, i volgarizzamenti del Frontone e di Dionigi d'Alicarnasso, l'Orazione agl'Italiani per la liberazione del Piceno, la Storia dell'Astronomia ed altri scritti minori. Nel 1882 uscì pei tipi dei Successori Le Monnier un volume di Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi raccolti e pubblicati dal Piergili. Fra questi documenti erano la descrizione dei manoscritti filologici affidati dal Leopardi al De Sinner, e da questo ceduti poi nel 1858, per mezzo del Vieusseux, alla Biblioteca palatina di Firenze, una nuova appendice all'epistolario, contenente quarantotto lettere di Giacomo, altre lettere d'altri riferentisi a lui, ed alcuni scritti giovanili. Ad accrescere la mole delle lettere leopardiane riguardanti il Leopardi, Emilio Costa, Clemente Benedettucci e Camillo Antona-Traversi misero in luce nel 1888, pei tipi di S. Lapi di Città di Castello, un volume di Lettere inedite di giacomo leopardi e di altri ai suoi parenti ed a lui. Dopo di ciò una nuova e più compiuta edizione dell'epistolario, esaurite appena le precedenti, si mostrava necessaria; e questa nuova edizione fu fatta dal Viani e dal Piergili e pubblicata nel 1892, in tre volumi, dai Successori Le Monnier. Nelle edi

  1. Nuovi documenti ec., pag. 263
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