< Vita e avventure di Riccardo Joanna
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II. La grande giornata
I III

II.

LA GRANDE GIORNATA.

Nella sua lenta e chiaroveggente agonia, il padre gli aveva detto, con la rauca voce dei tisici:

“Riccardo, mi vuoi bene?”

“Papà, perchè mi dici queste cose?”

“Se mi vuoi bene, niente giornalismo.”

Lo sguardo del morente era così lucido di sgomento e di pietà paterna, la intonazione era tanto tetra e supplichevole a un tempo, che il giovanetto balbettò: “.... Niente giornalismo.”

“Niente, niente. Vedi come si muore?” soggiunse, con tutto il rammarico di una vita travagliata e inutile.

E se il funebre testamento di suo padre, consistente in quelle poche parole, non fosse bastato, sarebbe bastato, pel cuore di Riccardo, il ricordo dell’agonia paterna. Lo aveva visto ammalarsi di bronchite, presa uscendo dalla tipografia caldissima all’aria fredda della notte, e trascurare questa bronchite, tossicchiando, con improvvisi abbassamenti di voce, mangiando pasticche di gomma, bevendo qualche cucchiaino di codeina per calmare l’irritazione, ma non tralasciando, ogni giorno, di far l’articolo di fondo e il capocronaca, di compilare i dispacci e di correggere le bozze. La tosse parve finita: ricominciò, dopo una cena all’aria aperta, allo Scoglio di Frisio, dove la stampa festeggiava un commediografo trionfante. Qualche giorno, ogni tanto, quando il raffreddore si addensava sui bronchi, Paolo Joanna lavorava in casa, in una camera mobiliata a Taverna Penta, avvolto in uno scialle da donna che la padrona di casa gli aveva prestato: e il figliuolo, chiuso con lui in camera, guardava scrivere il giornalista infermo dalla faccia accesa e dalla fronte bagnata di un lieve sudore freddo: talvolta Paolo si fermava, pallidissimo, nauseato da quell’odore d’inchiostro fresco. Appena si sentiva meglio, Paolo Joanna esciva, andava in ufficio, con un vecchio fazzoletto di seta rossa avvolto al collo: fermandosi solo per tossire, sospendendo il lavoro solo in quel quarto d’ora in cui gli entrava la febbre, ricominciando appena calmato il turbamento dell’accesso. Poi aveva lavorato in casa, in letto, sopra una tavoletta posata sulle ginocchia, riprendendo fiato ogni momento, appoggiando al mucchio dei cuscini una faccia gialla e sudata. Venivano amici, colleghi, buttavano il mozzicone prima di entrare, ridevano un poco, parlavano di teatri e di politica, restavano poco tempo: qualcuno si chinava all’orecchio dell’ammalato, parlandogli affettuosamente, stringendogli misteriosamente la mano; egli accettava sempre, crollando il capo, ora sorridendo con una malinconia straziante, ora con le lagrime che gli gonfiavano gli occhi. Due volte era venuto il direttore, restando cinque minuti, guardando in aria, pronunciando qualche vaga parola di conforto, lasciando sul tavolino, una volta quaranta lire, un’altra volta trenta. Ritto ai piedi del letto, appoggiato ai ferri, taciturno, coi fieri e malinconici occhi abbassati, il giovanetto Riccardo vegliava suo padre. Due giorni prima di morire, Paolo Joanna aveva ancora scritto un capocronaca, con la mano tremante, respirando a ogni parola, col rantolo lugubre dei polmoni sforacchiati dalla tisi. Nel giorno della morte, aveva ancora preso della codeina, l’inganno eterno dei tisici: aveva sonnecchiato — risvegliandosi, con la mano faceva cenno, ripetutamente, perchè gli togliessero d’intorno qualcosa che lo infastidiva. Il figliuolo non intendeva e tastava gli oggetti, interrogando con lo sguardo il morente: poi intese, raccolse tutti i giornali, li tolse via. Subito il morente si placò. Morì un quarto d’ora dopo, senza soffrire, senza dire nulla, brancicando lieve lieve il lenzuolo: e una pace distese quei poveri tratti affaticati, la serenità augusta della morte nobilitò quel misero volto di lavoratore. Riccardo si mise a urlare di dolore: ma si vergognò dei vicini, tacque. Sopra un tavolino vi erano due lire e otto soldi, avanzo dell’ultima carta da cinque lire, cambiata al mattino: pietosamente la padrona di casa vestì il morto: non vi erano calze decenti da mettergli, Riccardo si cavò le sue che erano meno rattoppate. Il direttore dette centocinquanta lire per i funerali, i colleghi e i tipografi altre centoventi, per sottoscrizione, a piccole quote di cinque, di due lire, di cinquanta centesimi. Al seppellimento tutta la stampa intervenne, e qualcuno parlò dell’operaio umile e laborioso che era morto sul lavoro. Gli astanti pensavano, colpiti da neri presentimenti: e l’orfano guardò la terra discendere nella fossa, vestito di bigio, non avendo avuti i quattrini da pagarsi il lutto. Il direttore fu ancora più pietoso, per tre mesi dette cento lire il mese al giovanotto: dopo, gli procurò un posto di straordinario al ministero di agricoltura e commercio, in Roma. Tutti i giornali lodarono discretamente la bontà del direttore del Tempo.

Quietamente, nella solitudine di uno spirito privo di amore, nella natural fierezza di un grande dolore, Riccardo si acconciò facilmente alla umile sua carriera di impiegato. Quella morte che gli portava via l’unico essere amante, amato, aveva gettato il suo animo in un torpore: e il meccanico lavoro, dalle nove alle dodici, dalle due alle cinque, gli riempiva il gran vuoto del tempo che sentiva intorno a sè. Abitava presso il ministero, in Via della Panetteria, e pranzava anche lì vicino, al Gabbione, in Via del Lavatore. Guadagnava poco più di cento lire il mese: ma in quei primi tempi della capitale, a Roma, la vita materiale era molto facile. Povero, malinconico e superbo, Riccardo non entrava nei caffè, non andava nè al teatro, nè alle passeggiate pubbliche. Quella monotonia di esistenza, quel senso di completo isolamento, quell’austerità di vita e di sentimenti gli sembravano confacenti alla sventura che aveva sofferta. Con la inclinazione dei cuori giovani, egli esagerava volentieri il suo lutto. Del resto non avea idee, non avea progetti: e il naturale ingegno giovanile giaceva sonnolento, inerte, capace solo di quel metodico lavoro di ufficio. Aveva amici, in ufficio: ma non voleva mai discorrere del passato, con loro:

“Abbiamo avuto delle disgrazie,” mormorava.

Tanto, che con quella sua aria aristocratica e indolente, con quel pallore romantico e interessante del volto, con quel silenzio in cui volentieri si rinchiudeva, vari credevano che appartenesse a una grande famiglia decaduta. Il giovanotto si assuefaceva sempre più alla vita di ufficio, vinto dall’abitudine, interessandosi ai pettegolezzi burocratici, odiando o amando il tal superiore, parlando male del ministro senza conoscerlo, avendolo visto entrare in carrozza una volta sola. In due anni cambiò casa una volta sola: andò più su, a Via in Arcione: cambiò trattoria, andò poco distante, al Trevi, frequentato da altri impiegati. Alla domenica, talvolta, si recavano in quattro o cinque a ispezionare i lavori di Via Venti Settembre. Ma non voleva che, lui presente, si parlasse mai di politica: si allontanava, come per una repulsione istintiva. Non comprava mai giornali, non ne leggeva mai: e una volta ripetette quello che un suo collega diceva, macchinalmente:

“I giornali? Tutte bugie.”

Ma rimase male, come se avesse bestemmiato un nome caro. Un giorno, a Piazza Barberini, incontrò un Napoletano, un amico di suo padre, giornalista:

“O caro, caro giovanotto,” e gli battea familiarmente sulla spalla, “come te la passi?”

“Abbastanza bene, grazie.”

“E dove lavori? In quale giornale?”

“Faccio l’impiegato, all’Agricoltura.”

“L’impiegato? Gesù! E che direbbe tuo padre, povero Paolo, se rivivesse? Suo figlio, un travet!

“Egli non voleva che facessi il giornalista.”

“Son cose che si dicono, capirai, nella malattia. In fondo, è un bel mestiere, te lo assicuro. E tu non crepi a fare il travet? Non t’incretinisci?”

“Papà non voleva che facessi il giornalista,” insistette il giovanotto, infantilmente.

“Perchè è morto, poveretto. Se vivesse, ti lascerebbe fare.”

“Forse....” mormorò Riccardo, “forse.... sono troppo bestia, per scrivere.”

“Che! Ci vuole la vocazione, ecco tutto. Se ce l’hai, figlio mio, ti vincerà. Poi, ci è l’eredità: si porta nel sangue, te lo assicuro.”

Riccardo guardava il suo interlocutore, come trasognato: costui soggiunse qualche parola di affetto e si allontanò, ritenendo in cuor suo che il figliuolo del suo amico fosse uno stupido completo. Quella sera, alla trattoria, Riccardo fu nervoso. I suoi colleghi gli sembrarono lievemente imbecilli, con la loro eterna lagnanza sulle ore di ufficio, sulla composizione dell’organico: e per non udirli più, comprò un giornale. Un memore, acre odore gli salì al cervello e insieme uno sbuffo della vita infantile, uno sbuffo di poesia malinconica gli attraversò la memoria. Per un momento egli rivide tutto, in una visione confusa, e viva, e dolce, saloni di trattorie piene di ori e di velluti, macchine tipografiche in movimento, dietroscena di palcoscenici pieni di ombre amiche, monti di giornali che uscivano dalle mani delle piegatrici. Un minuto: poi, tutto disparve. Si portò il giornale a casa, e disteso nel letto, lo lesse religiosamente, da cima a fondo: e brani di frasi gli ritornavano in mente, intieri periodi, la lingua della sua infanzia e della sua adolescenza gli ritornava, gli ritornava, come in sogno. Siamo autorizzati a dichiarare.... sì, sì, era proprio così.... che la notizia era assolutamente infondata. E il capocronaca descrittivo: Sin dalle prime ore della mattina.... come continuava? Continuava così: le vie della città offrivano un insolito aspetto di animazione! Sì, era questo. Il ricordo di quelle frasi giornalistiche si manifestava tenuemente, come un motivo musicale, ancora velato, ancora indistinto: poi si precisava, la cadenza veniva naturalmente. Erano quelle le canzoni, le strane canzoni che avevano cullata la sua infanzia, eran quelle le armonie bizzarre che facevano vibrare gli echi del suo spirito: la musica del suo cuore era quella. La polizia è sulle tracce dei ladri; e ancora l’altra: così il libro della questura. Tutto, rammentava. E una infinita nostalgía lo struggeva.

Ma la fredda quiete mattinale calmò la piccoletta febbre, diradò i sogni e compose ragionevolmente lo spirito di Riccardo. Non gli rimase che uno strascico di malcontento, per cui fu taciturno all’ufficio: e come il giornale della sera innanzi diceva qualche insolenza a un giornale della mattina, egli comperò il giornale della mattina, per vedere la risposta. In breve prese l’abitudine di quella lettura mattinale e serotina: la sua stanzetta fu piena di giornali. Ma leggeva macchinalmente, approfondendo pochissimo la lettura, non interessandosi molto, come un lettore sonnolento. Il lavoro di ufficio, le conversazioni di luoghi comuni, quella vita stereotipata gli avevano assopito il cervello. Pure una vaga malinconia gli era restata, nel cuore, dopo il discorso fatto col giornalista. Quello gli aveva dato del cretino, apertamente: e alla malinconia un po’ di rancore si univa. Che credevano, questi signori giornalisti, di essere una specie rara? Un articolo, su per giù, lo fa chiunque. E questo rancore, questo dispetto crescendogli nell’animo solitario, lo tormentava: una sera comprò della carta, e macchinalmente la tagliò in cartelle, come aveva veduto fare a suo padre: gli parve di sentirsi passare un soffio sul viso, si fermò, trasecolato, chiudendo gli occhi, vedendo apparire nella fantasia un volto cereo, con gli occhi socchiusi, le labbra violette. Lasciò tutto, spaventato, uscì di casa, perseguitato da un’idea, da un’ombra cara e dolente, da una voce rauca che gli diceva: se mi vuoi bene.... se mi vuoi bene.... Entrò nel Caffè Cavour, a Piazza Colonna, dove non andava mai. Si voleva sottrarre a quella persecuzione. Si unì a uno studente, due impiegati, un cronista di giornale che sedevano a un tavolino, discutendo di politica. Lo studente era collerico, gli impiegati erano flemmatici: il cronista crollava il capo, gravemente, contraddicendo tutti; Riccardo taceva. Poi il cronista parlò a lungo, sottovoce, nominando familiarmente il Minghetti e il Visconti-Venosta, riferendo un colloquio del Re col Sella — e aveva, nel suo dire, certe intonazioni, certe reticenze, certi ammiccamenti d’occhio, certi abbandoni di confidenza, certe riserve di persona discreta, sì che lo studente aveva finito per ascoltarlo attentamente, come convinto, e i tre impiegati erano meravigliati, quasi commossi a quelle confidenze. A un certo momento, Riccardo, per sottrarsi a quella malía, volle contraddire: ma superbamente il cronista gli rispose:

“Nessuno può essere informato come me.”

E invincibilmente, la sera seguente, Riccardo ritornò alle sue cartelle bianche e con molto stento, fumando, alzandosi e passeggiando, ritornando a sedere, scrisse un articolo di politica estera, intitolato: La situazione, lungo, imbrogliato e molto enfatico. Erano le due del mattino quando ebbe finito, e tutti i suoi nervi vibravano, un lieve tremore gli agitava la mano sinistra. Si sentiva l’animo gonfio, di amore, di dolore, di pensieri, di parole, tutte cose che volevano sgorgare, che non sapeva a chi dire: si sentiva un tumulto profondo nel cuore e un grande vuoto intorno. Per farsi animo, lesse ad alta voce il suo articolo, declamando: alla fine, esaltato dalla sua voce, dalle sue parole, credendo alla verità di quello che avea scritto, pianse.

L’indomani corresse qualche frase, aggiunse delle virgole, copiò in pulito l’articolo, lo mise in una busta e lo indirizzò alla direzione del giornale politico del mattino che, sebbene ancora molto giovane, era già molto forte. Per otto giorni Riccardo aprì il giornale con un tremolío interno, sperando di veder pubblicato il suo articolo. Nulla fu pubblicato. Scrisse una letterina dignitosa, dando il suo indirizzo, richiedendo il suo manoscritto, che gli serviva. Niuno gli rispose, mai. Rifece la prova, due o tre altre volte, dopo settimane di esitazione, mandando degli articoli così intitolati: Dove andiamo?Il voto di ieri.Il fallimento della politica. Nessuno di essi fu pubblicato. Allora una sfiducia grande lo colse: e si sentì sprofondare in una miseria spirituale, donde niuno lo avrebbe mai tratto.

Ma mentre le ore della giornata gli si facevano sempre più tetre, le ore della sera erano un sollievo: si andava a ficcare nel Caffè Cavour, al caldo del gas divampante, fra il fumo dei sigari e l’odore pesante di zucchero che è in ogni caffè: ivi, nel solito crocchio di studenti, impiegati e giornalisti di second’ordine, avvenivano le grandi discussioni di politica e di letteratura. Gli studenti si riscaldavano, coi cappelli buttati indietro sulla fronte, le facce concitate, gli impiegati mettevano ogni tanto una nota scettica e i giornalisti avevano sempre la loro aria liturgica di sacerdoti che pontificano. Riccardo, nella prima ora taceva, obbedendo alla naturale selvatichezza del suo carattere: ma a poco a poco il calore dell’ambiente e l’andirivieni delle persone e certi odori di liquori, certi aromi di rosolii, e i discorsi gli davano un eccitamento nervoso. Per istinto di aristocrazia contraddiceva la opinione dei più, pur conoscendone, talvolta, la ragionevolezza: e per non consentire alla volgarità, il paradosso fioriva dalle sue labbra e scandalizzava i suoi ascoltatori. Sulle prime impacciato a discorrere, non trovando facile nè la frase, nè la parola, non vedendo ancora tutti i lati di una questione, non aveva la forza di sostenere il suo paradosso e si lasciava dare addosso dagli avversari, non sapendo che cosa ribattere. A casa, solo solo, continuando quello stato di esaltamento, egli difendeva brillantemente la sua idea, parlava ad alta voce, allo scuro, rivoltandosi nel letto, non potendo dormire. Spalancando gli occhi, nell’ombra, egli vedeva scritte le sue parole, a linee sottili e fitte: e gli sembravano belle ed efficaci, e se ne innamorava e sospirava penosamente, dopo, più tardi, pensando che tutto questo era inutile, che nulla mai avrebbe potuto fare di meglio che formulare pratiche e abbozzare decreti. Ma come le sedute serotine al caffè si prolungavano e il crocchio era già di sette od otto persone, Riccardo si fece più audace, sosteneva coraggiosamente le sue opinioni, per quanto bizzarre esse fossero, per quanto egli ne sentisse la bizzarria. Uno spirito di pugna nasceva nell’anima di quel povero impiegato, un’acre voluttà di combattimento lo teneva, e si faceva impetuoso, e mentre nelle ultime ore della serata egli diventava feroce, i suoi amici lo ascoltavano inerti, inebetiti dal fumo e dall’ambiente artificiale. Un impiegato delle poste, specialmente, era l’ammiratore più ingenuo di Riccardo, era quasi un compare, tanto aiutava Riccardo con la mimica della meraviglia e dell’ammirazione: alla notte lo accompagnava sino a casa, ascoltandolo ancora, col pomo della mazzettina appoggiato alle labbra, approvando col capo, approvando sempre:

“Perchè non fai degli articoli? perchè non scrivi nei giornali?” gli domandava ingenuamente.

“No, no,” mormorava Riccardo, “ho promesso....”

“Che cosa?”

“Niente, niente, non puoi capire....”

Invero la promessa non lo tratteneva più, le visioni paterne non arrivavano a diradare la sua febbre. Ora, nelle conversazioni serotine, dove egli parlava quasi sempre, ritenuto come un oracolo di stravaganza, il suo spirito si sviluppava dai pesanti ravvolgimenti che lo avevano tenuto inerte tanto tempo. Come a tutti gli ingegni fatti di fiamma, a lui non convenivano, per il naturale germoglio dell’intelligenza, i lunghi studi solitari nelle biblioteche, nel silenzio della stanza deserta: a lui si convenivano le discussioni infocate dei caffè e le arringhe notturne nelle strade brune di Roma, e la lettura rapida, quotidiana di molti giornali. Dal torpore una vampa d’ingegno guizzava; dal silenzio una voce concitata si levava, come lama scintillante esce dal velluto della guaina. Non dai libri gli veniva la scienza, nè dalle contemplazioni taciturne della vita, nè dalle cose e dagli uomini antichi; ma dalle concioni a gente mediocre che ascoltava, estatica, ma dall’urto quotidiano di una vita ardente e desolata, ma dalle cose e dagli uomini dell’oggi. Come Faust, egli disdegnava e l’alchimia e la medicina e la filosofia: ma il momento che fuggiva lo innamorava, e tendeva le braccia, quasi ad arrestarlo.

E il momento era strano. Un grande soffio d’impopolarità cominciava a circondare gli uomini di pensiero che avevano condotto sino allora le cose pubbliche; il paese si stancava di dover chiamare giusti tanti Aristidi; gli uomini volgari, arsi dalla sete del potere, si ostinavano sempre, si moltiplicavano, creavano interessi, si organizzavano con la potenza degli esseri mediocri. Quelli che pensavano, sentivano già la solitudine; ma alcuni si affidavano, alcuni contemplavano serenamente il sopravvegnente infortunio politico della loro parte; altri, già stanchi, lo desideravano, per riposo. I volgari facevano la voce grossa, nei caffè, nei circoli parlamentari, nelle piazze, nelle trattorie, e il combattimento si andava allargando. Riccardo era con quelli che scendevano, naturalmente, per delicatezza di spirito, per spontaneo sentimento di nobiltà: mentre i giovani, intorno a lui, eccitati dai desiderii di miglioramento, avendo amici, protettori, fra quelli che dovevano essere i vincitori, andavano facendo propaganda per gli uomini nuovi. Onde Riccardo era solo contro tutti quelli del suo crocchio; e spesso la discussione si esasperava.

“Bada che se Tal de’ Tali diventa ministro, ti destituisce subito,” gli dicevano canzonandolo.

“Se diventa ministro, io mi dimetto,” diceva lui fieramente.

E con la freddezza di chi prende la mesata ai ventisette del mese, e quella sola cosa desidera e ama e possiede, qualche suo collega gli soggiungeva:

“Ma perchè ti riscaldi? Che t’importano queste cose? Sei un deputato, forse, o un giornalista?”

“È vero,” rispondeva lui, quietandosi subito.

Giacchè più i giorni passavano e più si facea profondo il dissidio fra la realtà e i suoi sogni. Tutte quelle cose che diceva, che pensava, tutte quelle esercitazioni brillanti della mente non servivano a nulla. Quando rientrava a casa, sentiva tutta la miseria della sua esistenza ripiombargli sulle spalle; la sua meschinità, la sua grettezza lo umiliavano. Che era lui? La mattina un umile impiegato ignoto: la sera un vano chiacchierone da caffè. Chi lo conosceva? Tre o quattro imbecilli, al mattino: sette od otto inebetiti, la sera. Il suo più caldo ammiratore era quell’impiegato della posta, una buona pecora umile e affettuosa, che gli diceva:

“Tu dovresti esser ministro, Riccardo.”

Più il tempo passava e più si faceva cocente in Riccardo il sentimento della propria nullità. Divorato dal desiderio di elevarsi, il lavoro di ufficio gli pareva vile, lo faceva a stento, sempre di pessimo umore, sempre malcontento, sbagliando spesso, attirandosi delle lavate di testa che lo rendevano più tetro che mai. La compagnia della sera gli era diventata incresciosa, la sfuggiva, andava a passeggiare solo, per le strade di Roma, così piene di mistero e di solennità, crogiolandosi amaramente nella sua misantropia. L’onda dei ricordi lo assaliva con un urto fiero: e del passato egli non rammentava le dolorose mattinate senza denari, ma i pomeriggi allegri nell’approssimarsi del pranzo; non rivedeva le facce arcigne dei creditori, ma le belle facce dipinte e sorridenti delle attrici; e della vita raminga, senza tetto, senza letto, vissuta un giorno per l’altro, senza idea di avvenire, egli non sentiva, no, orrore: egli ne sentiva di nuovo l’irresistibile attrazione. E gli pareva che la malattia avesse reso suo padre profondamente ingiusto, facendogli fare quella rinunzia: e tutti i suoi nervi fremevano di desiderio, tutto il suo sangue dava un tuffo, alla speranza di ricominciare, giovanotto, quella esistenza spensierata, noncurante, senza coscienza del futuro, senza rimpianti di passato. A che era servito il lugubre scongiuro del padre? Il vecchio sangue giornalistico, rinnovato e giovane, bolliva: nel temperamento sensibile del giovanotto erano impressi, incancellabili tutti gli usi quotidiani della vita giornalistica, le ore di tipografia, le corse precipitose da una conferenza a un funerale, gli articoli scritti di notte, coi compositori che vengono a strappare le cartelle ancora fresche d’inchiostro, le esaltazioni artifiziose dei grandi avvenimenti — e buttato sul suo lettuccio egli piangeva, sì, piangeva di dolore e di collera, non potendo rivivere quella vita.

Ma dove convergevano i suoi desiderii e le sue invidie nascoste, era a un giornale del pomeriggio, il giornale bello e spiritoso e forte dove scrivevano i migliori scrittori d’Italia. Molto era il valore di questo giornale e molta era la sua fortuna: ma fra il pubblico la leggenda ingrandiva e valore e fortuna, talchè si parlava di migliaia, migliaia e migliaia di copie vendute, e si accennavano cifre assai rispettabili come compenso ai collaboratori. E si almanaccava sugli pseudonimi e si assegnavano nomi di ministri come autori di certi articoli: e del mordente spirito del giornale molto si rideva, da quelli che non ne eran colpiti, e i colpiti fingevano di divertirsene, ma assai se ne dolevano segretamente. Vi era stato qualche duello fortunato, e il giornale n’aveva avuto maggior decoro: talchè, per la sua elevatezza e per la sua fortuna, anche gli avversari lo rispettavano. Riccardo era innamorato di quel giornale, e quasi lo imparava a memoria ogni sera: e gli sembrava una costruzione alta, solida, fortissima, inaccessibile. Nei suoi deliri di ambizione giornalistica, collaborarvi sarebbe stato per lui la felicità suprema. Ne parlava con emozione, sottovoce, come di una persona adorata: e quanto vi si scriveva, gli sembrava giusto, onesto e grande. Talvolta, nelle due ore di libertà, dopo il mezzogiorno, andava a passeggiare in Piazza di Montecitorio, sogguardando la porticina miracolosa: e tutti quelli che vi accedevano, gli sembravano persone privilegiate, felici. Due volte aveva avuto il coraggio di salire anche lui, a chiedere dei numeri arretrati, ed era restato in anticamera, commosso, fra quegli armadi a caselle, accanto al tavolone coperto di fasce, non osando guardare attraverso i cristalli ovali delle porte imbottite di lana verde: se ne era andato via, malinconico come un esiliato. A furia di passeggiare in Piazza di Montecitorio, aveva imparato a riconoscere il direttore, un piccoletto, dalla barba bionda e dagli occhiali d’oro: accanto a lui andava spesso un ometto rotondo, dal mustacchio nero e dagli occhi vivissimi — ma costui Riccardo non sapea bene chi fosse, un redattore sicuramente. Egli li guardava con una certa tenerezza, pensando che in quel momento essi forse architettavano uno di quei brevi ma eleganti edifizietti di prosa, dove era così leggiadra la disinvoltura e così simpatica la fierezza di chi sa.

“Se cade il suo partito, vedrai che calo fa il giornale....” gli diceva un rabbioso studente che voleva gli uomini nuovi.

“Non può morire: è immortale come tutte le cose fatte di pensiero,” rispondea superbamente Riccardo.

Ma in cuore suo un rancore col giornale suo prediletto ce lo aveva. Tre volte gli aveva mandato degli articoli: mai nulla era comparso. Eppure gli sembrava che fossero il fior fiore della sua intelligenza, il primo e puro germoglio, quella primizia innocente e forte che va a morire quasi sempre ignota in un cestino di carte stracciate. Ma come si comincia, dunque? Ma che avevano fatto per sbucare, quelli che erano lì, felici, parlando, ogni mattina, a centomila lettori? E una voglia pazza gli veniva, di sera, incontrandone uno per la strada, di chiedergli il segreto di quel grande primo passo.

— Non riescirò mai, — diceva fra sè disperato.

Ne ammalò. Ebbe una febbre biliosa che degenerò in febbre di malaria: e nelle ore di intervallo fra una febbre e l’altra, lo teneva lo stordimento del chinino preso. Sperava assai di morire. Non lesse giornali per un mese e mezzo, volendo dimenticare. Ma in un’ora di debolezza, egli ne aperse uno, il solito, quello che amava. Leggeva, senza intendere, infiacchito dalla infermità e dalla esorbitante vita interiore. L’avviso con cui la direzione cercava un correttore lo fece trasalire. Poi si vergognò di sè stesso: certo la debolezza lo rendeva vigliacco, ora, gli consigliava una umiliazione troppo grande! Cercò di distrarsi, di non pensarvi: ma invano. E l’anima gli suggeriva transazioni: nessun lavoro era indecoroso, nessuna opera umile era da disprezzarsi. Che cosa era lui per tenersi così alto? un misero impiegato, alla fine, e il lavoro del ministero, poco diverso, era dunque anche una vigliaccheria? Invano, invano, il poveretto cercava di difendersi dalla tentazione, era inerme, era debole, era indifeso — e la tentazione nelle ore di convalescenza si faceva più viva, il desiderio di viver là, in un ufficio di giornale, si faceva sempre più pungente, sempre più forte: e gli pareva già di essere lì, fra quell’odore di polvere stantía, fra i fasci della carta bianca, innanzi a quei calamai profondi e melmosi, tenendo una di quelle penne grosse e corte, tutte morsicchiate alla cima dalla nervosità del redattore avido di idee, scrivendo su quelle cartelle bianche, empiendo di segni cabalistici quelle cartelle giallognole e molli che sono le bozze di stampa — gli pareva di esser già lì, nell’ingranaggio, rotellina minuscola della macchina possente, granello di polvere travolto in quel turbine quotidiano, lieto di quel travolgimento, felice nella sua umiltà — e tendeva le braccia, come un bimbo alla madre, invocando.

“O papà, o papà, come posso fare?” gridava, come un fanciullo ammalato.

Ma un’ultima vergogna lo colse, in Piazza Montecitorio, quando andava a offrirsi. Una fiamma colorì il suo volto bianco e bello di convalescente: ed esitante, si mise per la Via degli Uffici del Vicario, voltò per la Maddalena, uscì al Pantheon, camminando meccanicamente, fremendo all’idea di esser preso per un mendicante. Fu più forte di tutto la passione, e Riccardo ritornò per Piazza Capranica, deciso, affrettando il passo, volendo abbreviare quella prova. Era di domenica: per le scale dell’ufficio, tre o quattro persone scendevano, discutendo e ridendo: egli chinò il capo, salì presto:

“Vorrei parlare al redattore capo.”

“È occupato: abbia la bontà di aspettare,” disse l’usciere con una certa cortesia importante.

Mentre Riccardo passeggiava su e giù, non volendo sedersi, non volendo aver l’aria del mendico che aspetta pazientemente l’elemosina, un andirivieni continuo agitava quell’anticamera. Signori affaccendati entravano, penetravano in redazione senza farsi annunziare, stavano un momento, uscivano di nuovo, distratti, assorbiti; giovanetti tipografi in blusa azzurra macchiata d’inchiostro, col berretto di carta, entravano precipitosamente, partivano correndo; il portalettere delle raccomandate era in conferenza coll’amministratore, dritto innanzi al suo tavolino, con la sacca di pelle nera aperta, donde estraeva i plichi. Nessuno badava a Riccardo che passeggiava, aspettando: egli si sentiva in mezzo a un largo mondo di operosi indifferenti, in mezzo a un organismo forte, ma concentrato in quei tali elementi. Due volte si avvicinò alla porta, per andarsene, ma l’usciere manco si voltò. Lui rimase, pazientando: ma questo redattore capo, chiuso nel segreto della sua stanza, presso cui tanta gente entrava, quest’uomo che ogni minuto faceva squillare il campanello elettrico, breve, come un comando imperioso, assunse nella immaginazione di Riccardo proporzioni fantastiche. Non era egli dunque un sacerdote orante in fondo a una cappella? Non era dunque un signore possente e misterioso, di cui si sapeva il nome, ma che i pochi, i privilegiati soltanto arrivavano a vedere?

“Passi,” disse l’usciere, ritornando.

Riccardo attraversò un salotto dove non ci era nessuno, una stanza dove due uomini scrivevano, ma che non alzarono neppure il capo. Questo redattore capo sedeva in fondo alla terza stanza, dietro uno scrittoio che pareva una fortificazione di legno e di carta: ed era un bell’uomo alto e robusto, dal mustacchio brizzolato, dagli occhi dolci e arguti. Scrisse qualche cosa sopra un pezzetto di carta, chiamò l’usciere, glielo consegnò, poi alzò il capo e disse a Riccardo:

“Lei cosa vuole?”

L’intonazione era mite, ma di uomo distratto.

“Venivo.... per quel posto di correttore....” mormorò il giovanotto.

“Abbiamo molte richieste.... ma, si vedrà.... lei si chiama?”

“Riccardo Joanna.”

“Non fa altro?”

“Sono al ministero di agricoltura.”

“Ah! S’intende di correzione?”

“Mio padre era giornalista,” rispose Riccardo, sottovoce.

“Dove?”

“Al Tempo, di Napoli: un povero giornale,” e ingoiava a stento.

“Sa l’orario? Bisogna venire dalle quattro alle sette.”

“Sissignore; potrei anche venire da mezzogiorno alle due.”

“Non servirebbe. A rivederci, signore.”

“Debbo ritornare?”

“Ritorni.... mercoledì, sì, mercoledì.”

E chinato il capo si rimise a scrivere. Riccardo se ne andò, col sangue alla testa, senza neppure chiedere che onorario vi sarebbe stato. Era precipitato giù, al fondo di tutte le sue speranze. Sperava, aveva sperato che questo redattore s’interessasse a lui, che lo interrogasse, che lui, infine, potesse confessare il suo desiderio di scrittore assolutamente inedito: sperava che sentendolo figliuolo di giornalista gli avesse chiesto di suo padre, largamente: aveva l’aria così bonaria, quel signore, che Riccardo gli avrebbe buttato le braccia al collo alla più piccola parola affettuosa. Ma come tutte le persone molto occupate, quel signore gli aveva detto cortesemente quello che era necessario, e niente altro. Ma Riccardo era fuori della realtà: quel ricevimento così semplice gli pareva una crudele delusione. Decise di non ritornare, nè il mercoledì, nè mai: si pentì di esser salito lassù, dove nessuno si curava di lui, dove di lui nessuno voleva sapere: e giurò e sacramentò di non leggere mai più il giornale, di non leggere mai più nessun giornale, di non parlare mai più nè di arte, nè di politica. Ma il mercoledì era ancora in Piazza di Montecitorio, desiderando quello che aveva disprezzato tre giorni prima, ritraendo una quantità di pronostici dalle cose. — Se incontro un cavallo bianco, buon segno — ma non ne incontrò. — Se vedo un gobbo, buon segno — e ne incontrò uno, verso gli Orfanelli, un gobbo vero, gobbo davanti e di dietro. Pure esitò ancora, prima di salire, prese un wermouth al caffè, per rianimarsi. Oh avrebbe parlato, oggi, a questo redattore capo, lo avrebbe forzato ad ascoltarlo, con l’eloquenza del dolore, gli avrebbe detto, gli avrebbe raccontato tutto!

Trepidante, salì su: e dette il suo biglietto da visita all’usciere, perchè lo portasse di là, al redattore capo.

“Lei è il signor Joanna?” chiese l’usciere, un Toscano.

“Sissignore.”

“Ho una lettera per lei.”

E la trasse di sotto un mucchio di fasce. Riccardo la tenne in mano un momento, senza leggerla; e gli pesava fra le dita, come piombo. La lesse con uno sguardo solo: era accettato per correttore, poteva cominciare il suo lavoro dall’indomani. Confusamente egli salutò e andò via, pieno di dolcezza e pieno di amarezza. Ecco, ora si sentiva depresso, abbattuto, dopo i grandi eccitamenti febbrili dei giorni decorsi: e una stanchezza mortale gli spezzava le gambe. Tornò al ministero, salì dal capo divisione, per pregarlo di modificargli l’orario, preferiva andare in ufficio dall’una alle quattro:

“Avete trovato qualche altra occupazione?”

“Sì, signor Commendatore.”

“E di che si tratta?”

“È al giornale Baiardo.”

“Mi congratulo tanto: leggeremo la vostra prosa.”

Riccardo non rispose: solo era un po’ rosso in viso, vergognandosi della bugia che egli accreditava col suo silenzio. Subito, il capo divisione gli accordò il permesso. E in tutto il pomeriggio, a pranzo, al Caffè Cavour, la voce circolò, e tutti gli domandavano, un po’ increduli, un po’ invidiosi:

“È vero che sei al Baiardo?

“Sì,” rispondeva lui, debole, vile, non osando confessare la verità.

Ma il più commosso fu l’impiegato postale. Con l’occhio umido e la voce un po’ tremante, fece le sue congratulazioni all’amico, facendogli notare che lui glielo aveva sempre pronosticato uno splendido avvenire, che la fortuna di Riccardo Joanna egli la considerava come la propria fortuna, che oramai avrebbe comperato il Baiardo ogni giorno, per leggere gli articoli del suo migliore amico:

“Io me ne accorgerò dallo stile, se sono tuoi: ma tu avvertimi sempre, quando ci è qualche cosa di tuo, non ti scordare! Avvertimi, sai.”

“Ti avvertirò,” mormorava Riccardo, internamente disperato.

A casa, nauseato di sè, degli amici, della vita, dormì profondamente del sonno delle anime intorbidate. L’indomani, alle quattro, nervoso, non sapendo quello che avrebbe fatto, era all’ufficio del Baiardo: e l’usciere lo introdusse in un camerottino, dove ci era il posto soltanto per un tavolino, una sedia. Sulla parete un calendario con una grossa Italia gialla e rossa, era appeso, e sul legno del tavolino l’altro correttore, o un redattore, aveva disegnato dei profili femminili, un biglietto da mille lire, aveva scritto qualche frase, qualche freddura. Il redattore capo entrò, salutò:

“Ora le portano le bozze. Molti a capo, mi raccomando.”

Niente altro. Riccardo entrava nel giornalismo per la scala di servizio, come un muratore che venga a portare della calcina, come uno spazzacamino che venga a pulire la cappa del camino dalle fuliggini. Perchè non prendeva il cappello e andava via, se aveva un acino di dignità? Ma un piccolo di stamperia entrò, gli posò innanzi un fascio di bozze tutte molli e scappò via. Quando la sua penna si posò sulla carta e corresse il primo errore tipografico, una lettera capovolta, egli si sentì vincolato per sempre: la sua dedizione era completa. L’opera sua procedeva lenta lenta, ancora un po’ inesperta, egli cercava di ricordarsi del tempo quando aiutava suo padre alla correzione delle bozze: come l’ora passava, altre bozze giungevano, egli vedeva con un certo spavento accumularsi il lavoro, si confondeva, solo solo, nel crepuscolo triste di fuori, tristissimo nella penombra del camerottino. Si sbrigò alla meglio, trascurando varie correzioni: gli portarono le due prime pagine, già pronte alle cinque, tutte umide. Quella correzione delle pagine non l’aveva mai fatta, restò confuso, non sapendo dove mettere i segni: per fortuna vi erano pochi errori, li trasportò alla meglio, in cima o in fondo alla pagina. Durante il suo lavoro non aveva visto nessuno, chiuso nel suo gabbiotto, preso dallo stento della sua inesperienza.

“Viene in tipografia a correggere la terza pagina?” chiese il piccolo.

“Vengo.”

Era lì presso, in Piazza Montecitorio. Il redattore capo, in uno stanzino, compilava un telegramma: un vecchio magro, una figura melanconica e romantica e simpatica da don Chisciotte, scriveva le informazioni dall’altra parte del tavolino. Non ci era posto per Riccardo: il proto gli accennò un leggío di legno, un seggiolone alto. Ivi, sotto la vampa del gas, Riccardo corresse la terza pagina. Non vi era altro da fare: se ne andò, senza salutare, insalutato, mentre redattori, proto, tipografi, macchinisti erano assorbiti da quel calore dell’ultima mezz’ora. Erano le sette: al Trevi non vi era più nessuno, le vivande erano scarse, gli impiegati che pranzano alle cinque e mezzo avevano consumato quasi tutto, Riccardo mangiò di pessimo umore. Al caffè, il Brandi, l’impiegato postale, gli chiese subito:

“Ebbene, vi è nulla di tuo nel Baiardo?

“No, non ancora.”

“Non farmi segreti,” ribattè l’altro, con la sua aria di volpe fina, “io me ne accorgo, sai, ti conosco allo stile: tutto possono insegnarmi salvo quel che pensa e quel che dice Riccardo Joanna!”

Un altro gli chiese:

“È vero che il ministro degli esteri avrà un voto di sfiducia al suo bilancio?”

“Io non lo so,” rispose Riccardo, seccato assai.

“Non vuoi dirlo. Tutti così, voialtri giornalisti!”

Il suo cómpito di correttore continuò, quotidiano, in quel camerottino solitario, sotto gli occhi rotondi e spiritati della grossa Italia del calendario, senza incidenti, senza che mai nessuno venisse a visitarlo, senza che egli conoscesse neppur uno della redazione. Ogni tanto il redattore capo, il bell’uomo a cui era mancato il pubblico, perchè diventasse un Girardin, tanti erano i giornali che aveva fondati e di cui si era felicemente disfatto, entrava nel camerotto e raccomandava certe correzioni a Riccardo, gli a capo, massimamente: il lettore si stanca della prosa unita, fitta — e usciva via subito, chiamato dal lavoro. Di là, Riccardo udiva spesso un grande andirivieni, talvolta arrivavano a lui discorsi e risate, discorsi dove l’accento toscano vivacissimo superava qualche pronuncia napoletana o lombarda: ma non ardiva andare di là senza essere chiamato, non vedeva mai i redattori. Il Baiardo continuava ad essere per lui un tempio misterioso, dove si pontificava, recitando le spiritose litanie della politica e dell’arte, da sacerdoti sconosciuti. Al caffè, la sera, gli domandavano:

“Joanna, dicci dunque chi è Molosso?

“Non so.”

“E Stellino, lo sai: chi è Stellino?

“Neppur quello.”

Gli amici restavano scontenti: si seccavano che egli volesse mantenere il segreto, quando la loro più viva curiosità erano appunto quelli pseudonimi, quando le loro più ostinate liti erano per saper chi fosse Neera, un uomo o una donna, per assodare se De Amicis era proprio Furio.

“E tu, come firmi?”

“Non ho deciso ancora.”

“Va là, che non vuoi dirlo!”

Questi tormenti serotini gli facevano odiare il caffè e la gente e tutti: trovava che la punizione della sua bugia era troppo grande. Non sapeva prendere un’aria disinvolta, non voleva inventarne altre delle bugie, anche la prima era stata involontaria. E temeva forte che si scoprisse, che i colleghi del ministero, del caffè appurassero che egli era un misero correttore, un povero muratorello della stampa che metteva un po’ di calcina nei buchi del bell’edifizio. Quelle sue risposte troppo evasive, quella sua ignoranza avrebbero dato nell’occhio, certamente: e saputa la verità, quante beffe, che ironie, che umiliazione! Trascinato da un falso amor proprio, una sera, al caffè, disse:

“Leggete l’articolo di fondo: è del direttore, è molto bello.”

“Firma Baiardo?

“Sì.”

“Come va questo? Se il direttore è in Lombardia, nella villa del nostro direttore generale,” disse un impiegato alla guerra.

“Sarà ritornato,” mormorò, arrossendo, Joanna.

Non tentò più. Si lasciò andare, per una settimana, al lavoro di correzione, meccanicamente. E quel lavoro, ora se ne accorgeva, lo aveva privato del suo grande piacere quotidiano, serotino: la lettura del Baiardo. Prima, nel tempo della indipendenza, quando ancora non aveva sporto i polsi volontariamente alle catene, la prosa di Fantasio, ora argutamente scettica, ora malinconicamente sarcastica, sempre piacente, sempre originale, gli procurava un delicato piacere spirituale: la prosa di Scapoli aveva una eleganza muschiata, un profumo di salotto, una piacevolezza serena che lo trasportava in un ambiente aristocratico: la prosa di Neera aveva il calore e l’attrazione della simpatia. Quella lettura di giornale, alla sera, prima, era per lui una soddisfazione raffinata dello spirito: a cui si aggiungeva il bel piacere della sorpresa, quello schiudere il giornale, ignorandone ancora il contenuto e ogni sera avere l’impressione gradita.

Ma ora, ogni giorno egli rimetteva a posto le lettere capovolte nell’articolo di Fantasio, metteva in corsivo qualche vocabolo francese adoperato da Scapoli, e aggiungeva gli a capo alla prosa della scrittrice lombarda. Questo riattamento macchinale, questo lavorío minuto, fatto sulla parola, gli faceva sfuggire il senso di quello che leggeva: e il tratto spiritoso, dove una lettera maiuscola era minuscola, lo lasciava freddo; i versi dove mancavano le virgole, non gli facevano apprezzare la dolcezza della poesia; il periodo dove il tipografo aveva dimenticato le interlinee, ronzava nella sua testa, senza che egli ne intendesse il significato. Cercava di rilegger posatamente, dopo fatta la correzione; ma quella pioggia di segnetti neri lo irritava, e buttava giù le pagine, annoiato. Nella serata tentava di leggere il giornale, come un lettore qualunque, ma ciò non gli dava più nessun piacere, mancava qualunque sorpresa, egli sapeva tutto, chiudendo gli occhi rivedeva la misura dell’articolo e il titolo e la firma, rivedeva tutti quei geroglifici delle correzioni, gli angoli acuti, i triangoli, le sbarrette, gli ovali: le sue delizie intellettuali andavano sparendo ogni giorno. Come il tempo passava, gli nasceva nell’animo irrequieto e sensibile, vivacissimo alle nuove impressioni, un disgusto di quella prosa politica e letteraria: il vederla scorretta, nella confusione tipografica delle prime bozze, infiorata di strafalcioni, qua e là macchiettata di errori di grammatica commessi dai compositori distratti, spesso sconvolta, coi periodi trasportati, nel disordine mattinale di una bella signora troppo mondana a cui è necessario un po’ di cosmetico, toglieva a Riccardo tutta la poesia della bellezza letteraria. Una delusione grande, uno scetticismo nuovo andavan crescendo in lui: come in coloro che sono destinati dalla loro professione a essere in contatto con la nuda forma delle cose umane, non per anche adorna ed accarezzata dall’arte ancora grezza, ancora rudimentale. Riccardo era come il medico che non crede più alla coscienza, come il sarto che non crede alla bellezza delle forme, come il parrucchiere che disprezza le folte capigliature naturali da cui si può trarre poco partito. Quando sentiva lodare quel tale articolo per la sua giustezza, per la sua semplicità, per la sua lindura di forma, egli alzava le spalle, infastidito, pensando quanto gli era parsa brutta quella prosa, nella sconclusione delle bozze, tutta piena di refusi, talvolta comicissima per il senso cangiato dagli errori.

Così il Baiardo perdette un lettore amoroso. Due o tre mesi di correzioni avevano fatto nascere in Riccardo quella strana ma fatale infermità dei giornalisti, la repulsione dal proprio giornale, repulsione istintiva, invano combattuta, talvolta gelosamente nascosta, spesso scetticamente confessata. Nessun direttore di giornale è capace di rileggere attentamente tutto il proprio giornale, e i pochi che ne leggono una parte, lo fanno distrattamente, senza vedere bene quello che vi è: l’occhio giornalistico così fine nel trovare in sedici colonne di un altro giornale, il periodo, la frase, la parola che lo interessano, s’appanna, s’intorbida leggendo il proprio giornale. Il povero correttore soffriva di questo innocente ma non innocuo morbo, come se anche lui scrivesse, come se anche lui fosse nauseato di rileggere la propria prosa.

“Che vi è stasera, nel Baiardo?” domandava il Brandi con molto interesse.

“Le cose solite, credo,” scappò detto, una volta, a Riccardo, annoiato e impazientito.

Ma uno dei maggiori suoi crucci, il segreto rancore che aveva contro i redattori del Baiardo, era la loro invisibilità. Nessuno veniva mai da lui: e pochissime erano le occasioni di andare nelle altre stanze. Una sera, in tipografia, vide un signore alto e biondo, dalla chioma militarmente tagliata a spazzola, dagli occhi chiari, che parlava col redattore capo, sviluppando un po’ il torace, avanzando un po’ la gamba destra: del resto parco di gesti, signorile, freddo. Chiese il nome al proto: costui era nuovo, non seppe dirgli nulla: ma il piccolo che gli portò la terza pagina da correggere, lo sapeva:

“Quello è il signor Scapoli,” disse andandosene.

Un’altra volta fu peggio. Al caffè un gruppo di ufficiali attorniava un maggiore, un miope dagli occhi vivacissimi, ancora giovane. Distrattamente Riccardo chiese al suo vicino, un reporter di giornale democratico, chi fosse quel maggiore.

“Come? Non lo conosci? Ma se è tuo collega, uno scrittore del Baiardo, dicono che firmi Fucile.”

Queste cose assai lo mortificavano. Trovava i redattori troppo altieri, troppo aristocratici, che non si degnavano di farsi vedere, quasi mai, che capitavano un momento in direzione, poi andavano via subito, chiamati al Parlamento, alle Commissioni, agli affari, gente che faceva il giornalismo per svago, per diletto, per una soddisfazione dello spirito, ma da signori, inafferrabili, inaccessibili. Si rammentava di dieci o dodici anni prima, del giornalismo che faceva suo padre, passando dieci ore al giorno in ufficio, sempre a lavorare, sempre con la porta aperta, dovendo dar retta a tutti, contentare tutti, a rischio, in caso contrario, di far perdere la popolarità al giornale, temendo sempre di scontentare l’abbonato, facendo di tutto per attrarre il lettore: giornalismo umile, pedestre, fatto da lavoratori oscuri, che non firmavano i loro articoli e che combattevano quotidianamente col pezzo di dieci franchi. La differenza era grandissima, il passo fatto in dieci anni era enorme: e quando pensava a questo nucleo di scrittori felici, dove i toscani portavano l’arguzia e i napoletani il fuoco, padroni delle loro idee e del pubblico, paradossastici, indipendenti, compensati lautamente, una pietà profonda gli veniva per quel povero morto, strappato dall’articolo e buttato nella fossa. Un coupé, talvolta, saliva al trotto per Piazza Montecitorio, si fermava innanzi alla porticina magica: era un uomo politico che veniva a portare una notizia, o una signora che gentilmente faceva da reporter, o era un redattore, forse, un redattore che possedeva vettura. Riccardo abbassava la testa sulle bozze: ma la sua anima era sconvolta. Penetrato nel cuore del Baiardo, nella sua intima manifattura, egli era sempre escluso dalla sua vita: il giornale lo aveva assorbito ed egli vi perdeva ogni giorno la sua personalità, ignorato, strumento volgare e non necessario. Ogni tanto, vi era un barlume: quando al Tordinona o al Valle vi era un’opera nuova, prosa o musica, faceva le riviste teatrali un meridionale, un Napoletano, dal grosso naso piovente sui baffi, miope, geniale. Queste riviste bizzarre erano a base di freddure, tempestate di freddure, in versi, in prosa, in italiano e in latino, talvolta comicissime: e siccome lo scherzo spesso dipendeva dalla spezzatura di una parola, da un nome in carattere corsivo, da una ortografia bislacca, così il redattore, ogni volta, veniva a correggere personalmente le sue bozze, sedendosi accanto a Riccardo, scambiando con lui qualche parola. Quello scrittore non era mica molto allegro, come del resto non è nessuno scrittore di cose allegre: ma era simpatico, parlava col largo accento napoletano, e quelle poche frasi rincoravano Riccardo, lo riempivano di tenerezza:

“Siete napoletano, voi?” gli chiese un giorno.

“Sissignore.”

“Non dovete trovar Roma molto divertente.”

“Napoli è la patria del cuore,” mormorò Riccardo, “ma qui si pensa.”

“Già,” disse il redattore, rimettendosi filosoficamente a correggere le bozze.

Un’altra volta:

“V’ho incontrato al ministero di agricoltura, oggi. Siete impiegato?”

“Pur troppo!”

“Non è mica una cosa dispiacevole. Io me ne trovo bene, ai ventisette del mese.”

Non altro. Ma era già molto, per un essere abbandonato come Riccardo, chiuso nel suo gabbiotto, come una lumaca. Egli non discorreva neppure col giovane amministratore, al primo del mese, quando andava a riscuotere. Quelle sessanta lire dategli per il suo lavoro meccanico, gli sembravano una cosa così umiliante, che non le contava, non le guardava neppure, firmava subito subito nel registro. I suoi amici credevano che egli guadagnasse molto e si meravigliavano che egli abitasse ancora una stanza da venti lire il mese, che mangiasse ancora al Trevi, che non pagasse qualche tazza di birra agli amici. Qualcuno gli chiese in prestito cinquanta lire: un altro, più audace, gliene chiese duecento. Egli rifiutava: gli dicevano:

“Perchè non te le fai dare all’amministrazione del giornale?”

E lo tenevano per avaro, per egoista. In realtà egli soffriva della sua miseria, fortemente. Assopito nel cuore il dolore della morte di suo padre, sviluppata l’intelligenza dalle scorie che la rendevano inoperosa e la deturpavano, a venti anni, in una grande città come Roma, dove la vita già si disegnava a linee di capitale, il giovanotto cominciava a provare l’arsura di tutto quello che gli era conteso. Quando usciva di tipografia, alle sette, nell’ora in cui tutte le trattorie fiammeggiano di lumi e sono riboccanti di gente, mentre passeggiava lentamente, per sollevarsi dal lavoro, prima di pranzare, egli dava un profondo sguardo d’invidia alle trattorie dei ricchi, degli uomini felici, che mangiavano delle pietanze delicate in una porcellana elegante: e si rammentava di averle gustate, da bambino, quelle dolcezze, nei giorni in cui suo padre aveva denaro, quelle galanterie da palati viziati, il caviale, la ragosta, la pernice, lo storione, la beccaccia, le salse rosse o verdi, colorite gaiamente, piccanti. E la sua fantasia viaggiava anche più in là: passando innanzi ai grandi palazzi patrizi, egli indovinava la maestà delle vaste stanze da pranzo, coi loro legni scolpiti, col luccicare vivido dei cristalli e delle argenterie, coi tappeti molli, dove non si udiva il passo dei servitori, coi fiori strascicanti sul candore della tovaglia, col sorriso muto e incoraggiante della padrona di casa. Le trattorie di terz’ordine che era costretto a frequentare, con la loro biancheria dalla dubbia pulizia, dall’odore nauseante di sapone, con le posate di metallo giallo, i piatti grossi e pesanti, con le solite pietanze quotidiane, dai miscugli equivoci, rivoltavano i suoi istinti aristocratici, e mangiava per saziarsi, sempre seccato, incapace di prolungare di un minuto il pranzo, soffrendo di tutto, anche delle mani del cameriere che gli porgevano il piatto e che gli sembravano ignobili. Quando una prima rappresentazione era annunziata, strombazzata, aspettata, e tutti ne parlavano, e quelli che potevano andarvi si consideravano assai fortunati, egli si rodeva di non poterci andare, ricordandosi della sua infanzia e della sua adolescenza, ogni sera al teatro, dappertutto, nei migliori posti, senza spendere un soldo, andando sul palcoscenico dove pochi potevano andare, carezzato dalle attrici. Giammai al Baiardo aveva avuto un biglietto di teatro: e intanto tutti credevano che egli ne fosse pieno e gliene chiedevano talvolta; e quando, in una sera di prima rappresentazione, lo vedevano comparire al caffè, si meravigliavano:

“Non sei al Valle? Non vai all’Apollo?”

“Il teatro mi secca,” faceva lui, alzando le spalle.

Non era vero. Quand’anche fosse stato cattivo lo spettacolo del palcoscenico, frivola la commedia, noiosa e risaputa la musica, la sua immaginazione di venti anni trasaliva all’idea di veder tante donne riunite in una sola sala, vestite elegantemente, sorridenti o melanconiche, adorne di fiori e di gioielli. Dopo due anni di esistenza selvaggia, fuggendo le passeggiate e i ritrovi, egli aveva ceduto alla natural simpatia che lo faceva fantasticare dietro ogni profilo femminile che incontrava per la via. Timido e superbo con gli uomini, temendo sempre qualche cosa di offensivo pel suo orgoglio, egli sentiva che le donne sono più buone, più indulgenti, più carezzevolmente affettuose, più nobilmente pietose: sentiva che il suo bisogno di tenerezza, di dolcezza, di amore mite e gentile soltanto in loro si sarebbe potuto appagare. Egli non invocava, come può farlo un carattere forte e temprato, un amico serio e affettuoso, sagace nel consiglio, virile nell’ammaestramento: egli invocava l’amica ideale, parola amorosa e voce toccante, opra gentile e sguardo ammaliatore, pietà muliebre vestita di velluto e spirante profumi, affetto sentimentale, vergato in una calligrafia delicata, sopra una carta bizzarra, bizzarramente cifrata. Alla debolezza del suo cuore non era necessaria un’affezione salda ma severa, pronta all’aiuto come al biasimo rigeneratore: egli aveva bisogno della compassione femminile che ha una scusa per tutti gli errori, che ha un perdono per tutti i peccati. L’amico vi offre la mano leale e l’opera sua: ma la donna è sempre più vicina al vostro cuore, essa non può far nulla, ma piange con voi. Riccardo aveva la nostalgia di un lungo pianto femminile unito al suo, un lungo pianto dolcissimo e puro che si portasse via le amarezze accumulate da anni.

Nella crisi di tenerezza che lo invadeva, ogni apparenza muliebre suscitava la sua fantasia. Un paio di occhi socchiusi dietro una leggiera veletta nera; un sorriso fuggitivo che arcuava gentilmente un labbro sottile; un piede snello che appena appena toccava il marciapiede; una testina intravveduta dietro i cristalli di una carrozza fuggente; qualche ombra errante sopra un terrazzo principesco, nelle ore crepuscolari: una impressione, una visione, un nulla che fosse femminile gli prendevano l’anima. La poesia della donna era la prima che schiudesse il cuore del poeta, e doveva essere la più profonda: e non amando ancora, non essendo forse predestinato a quella eccezionale, rara forma del sentimento che è la passione, egli poteva analizzare consecutivamente tutte le attrazioni, tutte le seduzioni dell’ideale muliebre. Uno dei suoi più acuti piaceri erano le domeniche a Villa Borghese, in quello sfilare continuo di equipaggi, dove le donne troneggiavano, dove le donne trionfavano, ora nell’umiltà delle palpebre abbassate, delle bocche pensose, ora nel languore di certe pose abbandonate, ora nella serenità della indifferenza. Egli vi andava sempre: e quando cadeva il sole, rosso ardente, fra i cipressi di Monte Mario, e i vestiti delle donne si scoloravano ed esse stesse sembravano colpite da pallore, Riccardo provava l’emozione intima dei grandi spettacoli umani. Due o tre volte, coi suoi quattrini, soggiacendo poi a piccole ma tormentose privazioni, era andato al teatro: una sera proprio all’Apollo. Visione prolungata per tre ore, e che illuminò le sue buie giornate per gran tempo: visione di bei quadri scintillanti che accendevano il sangue, di profili evanescenti che trasportavano l’anima in regioni ideali, di pallori pensierosi, di molli linee armoniose: visione di lusso e di ricchezza, nella bella espansione della donna. Oh, egli non amava punto le giovanette borghesi dai paltoncini neri e dal cappellino piumato di nero, che andavano su e giù pei marciapiedi del Corso; nè le ragazze che lavoravano a macchina nella casa dirimpetto alla sua; nè le crestaine snelle, dai capelli incipriati, dallo scialletto nero che batteva sulle calcagna. La donna povera, o gretta, o costretta a lavorare, o volgare, ripugnava alla sua fantasia di poeta: e non dava il suo cuore, come tanti suoi amici, al primo sguardo affettuoso, alla prima dolce parola: egli conservava il suo cuore alla prediletta, alla ignota, alla donna circondata da tutte le eleganze, esoticamente profumata, maestra di tutte le finezze spirituali.

Pur desiderandolo, questo essere ideale gli sembrava inaccessibile, a lui ignobilmente povero, facente un lavoro oscuro di polipo. Solo uno spiraglio, solo uno: non la ricchezza, o la nobiltà, o la fortuna politica, conquiste troppo lontane, troppo difficili, ma il successo letterario, la reputazione di scrittore, il nome di giornalista alla moda. Egli indovinava, intuiva il cuore femminile: quando nel brioso resoconto parlamentare, lo scrittore abbandonava gli oratori noiosi della politica, per inneggiare alla seducente contessa che era comparsa, benefica apparizione, nella tribuna diplomatica; certo, per quanto la contessa fosse abituata agli omaggi, quel pubblico, delicato omaggio, fatto in una forma così gentile, doveva riescirle gratissimo. Quando all’indomani di una festa al Quirinale, lo scrittore scioglieva in un poemetto di prosa la sua ammirazione per le dieci dame più belle, più eleganti, Riccardo immaginava quanto piacesse alle orecchie femminili quel lusinghiero linguaggio. — Le donne — egli pensava — sono riconoscenti a chi sa apprezzarle, esse conoscono bene i loro amici; esse sono dolci al poeta che le canta. — E per arrivare a questo suo sogno, l’arte, la poesia, la letteratura, il giornalismo gli apparivano come un mezzo necessario, unico. Aveva allora ventidue anni: e molte volte bestemmiava la oscurità da cui niente lo traeva. Le sue collere erano vane, poichè non producevano nè una risoluzione forte, nè una reazione di serenità. Come tutti i temperamenti fantastici e morbidi, alacre era la vita interna del suo spirito, e impacciata, infeconda, nulla la sua vita d’azione.

Un giorno, il redattore teatrale, che stava correggendo una poesia in lode della signora Pia Marchi, gli disse:

“Volete andare al teatro? Vi è una poltrona pel Politeama, dove non posso andare. Vi sentite di far due paroline di cronaca, domani? Due soltanto.”

Riccardo si fece pallido come un cencio, per la collera, pel piacere: disse di sì, prese il biglietto rosso. Un grande tumulto si faceva nel suo cervello, andava col capo chino, pensando come avrebbe scritto quelle poche parole, cercando una frase efficace, che fosse anche una rivelazione di quello che egli sapeva fare. Ma non aveva provato le sue forze da tanto tempo, e a un tratto la prosa degli scrittori del Baiardo, che gli era caduta in disgusto, gli sembrava ora insuperabile, e le colonne del giornale gli parevano troppo maestose per la sua pochezza. Avrebbe scritto delle corbellerie, o fatta la solita noticina di cronaca. Volle confortarsi la mente: facevano la Forza del Destino, comprò il libretto, andò a leggere la biografia di Verdi in una enciclopedia che la biblioteca del ministero possedeva. Mangiò assai in fretta, andò a vestirsi subito, il Politeama era lontano e doveva andarci a piedi: e intanto ruminava la sua nota di cronaca, ora pensava di cominciare con un verso di De Musset, ora con un motto latino, pensava una freddura sul cognome del baritono e un aggettivo nuovo per la prima donna. Tutto raccolto in sè, passando sul Ponte Sisto, non si accorse di qualche carrozza che tornava indietro e dei pedoni che venivano incontro a lui. Presso il teatro soltanto vide il cartellone attraversato da una striscia rossa: Per cause involontarie e imprevedute, questa sera: RIPOSO. — L’Impresa. Ripassando sul ponte, egli si domandò se non era meglio, dinnanzi a una avversità così costante, se non era meglio fare un tonfo nelle acque fredde del fiume e lasciarsi trascinare dalla corrente a mare. Ma non era esso l’uomo delle pronte decisioni, ed ebbe orrore di una morte volgare, il corpo gonfio di acqua, la faccia gialla, la bocca piena di rena. L’indomani, malgrado tutto, egli volle fare la nota di cronaca; ma non sapeva che cosa dire: inesperto giornalista, non aveva neppure chiesto allo spaccio dei biglietti la ragione del riposo. Dopo molti stenti, dopo molte carte lacerate, egli arrivò a copiare, testualmente, l’avviso dell’impresa. Lo portò al Baiardo, in anticamera lo consegnò al piccolo perchè lo desse a comporre. Come se si trattasse di un articolo, egli trepidò, nel pomeriggio, aprendo le bozze: la nota non vi era, il redattore capo, trovandola inutile, l’aveva tolta via. Questo fu l’ultimo colpo.

L’indomani, quietamente, comprò un foglio di carta bollata e fece una domanda al ministero di agricoltura per essere ammesso a un concorso per posti di vice—segretario. L’esame si doveva fare in febbraio, e in quei tempi non si chiedeva molto agli impiegati: d’altronde il suo lavoro come straordinario era già un titolo. Le ricerche per avere la fede di nascita, le altre carte necessarie, certe pratiche, l’andare e venire, distrassero Riccardo Joanna dalla ruina che era avvenuta nelle sue speranze. Nelle ore di libertà, adesso, invece di legger giornali e di discutere pei caffè, studiava le materie del programma, voleva almeno riescire in questo, poichè il suo destino voleva così: e già vedeva il suo lento progresso burocratico, quel salire duro e stentato, ma sicuro, quell’orizzonte breve, ma accessibile. Con un paio di altri giovanotti che pure si preparavano a questo concorso, si vedevano, nelle ore di libertà, e tenevano conferenze sulle materie dell’esame, passeggiando talvolta, o anche a pranzo, tenendo sempre lo spirito occupato, non volendo pensare ad altro, non volendo mai distrarsi. Faceva sempre il suo lavoro di correzione, ma ora se ne sbrigava molto più presto, con una certa fretta di andarsene, senza badar più a quello che leggeva. Era arrivato finalmente a vedere Fantasio, un giorno, per le scale, insieme al direttore: e l’originale scrittore fumava una sigaretta e sorrideva ascoltando un racconto del suo amico; ma Riccardo era troppo deluso per provar più nessuna emozione alla vista di quei forti.

Persuaso di non aver nè ingegno, nè vocazione, nè fortuna, ora l’indifferenza succedeva alla passione giornalistica. Chissà, forse era meglio, per la pace del cuore e per la salute, essere un buon impiegato, zelante, amato dai superiori, sempre in aumento di grado e di stipendio, col cavalierato in prospettiva, la pensione per la vecchiaia e una morte tranquilla. Almeno, al ministero non vi erano templi misteriosi, chiusi ermeticamente ai profani, dove non si poteva penetrare nè con l’umiltà, nè con l’audacia: e la simpatia, l’ammirazione del pubblico non sono un monopolio! Niente di questo: una bella esistenza monotona e quieta senza troppi guai. Si trattava di riescire, e Riccardo studiava molto. Per una reazione naturale e che indicava non esser rimarginate le sue ferite, egli si burlava di sè stesso, delle sue ambizioni, dei suoi progetti, delle sue fantasie. Questo impiegato pallido, dall’aria un po’ fatale, lo faceva ridere, quando si mirava nello specchio: questo poeta che non sapea fare versi, questo prosatore senza prosa, questo giornalista senza giornali, gli sembrava un caso comico. Un giorno aveva sognato di poter amare una duchessa, di essere amato da una contessa, di poter sedurre e rapire la moglie di un banchiere! Riccardo sogghignava. Gli parea di esser diventato una persona seria, ora che aveva prestabilito il suo avvenire, rinunziando a tutte le follie: e con la precipitazione e il bisogno di progettare di tutti gli ingegni meridionali, egli si figurava già di esser riescito, di aver avuto il decreto di nomina. Allora egli si vestiva di scuro, come per una solennità, andava dal redattore capo e in poche parole gli annunziava le sue dimissioni. Costui, forse, lo avrebbe interrogato sulle ragioni: allora gli avrebbe narrato tutto, la sua infelice, non corrisposta passione per il giornalismo, e il colpo sofferto e la delusione immensa e infine il proponimento di salvataggio, buttandosi nelle braccia della burocrazia. Con questo discorso che egli avrebbe pronunziato con l’enfasi del sentimento, egli certo sarebbe arrivato a scuotere la distrazione laboriosa del redattore capo e gli avrebbe fatto intendere quale servo fedele e amoroso essi perdevano. Invano avrebbero tentato di trattenerlo: a una vita seducente ma precaria, piena di grandi soddisfazioni, ma piena anche di grandi dolori, egli preferiva una esistenza mediocre ma pacifica, gretta forse ma non fallace: lo lasciassero andare, lo lasciassero andare per la sua strada, oscuro, ignorato, come tutti coloro che non seppero o sdegnarono d’imporsi.

Esaltandosi su questo discorso, racchiudendo esso tutta una nobile vendetta, Riccardo si avvicinava al tempo dei suoi esami. Mancavano soltanto quindici giorni, quando il Pompiere, il redattore teatrale, che decisamente aveva preso in simpatia questo educato e taciturno correttore di bozze, gli disse ancora:

“Giovanotto, volete andare al Valle? fanno una commedia nuova, in cinque atti, di autore patrio: e corre una voce molto grave, che sia una commedia a tesi. Tutto questo è più forte di me: del resto, io ho da andare a Napoli. Che Iddio vi assista nella dolorosa prova! Darete gli appunti di cronaca a qualcuno in redazione che li compilerà. Chiederò notizie della vostra salute, al mio ritorno.” E non smentendo un minuto la sua gravità abituale, egli girò sui tacchi e andò via. Riccardo sorrise ironicamente: non era più un bambino come quello di una volta, per commuoversi di un biglietto di teatro. Placidamente lo serbò e non affrettò mica il suo pranzo per andare al Valle: obbedendo a un antico strascico di vanità giornalistica, disse ai suoi commensali, con aria sdegnosa:

“Che noia, stasera! Il Pompiere è fuori e io ho ancora da andare al Valle, per udire una terribile commedia in cinque atti.”

“Che originale, questo Joanna,” disse il suo ammiratore, il Brandi, altrimenti detto il segretario particolare di Joanna; “egli si secca di tutte le cose che divertono gli altri. Dammelo a me, questo biglietto, chè ci vado io.”

“E l’articolo, lo fai tu?” disse Joanna, mentendo sfacciatamente.

“Hai ragione,” mormorò l’altro, umiliato. “Non importa, vengo con te, comprerò il biglietto, cercherò di avere un posto vicino al tuo.”

Ma non lo ebbe, dovette contentarsi di un posto di platea, mentre Riccardo aveva una poltrona: si diedero appuntamento per dopo. Brandi accompagnava sempre Riccardo a casa. Confitto nella sua poltrona, Riccardo ascoltava attentamente la produzione; e mentre alle sue spalle e dietro a lui molti applaudivano, egli non dava segno di approvazione o d’altro. Un momento che si volse, vide il Brandi che applaudiva forte; Riccardo fece una levata di spalle.

La commedia era volgare, a grandi tirate rettoriche, tutta gonfia di parole sonore e di sentimenti lirici: ma la digestione rendeva sentimentali i borghesi della platea e il popolo del lubbione: i palchi, quieti, si astenevano. Vi era di tutto, nella commedia: la tesi del divorzio, l’emancipazione della donna, la tirata contro i seduttori, la tirata contro i preti, quella contro i potenti — e vi era il solito deputato frivolo e imbroglione, il solito giornalista imbecille e velenoso, una ragazza pura, un giovanotto virtuoso e tentato, una donna non virtuosa e tentatrice, infine l’antica miscela, la combinazione triviale dei vecchi elementi, un tritume, una rifrittura graveolente. In fondo, vi furono ancora degli applausi: ma gli spettatori delle poltrone e dei palchi si astennero. Sotto l’atrio Riccardo accese il suo sigaro a quello di Brandi e si avviarono insieme. Brandi era ancora tutto commosso:

“L’autore di questa commedia è un uomo di grande ingegno,” esclamò l’impiegato postale.

“Tu sei una bestia,” gli rispose tranquillamente Riccardo.

“Sarà....” fece l’altro, un po’ scosso.

“Chi trova bella questa commedia è una bestia, caro mio.”

“Già tu sei infallibile come il papa....” disse sottovoce il Brandi.

“Non sono io infallibile, è l’autore che è un asino.”

“Ma scusa.... la commedia è piaciuta.... tutti l’hanno applaudita.... è piena di posizioni drammatiche.... uno si commuove quando si toccano certi tasti.... a me, che vuoi, mi piace.... sarò pure una bestia.... ma puoi negare che le situazioni sieno assai interessanti?”

Come Riccardo fumava il suo sigaro in silenzio, senza ribattere le ragioni del Brandi, il Brandi seguitò, con la monotonia di un robinetto, a versare le cause della sua ammirazione per la commedia. Ripetè tutti i luoghi comuni che si possono dire, a proposito di un’opera drammatica: e la trovata che era una bellezza, l’intreccio di cui uno seguiva le fila con ansietà, la scena—madre, la scena forte che afferrava pel collo lo spettatore e lo costringeva all’attenzione, i finali di atto che colpivano l’immaginazione, il movimento naturale delle persone, e quelle persone, quelle persone che erano così vere, così rassomiglianti a certi tipi che noi conosciamo, quelle macchiette così vere, così spiritose: e infine lo scopo morale della commedia, la tesi, anzi le varie tesi sociali che vi s’intrecciavano.

“Quando avrai finito di dire sciocchezze, mi lascerai parlare,” osservò Riccardo, mentre uscivano da Via di Pietra.

“Parla, parla,” disse, rassegnato, il Brandi.

Allora Joanna cercò di spiegargli, con la maggior chiarezza possibile, con uno stile piano, le ragioni per cui quella commedia era cattiva. Smontandola, pezzo per pezzo, gli dimostrava la vecchiezza dell’argomento, anzi dei vari antichi argomenti cuciti insieme, già mille volte tentati come ingredienti di commedie: gli mostrava la rigidità automatica dei personaggi, la fanciulla non era simile a nessuna fanciulla umana, la moglie tentatrice non esisteva, un deputato come quello non si era mai visto, un giovanotto come l’eroe della commedia bisognava pescarlo nella luna, e il giornalista....

“Oh il giornalista, poi, non puoi negare, è indovinato!”

“Non vi sono di tali sciocchi cattivi, fra noi, e quando te lo dico io, basta,” ribattè severamente Joanna.

E ritornò all’argomento, prendendosi la pena di far vedere al Brandi come fossero fuori di uso, perchè vuote di senso, quelle tirate contro i preti, contro i banchieri e tutte le altre. Ora sprezzante, ora bonario, ora insultante, Riccardo Joanna distruggeva linea per linea la commedia, eseguendo certe brillanti variazioni di spirito e di critica, che avevano per solo ascoltatore Vincenzo Brandi, impiegato alle regie poste. Costui, presso la porticina di Riccardo Joanna a Via in Arcione, col pomo della mazzettina appoggiato alle labbra, ascoltava con una compunzione profonda l’attacco critico del suo amico: e i carabinieri che gironzavano intorno alle reali scuderie, manco si voltavano a vedere chi fosse quel declamatore che ora nominava Shakespeare e Molière. Parlava del teatro, ora, Riccardo, cavando dalla memoria, che aveva forte e pronta, citazioni e titoli, date e raffronti. Brandi, taciturno, non osava interrompere quel bel discorso, incantato, preso da quella forma varia ma efficace. Poco intendeva e poco poteva seguire il moto rapido del cervello di Riccardo: ma sentiva che egli diceva delle cose giuste, belle e profonde. Alla fine, inebetito, giusto quando Riccardo credeva di averlo convinto, di avergli dimostrato la trivialità della commedia e di coloro a cui piaceva, l’impiegato stupidamente disse:

“Ma è stata molto applaudita....”

“Va al diavolo!” gridò Riccardo imbestialito, ficcando la chiave nella toppa.

“Ma almeno scrivile queste belle cose,” supplicò il disgraziato, “non le dire a me che non le capisco. Scritte, le capirò forse.”

“Le scriverò, le scriverò, e tu non capirai mai nulla,” rispose Riccardo, dalla scala.

Andò subito a letto, sentendosi stanco; spense il lume, credendo di addormentarsi subito. Infatti un lieve sopore scese su lui: ma se ne ridestò di soprassalto, si rivoltò, sperando di riaddormentarsi. Niente: era nervoso: quel somaro di Brandi lo aveva trascinato ancora a discutere. E rifece nella sua testa la discussione di nuovo: e nel letto, voltandosi e rivoltandosi, trovava nuovi argomenti, pensava che avrebbe dovuto dire questo, questo e quest’altro, diventava furioso per non aver pensato prima la tal cosa e rideva ogni tanto, fra sè, a una frase comica che gli veniva. Ah, no, non poteva dormire, non ci era rimedio. Riaccese il lume, prese un volume di storia del commercio, su cui si preparava ai suoi esami, e lesse per un quarto d’ora, con molta attenzione, senza capire una parola: la mente non si staccava da quella commedia e dalla critica che ci si poteva fare. Poi, senza rendersi molto conto di quello che faceva, si alzò, si vestì e si dette a passeggiare su e giù per la stanza. Faceva freddo: ma egli non lo sentiva. Camminava con le mani in tasca e col capo abbassato sul petto, concentrato nelle sue idee, riunendole, con certe che si ostinavano e certe altre che sfuggivano. Aveva già pensata l’ultima frase del suo articolo, prima di mettersi a sedere: e seduto, cominciò a scrivere, come in sogno, sulle cartelle bianche che devotamente conservava sul suo tavolino. Non provava nessuna fatica e scriveva prestamente, come trasportato da uno spirito: ogni tanto si fermava e con la penna faceva dei segni sopra un altro foglio di carta, meccanicamente, mentre il pensiero seguiva il suo viaggio. La candela faceva lucignolo per lo scirocco umido della notte e scoppiettava: egli la guardava, senza vederla. Nitido, preciso, proseguiva il suo lavoro, nel silenzio della notte, dove si udivano soltanto i misteriosi scricchiolii dei vecchi mobili e lo strisciar della penna sulla carta: in un momento fu tanto l’impeto del pensiero che lo travolgeva, che egli si alzò da sedere, senza accorgersene, andò sino alla finestra, appoggiò la fronte calda ai vetri, sentendosi soffocare da tutte le cose che pensava e che tumultuosamente volevano uscire dal cervello. Ritornò subito al tavolino, a lavorare di nuovo, con lo stesso fervore, con lo stesso trasporto spirituale, per cui gli pareva di volar via sulla frase, trascinato da una volontà ferrea di cui sentiva la mano, ma gli mancava la coscienza. Mise una firma e la sottolineò con un grande tratto di penna. Un profondo sospiro di sollievo uscì dal suo petto, ma gli parve che qualcuno avesse sospirato accanto a lui. Senza rileggere, senza numerare le cartelle, senza raccoglierle come erano disperse, si spogliò in fretta, spense il lume e si addormentò subito, senza pensieri, senza sogni.

“Perdio! che sonno,” disse Brandi, all’indomani, entrando nella stanza di Joanna. “Per fortuna che è domenica. Sono già venuto alle nove, che! Sua Eccellenza non ha risposto.”

Riccardo sorrise languidamente, non alzandosi ancora, godendosi il calduccio delle lenzuola.

“Hai lavorato molto?”

“Molto.”

“Sino a che ora?”

“Alle tre, credo.”

“Mi lasci leggere?”

“No, non serve.”

“Leggerò stasera, allora. Vestiti e andiamo a portare l’articolo al giornale.”

Senza turbarsi punto, come se Brandi gli avesse proposto la più naturale delle cose, Riccardo Joanna si alzò, si vestì, arruffò la sua nera chioma ricciuta di cui era un po’ fiero, mise una cravatta di raso nero, poichè egli si sacrificava in tutto, salvo che nel vestito. Gravemente, ma con la disinvoltura di un giornalista provetto, egli rilesse il suo articolo, aggiungendo qualche virgola, rifacendo qualche lettera male scritta, numerando le cartelle, piegandole in due, come aveva visto degli originali di altri scrittori.

“Che bella cosa saper scrivere!” disse sospirando Brandi, che aveva ammirato tutta quella mimica.

“Peuh! non è una gran cosa,” fece l’altro, con disprezzo.

“E con questo articolo, quanto guadagni?”

“Non so bene: secondo la misura,” rispose Joanna, parlando a caso.

I due impiegati si avviarono per Montecitorio: a Piazza Colonna incontrarono il direttore del Baiardo che scendeva con un paio di amici, per far colazione da Morteo. Riccardo Joanna fece un gran saluto, che gli fu reso con molta gentilezza.

“È il direttore,” spiegò poi a Brandi, “e va a colazione.”

“Ah! bravo,” faceva l’altro, come se quelle notizie lo facessero penetrare nella vita intima del Baiardo; “e quelli altri chi sono?”

“Amici politici del giornale: ma io li conosco poco, capirai....”

“È naturale, è naturale,” diceva Brandi, tutto pieno di maraviglia.

Salirono all’ufficio. Senza scomporsi Joanna cavò l’articolo di tasca, lo consegnò all’usciere e gli disse:

“Giovanni, manderete questo con l’altro originale in tipografia. Io poi passerò alle quattro per la correzione.”

“Che bella cosa, che bella cosa!” andava esclamando Brandi, mentre scendevano dal giornale.

Mentre facevano colazione, al Falcone, dove andavano qualche volta, alla domenica o nei giorni di paga, Riccardo Joanna ebbe la bontà di spiegare a Vincenzo Brandi molte cose oscure del giornalismo: e costui, che si era sempre lagnato del silenzio del suo amico, che gli aveva sempre rimproverato la sua musoneria, lo ascoltava, tutto beato, deliziandosi all’aspetto di quei mondi che la parola del suo amico gli schiudeva, pensando quante cose sieno impenetrabili nella vita e superiori alle nostre forze. La colazione si prolungava, amichevolmente, nelle mutue confidenze, perchè Vincenzo Brandi, per ricambiare la bontà di Riccardo Joanna, gli veniva raccontando tutti i suoi progetti per l’avvenire, e i concorsi in cui contava di riescire, e la ragazza che voleva sposare, fra un paio di anni, se essa aveva la pazienza di aspettarlo.

“Anzi voglio fartela vedere, vieni con me,” disse Brandi con uno slancio supremo di tenerezza.

I due amici se ne andarono sottobraccio, pel Corso pieno di sole, in quella dolce giornata invernale, incontrando una processione di signore e di ragazze, che andavano o venivano dalla chiesa, stringendo nella mano il libro di messa, occhieggiando le amiche, sogguardando con la coda dell’occhio i giovanotti. Un lieto sole, un fiorire di belle ragazze, un incontrarsi di persone sorridenti.

“La vita è bella,” disse Riccardo Joanna.

Ma Vincenzo Brandi non trovava bella ancora la vita, perchè al Corso mancava la sua ragazza: erano arrivati a Via Condotti, e non l’avevano ancora incontrata. Finalmente, la videro discendere dagli scalini di San Carlo, accanto a sua madre: era una piccolina bionda, un po’ palliduccia, con gli occhi chiari, modestamente vestita. Salutò l’impiegato con un batter di palpebre: Riccardo Joanna udì tremare il braccio di Vincenzo Brandi sotto il suo.

“Tu l’ami assai!” chiese Riccardo.

“È una passione, caro mio, una vera passione.”

“E che farai?”

“Toh? me la sposo.”

“Ah!” fece soltanto Riccardo, come se non avesse pensato questo scioglimento semplice.

La ragazza andava innanzi, essi venivano dietro: essa si rivolgeva naturalmente, per sorridere al suo innamorato. Centinaia di questi idilli si svolgevano pel Corso, dolcissimamente, nella lietezza del sole, nella purezza delle anime femminili consolate dalla preghiera. Una carrozza si fermò innanzi al palazzo Theodoli.

“Guarda bene questa signora che scende,” disse subito Riccardo a Brandi.

Una signora snella e alta, tutta avvolta in una pelliccia bruna, con una veletta abbassata sul viso, discese: era una strana bellezza bianchissima, senz’ombra di roseo sulle guance, dai neri capelli rialzati audacemente sulla fronte e sulla nuca, dagli occhi verdi, lunghi, dalle lunghe ciglia. Ella entrò nel portone con un passo svelto, e scomparve nell’androne, senza rivoltarsi.

“Ti piace?” chiese Riccardo.

“.... Sì, mi piace.... è molto smorta,” mormorò Brandi, che non voleva far dispiacere al suo amico.

“È la principessa Sackarine: una Russa.”

“Ah!” fece Brandi.

“Se legge il Baiardo, stasera, sarà contenta.”

“Perchè?”

“Era al Valle ier sera: e non applaudiva. L’ho scritto.”

I due amici girarono per Roma sino alle tre e mezzo, si lasciarono un momento prima delle quattro.

“Mi secca di andare, ma debbo andare,” disse Riccardo. “A rivederci, ci vediamo a pranzo.”

E si avviò con le spalle un po’ curve e le mani prosciolte della persona indolente. Senza dire nulla a nessuno, andò a sedersi nel suo camerottino: le bozze non erano venute ancora, le attese con pazienza, fumando una sigaretta. Una grande pace era nel suo cuore. Gli portarono le bozze da correggere: l’appendice, l’articolo politico, una corrispondenza erudita e poetica da Venezia, ma null’altro, il suo articolo non vi era. Non s’impazientì, non pensò nulla, sbrigava il suo cómpito speditamente, fermandosi ogni tanto per trarre una boccata di fumo dalla sigaretta. Vennero le altre bozze: le svolse placidamente, vi era il suo articolo. Soltanto, per la novità della calligrafia, era pieno zeppo di errori, e fu mestieri che egli vi facesse tutto un lavoro di riattamento. Quando ebbe finita la correzione, lesse il suo articolo, e gli sembrava la prosa di un altro, una prosa chiara, lucida, tutta solida, tutta nutrita, anzi troppo folta d’idee: e vibrava in essa un umorismo giovanile fatto di melanconia, una ironia piena di forza. Egli si dilettava in quella lettura, come un lettore che s’incontra in qualche cosa che assai gli piaccia, anche ignorandone l’autore. Mentre finiva quella lettura, il redattore capo entrò, guardò il correttore e gli disse:

“Joanna?”

“Signore?” e si alzò.

“Ha fatto lei quell’articolo firmato Glauco?

“Sissignore.”

“Ah!” fece soltanto l’altro.

Nulla soggiunse, voltò le spalle, uscì. Non aveva dimostrato nè collera, nè allegria. Joanna ricominciò il suo lavorío, sulle due prime pagine: l’articolo era in seconda pagina, e in colonna pareva abbastanza lungo. Andò in tipografia, la terza pagina non era pronta, dovette aspettare, seduto sull’alto seggiolone, innanzi al leggío, sotto la vampa del gas. Il direttore andava e veniva, affrettando i compositori, il giornale era un po’ in ritardo quella sera e non sarebbe partito in tempo: gli abbonati avrebbero mormorato il giorno seguente. Quando gli ebbero portato la pagina, Riccardo si adoprò a far prestissimo, la macchina era pronta. Il direttore arrivò sino al leggío e acconciandosi le lenti d’oro sul naso, con un modo familiare, disse:

“Signor Joanna?”

“Signor direttore?”

“Passi in amministrazione, quando le pare, a farsi pagare il suo articolo. Lo calcoli a dieci centesimi la linea.”

“Sta bene.”

Si lasciarono. Ma Riccardo Joanna non uscì subito di tipografia come faceva ogni sera. Stette a guardare le pagine nere che l’impaginatore metteva sotto i rulli lucidi d’inchiostro. Subito la macchina si mise in movimento, un va e vieni rapido, rumoroso, ingoiando fogli bianchi dal di sopra, rigettandoli dal di sotto stampati. Una per una, con lo sguardo, Riccardo Joanna seguì le migliaia di copie che venivano fuori dalla macchina, che erano piegate dalle mani agili delle donne, chiuse nelle fasce, riunite in pacchi per essere mandate alla posta: seguì le migliaia di copie che venivano consegnate a fasci al distributore che doveva darle ai ragazzi e ai chioschi.

“Dammi l’ultima copia,” disse sottovoce al proto.

Il proto gliela dette. La macchina si arrestò, il fornello fu spento, il gas fu abbassato, un silenzio regnò nella tipografia. Solo, fra le ombre bizzarre della macchina, con quel giornale in mano, Riccardo Joanna ebbe un minuto supremo di passione, minuto di paura e di audacia, di desiderio e di potenza. Un minuto: e la sua vita fu gettata.

····················

In Via dei Crociferi incontrò i due amici che si preparavano con lui all’esame di vice-segretario. Gli domandarono a che ora si poteva fare l’indomani la solita ripetizione.

“Domani non posso,” rispose, asciutto, Riccardo.

“Dopodomani, allora.”

“Nè dopodomani, nè mai più. Non contate su me.”

“E perchè?”

“Perchè così.”

E li piantò, sorpresi; entrò nella trattoria Trevi, dove Vincenzo Brandi lo aspettava pazientemente per pranzare.

“Andiamo via,” gli disse Riccardo.

Presolo pel braccio, senza dargli nessuna spiegazione, se lo trascinò dietro sino al Caffè di Roma, in Piazza San Carlo, sull’angolo di Via delle Carrozze. Nessuno dei due aveva mai pranzato in quel posto: ma la memoria dei sensi era viva, come quella della mente, in Riccardo, ed egli si trovò subito bene, intonato con l’ambiente ricco e caldo, pieno di banchieri, di donnine eleganti, di artisti fortunati, di maestri di musica alla moda. Egli ordinò il pranzo con una grande disinvoltura, come se non avesse fatto altro nella sua vita, rendendo estatico Vincenzo Brandi. Dopo le frutta Riccardo chiese dei sigari, avana, il caffè e il cognac. E nella serenità della digestione, Riccardo Joanna contò le linee del suo articolo per calcolare quanto aveva guadagnato in quel giorno.

“Centottantadue linee, a dieci centesimi, quanto fanno?” andava ripetendo Riccardo.

“Diciotto lire e venti centesimi,” rispose il fedele amico.

“Non ci è tanto male, eh?”

“Niente male, niente male, Riccardo!”

Una fioraia venne, dette dei fiori ai due amici: Riccardo le dette due franchi. Dopo pranzo, nella mitezza della sera, Riccardo volle fare una passeggiata in carrozza, per Trastevere, discorrendo piacevolmente con Vincenzo Brandi. Scesero a Piazza Sciarra: al solito l’impiegato postale volle accompagnare l’amico sino a casa. E sotto il portoncino calcolarono quanto aveva speso Riccardo in quel giorno:

“Giusto, diciotto lire e cinquanta: trenta centesimi più di quanto hai guadagnato.”

“Queste le avevo: non contano,” disse Riccardo.

Risero insieme, senza ragione, separandosi. Quando fu sopra, solo solo, un cocente rimorso, l’ultimo, avvelenò la coscienza di Riccardo. Ripensò tutto il passato, infanzia, adolescenza, giovinezza: pensò la promessa solenne fatta nell’ora più seria della sua vita. Aveva disubbidito. Ma addolorato, confuso, non si pentiva, non chiedeva perdono, non tornava indietro.

— Se tu vivessi, padre mio, mi assolveresti, — egli pensò, superbamente.

Nè s’ingannava.


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