< Zenobia
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Atto terzo
Atto secondo

ATTO TERZO

SCENA I

Bosco.

Radamisto ed Egle.

Radamisto. Chi ti die’ quella gemma?

Egle.   Uno straniero
ch’io non conosco.
Radamisto.   Ed a qual fin?
Egle.   M’impose,
con questo segno, e di Zenobia a nome,
alla valle de’ mirti
d’invitar Tiridate.
Radamisto.   Andasti a lui?
Egle. No.
Radamisto.   Perché?
Egle.   Perché questa
certamente è una frode.
Radamisto.   (Ah! di costei
non potea far Zopiro
scelta peggior.) Ma del messaggio il peso
a che dunque accettasti?
Egle.   A fin che un’altra
non l’eseguisse.
Radamisto.   (Or la cagion comprendo,
per cui finor nel destinato loco
atteso invano ho Tiridate.)
Egle.   Io vado

di sí nera menzogna

Zenobia ad avvertir. (in atto di partire)
Radamisto.   No. Senti: a lei
narrar non giova...
Egle.   Anzi ignorar non deve
che le insidia un indegno
la gloria di fedele.
Radamisto.   E tu che sai
a qual di lor convenga
d’indegno il nome o di fedel?
Egle.   Che! dunque
puoi dubitar...
Radamisto.   Non è piú dubbio...
Egle.   Ah! taci:
orror mi fai.
Radamisto.   Sappi...
Egle.   Lo so: non merti
tanto amor, tanta fede.
Radamisto.   Io son...
Egle.   Tu sei
un ingiusto, un ingrato,
un barbaro, un crudel. (in atto di partire)
Radamisto. (seguendola)  Se puoi, dilegua
dunque il sospetto mio.
Egle.   No: quel sospetto
sempre, per pena tua, ti resti in petto. (parte)

SCENA II

Radamisto solo.

Ma convincimi almen; sentimi... Oh Dio!

a chi creder degg’io? Zopiro afferma
che Zenobia è infedele; Egle sostiene
che son vani i sospetti ond’io deliro.

Giusti dèi! chi m’inganna: Egle o Zopiro?

Ti sento, oh Dio! ti sento,
gelosia, del mio cor furia tiranna;
tu mi vai replicando: — Egle t’inganna. —
          Ah! perché, s’io ti detesto,
     s’io ti scaccio, empio timore,
     ah! perché cosí molesto
     mi ritorni a tormentar?
          Qual riposo aver poss’io,
     se vaneggio a tutte l’ore,
     se diventa il viver mio
     un eterno dubitar?

Mentre Radamisto è per partire, sente la voce di Zenobia, s’arresta e si rivolge.

Zenobia. Ma dove andiam? (di dentro)

Radamisto.   Qual voce udii! La sposa
giurerei che parlò. Vien quindi il suono:
cerchisi. O sorte, alle mie brame arridi!

Nell’entrar Radamisto per la parte donde ascoltò la voce, escono poco lontano, non veduti da lui, Zenobia e Zopiro.

SCENA III

Zenobia e Zopiro, poi Radamisto di nuovo.

Zenobia. E non posso saper dove mi guidi?

Zopiro. Sieguimi: non temer.
Zenobia. (arrestandosi sospettosa) (Qualche sventura
il cor mi presagisce.)
Radamisto.   (Eccola. È seco
Zopiro: udiam s’egli è fedel.) (resta in disparte)
Zopiro.   Che fai?
Vieni: al tuo sposo io ti conduco.
Zenobia.   E quando
il troverem? Da noi

poco lontan mel figurasti. Io teco

giá lung’ora m’aggiro
per sí strani sentieri, e ancor nol miro.
Zopiro. Pur l’hai presente.
Zenobia.   Io l’ho presente? Oh Dio!
Come? dove?
Zopiro.   Lo sposo tuo son io.
Zenobia. Numi! (sorpresa)
Radamisto.   (Ah, mora il fellon!... (vuol snudar
la spada e si pente)
  No; pria bisogna
tutta scoprir la frode.)
Zenobia. E tu di Radamisto alla consorte
osi parlar cosí?
Zopiro.   Di Radamisto
alla vedova io parlo.
Zenobia.   Aimè! non vive
dunque il mio sposo?
Zopiro.   Ad incontrar la morte
giá l’inviai.
Radamisto.   (Fremo!)
Zenobia.   Ah, spergiuro! Adempi
cosí le tue promesse?
Zopiro.   E in che mancai?
Zenobia. In che! Non mi dicesti
che per legge sovrana o Radamisto
perir doveva o Tiridate?
Zopiro.   Il dissi.
Zenobia. Che un sol di loro a scelta mia potevi,
e m’offrivi salvar?
Zopiro.   Sí.
Zenobia.   Non ti chiesi
del consorte la vita?
Zopiro.   È vero; ed io
d’ubbidirti giurai,
e uno sposo in Zopiro a te serbai.
Radamisto. (Piú non so trattenermi.)

Zenobia.   Oh sventurato!

oh tradito mio sposo!
Zopiro.   Invan lo chiami:
fra gli estinti ei dimora.
Radamisto. Menti! per tuo castigo ei vive ancora. (palesandosi)
Zopiro. Son tradito!
Zenobia.   Ah, consorte!
Radamisto.   Indegno! infido!
cosí... (snuda la spada, e vuole assalir Zopiro)
Zopiro.   T’arresta, o che Zenobia uccido.

(impugnando con la destra uno stile in atto di ferir Zenobia, e tenendola afferrata con la sinistra)

Radamisto. Che fai? (fermandosi)

Zenobia.   Misera me!
Radamisto.   Non so frenarmi:
il furor mi trasporta.
Empio!...
Zopiro.   Se muovi il piè, Zenobia è morta.
Radamisto. Che angustia!
Zenobia.   Amato sposo,
giá che il ciel mi ti rende,
salva la gloria mia. Le sue minacce
non ti faccian terror. Si versi il sangue,
purché puro si versi,
dal trafitto mio sen; sciolgasi l’alma
dal carcere mortal, purché si scioglia
senza il rossor della macchiata spoglia.
Radamisto. O parte del mio core, o vivo esempio
d’onor, di fedeltá, dove, in qual rischio,
in qual man ti ritrovo! Oh Dio! Zopiro,
pietá, se pur ti resta
senso d’umanitá, pietá di noi!
Rendimi la mia sposa. Io, tel prometto,
vendicarmi non voglio: io ti perdono
tutti gli eccessi tuoi.
Zopiro.   No, non mi fido.
Parti.

Radamisto.   Il giuro agli dèi...

Zopiro.   Parti, o l’uccido.
Radamisto. Ah, fiera! ah, mostro! ah, delle furie istesse
furia peggior! Da quell’infame petto
voglio svellerti... (avanzandosi)
Zopiro.   Osserva. (in atto di ferir Zenobia)
Radamisto. (ritirandosi)  Ah, no! Ma dove,
dove son io? Chi mi consiglia? Ah, sposa!...
Ah, traditor!... Che affanno! A un tempo istesso
freme l’alma e sospira.
Mi straccia il cor la tenerezza e l’ira.
Zopiro. Tu, Zenobia, vien’ meco; (a Zenobia)
  (a Radamisto) e tu, se estinto
rimirarla non vuoi,
guardati di seguirci.
Radamisto.   Al mio furore
cede giá la pietá.
Zopiro.   Vieni. (a Zenobia)
Zenobia.   E lo sposo
m’abbandona cosí?
Radamisto.   No. Cadi ormai!...
  (volendo assalir Zopiro)
Zopiro. E tu mori!... (in atto di ferir Zenobia)
Radamisto.   Odi, aspetta.

SCENA IV

Tiridate e detti.

Tiridate. (trattenendo Zopiro)  Empio, che fai!

Zopiro. Oimè!
Tiridate.   Cedimi il ferro. (procura levargli lo stile)
Zopiro.   Ah, son perduto!
  (lascia lo stile, e fugge)
Radamisto. Perfido! invan mi fuggi. (seguendolo furioso)

SCENA V

Zenobia e Tiridate.

Zenobia.   Ove t’affretti,

signor? Férmati. (a Radamisto, seguendolo)
Tiridate.   Ingrata!
giá t’involi da me?
Zenobia.   Principe... Oh Dio!
ti pregai d’evitarmi.
Tiridate.   Ah! quale arcano
mi si nasconde? Ubbidirò; ma dimmi
perché mi fuggi almen.
Zenobia.   Tutto saprai
pria di quel che vorresti. Addio.
Tiridate.   Perdona,
deggio seguirti.
Zenobia.   Ah! no.
Tiridate.   Pur or ti vidi
in troppo gran periglio. Io non conosco
chi t’assalí, chi ti difese, e sola
lasciarti in rischio a gran rossor mi reco.
Zenobia. Il mio rischio piú grande è l’esser teco.
  (partendo)
Tiridate. Ma ch’io non possa almen... (volendo seguirla)
Zenobia.   Lasciami in pace;
per pietá lo domando. È questa vita
dono della tua man; grata ti sono:
perché, signor, vuoi funestarmi il dono?
          Pace una volta e calma
     lascia ch’io trovi almen;
     non risvegliarmi in sen
     guerra e tempesta:
          tempesta, in cui quest’alma
     potria smarrirsi ancor;
     guerra, che al mio candor
     saría funesta. (parte)

SCENA VI

Tiridate e poi Mitrane.

Tiridate. Non intendo Zenobia, e non intendo

ormai quasi me stesso. Ella mi scaccia,
e perché non vuol dirmi. Offeso io sono,
e con lei non mi sdegno, e non ardisco
di crederla infedel. Suona in que’ labbri,
in quelle ciglia un non so che risplende,
che rigetta ogni accusa e lei difende.
Mitrane. Signor, liete novelle: è Radamisto
tuo prigionier.
Tiridate.   Dove il giungesti?
Mitrane.   Ei venne
per se stesso a’ tuoi lacci.
Tiridate.   E come?
Mitrane.   Appresso
a un guerrier fuggitivo, entrò l’audace
fin dentro alle tue tende. Incontro a mille
invano opposte spade,
dell’orrenda ira sua cercò l’oggetto:
lo vide, il giunse e gli trafisse il petto.
Tiridate. Che ardir!
Mitrane.   Tutto non dissi. Uscir dal vallo
sperò di nuovo, e l’intraprese, e forse
conseguito l’avria; ma rotto il ferro
l’abbandonò nel maggior uopo. E pure,
benché d’armati e d’armi
cresca contro di lui l’infesta piena,
egli è solo ed inerme, e cede appena.
Tiridate. Un di que’ due, che or ora
qui rimirai, l’empio sará.

SCENA VII

Egle, da prima non veduta, e detti.

Mitrane.   La vita

di Radamisto ecco in tua man. (a Tiridate)
Egle.   (Che sento!)
Mitrane. Punisci il traditor.
Tiridate.   Sí, andiam. (vuol partire)
Egle.   T’arresta,
prence: ove corri? Incrudelir non déi
contro quell’infelice.
Tiridate.   E te chi muove
d’un perfido in difesa?
Egle.   Io non lo credo,
signor, sí reo.
Tiridate.   Ma di Zenobia il padre
a tradimento oppresse.
Mitrane.   E poi la figlia
tentò svenar. Non m’ingannò chi vide
l’atto crudel.
Egle.   Pensaci meglio. A tutto
prestar fé non bisogna; e co’ nemici
piú bella è la pietá.
Tiridate.   Le proprie offese
posso obbliar; ma di Zenobia i torti
perdonargli io non posso. A lei quel sangue
si deve in sacrifizio.
Egle.   Io t’assicuro
ch’ella nol chiede.
Tiridate.   E non richiesto appunto
ha merito il servir. (vuol partire)
Egle.   Férmati, oh dèi!
Credi: non parlo invan. Se ami Zenobia,

Radamisto rispetta: il troppo zelo

t’espone a un grande errore;
tu vuoi servirla, e le trafiggi il core.
Tiridate. Ma perché? L’ama forse?
Egle.   Ella?... Se brami...
Io dovrei... (Troppo dico.)
Tiridate.   Ah! ti confondi.
Mitrane, io son di gel. Fu Radamisto
giá mio rival; sta in queste selve ascoso,
dov’è Zenobia ancora; ei la difende;
ella il volea seguir; me piú non cura;
Egle m’avverte... Ah! per pietá palesa,
pastorella gentil, ciò che ne sai.
Egle. Altro dir non poss’io: giá dissi assai.
Tiridate. Aimè! Qual fredda mano
mi si aggrava sul cor! che tormentoso
dubbio è mai questo! Io non ho piú riposo.
          Si soffre una tiranna,
     lo so per prova anch’io;
     ma un’infedele, oh Dio!
     no, non si può soffrir.
          Ah! se il mio ben m’inganna,
     se giá cambiò pensiero,
     pria ch’io ne sappia il vero
     fatemi, o dèi, morir. (parte)

SCENA VIII

Egle e Mitrane.

Egle. Povero prence! Oh quanta

pietá sento di lui! qual pena io provo
nel vederlo penar! Quel dolce aspetto,
quel girar di pupille,
quel soave parlar, del suo tormento

chiama a parte ogni cor. Sí degno amante

merita miglior sorte. Oh, s’io potessi
renderlo piú felice!
Mitrane.   Assai pietosa,
Egle, mi sembri. Ei di pietade è degno;
ma la pietá, che mostri, eccede il segno.
          Pastorella, io giurerei
     o che avvampi, o manca poco:
     hai negli occhi un certo foco,
     che non spira crudeltá.
          Forse amante ancor non sei,
     ma d’amor non sei nemica:
     ché d’amor, benché pudica,
     messaggera è la pietá. (parte)

SCENA IX

Egle sola.

È ver, quella, ch’io sento,

parmi piú che pietá. Ma che pretendi,
Egle infelice? A troppo eccelso oggetto
sollevi i tuoi pensieri: alle capanne
il ciel ti destinò. La fiamma estingui
di sí splendide faci;
e, se a tanto non giungi, ardi, ma taci.
               Fra tutte le pene
          v’è pena maggiore?
          Son presso al mio bene,
          sospiro d’amore,
          e dirgli non oso:
          — Sospiro per te. —
               Mi manca il valore
          per tanto soffrire;
          mi manca l’ardire
          per chieder mercé. (parte)

SCENA X

Deliziosa dei re d’Armenia, abitata da Tiridate.

Tiridate e Mitrane.

Mitrane. Pur troppo è ver; pur troppo

d’Egle i detti intendesti: è Radamisto
di Zenobia l’amor. Quando l’intese
tuo prigioniero, impallidí, sen corse
frettolosa alle tende, a lui l’ingresso
ardí cercar; ma non le fu permesso.
Tiridate. E pur, Mitrane, e pure
non so crederlo ancora.
Mitrane.   A lei fra poco
lo crederai: del prigionier la vita
a dimandarti ella verrá.
Tiridate.   Che ardisca
d’insultarmi a tal segno?
Mitrane.   A te dinanzi
giunta di giá saría; ma due guerrieri,
che dal campo romano
a lei recano un foglio, a gran fatica
la ritengon per via.
Tiridate.   No, no, l’ingrata
non mi venga sugli occhi: io non potrei
piú soffrirne l’aspetto.
Mitrane.   Eccola.
Tiridate.   Oh dèi!

SCENA XI

Zenobia e detti.

Zenobia. Principe...

Tiridate.   Il grande arcano,
lode al ciel, si scoperse. Alfin palese
è pur de’ torti miei
la sublime cagion. Parla: che vuoi?
Non t’arrossir: di Radamisto il merto
scusa l’infedeltá. Libero il chiedi?
lo brami sposo? ho da apprestar le tede
al felice imeneo?
Zenobia.   Signor...
Tiridate.   Tiranna!
barbara! menzognera! Il premio è questo
del tenero amor mio? Cosí tradirmi?
e per chi, giusti dèi! per chi d’un padre
ti privò fraudolento, e poi...
Zenobia.   T’inganni;
mentí la fama.
Mitrane. (a Tiridate)  È ver: da Farasmane
il colpo venne. Il perfido Zopiro
lo palesò morendo.
Tiridate.   E tu dái fede
a un traditor?
Mitrane.   Sí: lo conferma un foglio
ch’ei seco avea. Del tradimento in esso
son gli ordini prescritti, e Farasmane
di sua mano il vergò.
Zenobia.   Vedi se a torto...
Tiridate. Taci: il tuo amor per Radamisto accusi,
mentre tanto il difendi.
Zenobia.   È vero, io l’amo,
non pretendo celarlo. Il suo periglio

qui mi conduce. A liberarlo io vengo,

vengo a chiederlo a te; ma reco il prezzo
della sua libertá. D’Armenia il soglio
m’offre Roma di nuovo; in mio soccorso
giá le schiere latine
mossero dalla Siria; al soglio istesso
te pur chiaman gli armeni: io, se tu vuoi,
secondo il lor disegno:
rendimi Radamisto; abbiti il regno.
Tiridate. Per un novello amante
invero il sacrifizio è generoso.
Zenobia. Ma eccessivo non è per uno sposo.
Tiridate. Sposo!
Zenobia.   Appunto.
Tiridate.   Ed è vero? e un tal segreto
mi si cela finor?
Zenobia.   Contro il consorte
dubitai d’irritarti; il tuo temei
giusto dolor; non mi sentía capace
d’esserne spettatrice; e almen da lungi...
Tiridate. Oh instabile! oh crudele!
oh ingratissima donna! A chi fidarsi,
a chi creder, Mitrane? È tutto inganno
quanto s’ascolta e vede:
Zenobia mi tradí; non v’è piú fede.
Zenobia. Non son io, Tiridate,
quella che ti tradí; fu il ciel nemico,
fu il comando d’un padre. Io non so dirti
se timore o speranza
cambiar lo fe’: so che partisti, e ad altro
sposo mi destinò.
Tiridate.   Né tu potevi...
Zenobia. Che potevo? infelice! — E regno e vita
e onor — mi disse — a conservarmi, o figlia,
ecco l’unica strada. — Or di’: che avresti
saputo far tu nel mio caso?

Tiridate.   Avrei

saputo rimaner di vita privo.
Zenobia. Io feci piú: t’ho abbandonato, e vivo.
Non giovava la morte
che a far breve il mio duol: te ucciso avrei,
disubbidito il padre.
Tiridate.   I nuovi lacci
però non ti son gravi: assai t’affanni
per salvar Radamisto. Egli ha saputo
lusingare il tuo cor. Fu falso, il vedo,
che svenarti ei tentò.
Zenobia.   Fu ver; ma questo
non basta a render gravi i miei legami.
Tiridate. Non basta?
Zenobia.   No.
Tiridate.   Tentò svenarti, e l’ami?
E l’ami a questo segno,
che m’offri per salvarlo in prezzo un regno?
Zenobia. Sí, Tiridate; e, s’io facessi meno,
tradirei la mia gloria,
l’onor degli avi miei,
l’obbligo di consorte, i santi numi
che fûr presenti all’imeneo, te stesso,
te, prence, io tradirei. Dove sarebbe
quell’anima innocente,
quel puro cor che in me ti piacque? Indegna,
dimmi, allor non sarei d’averti amato?
Tiridate. Quanta, ahi quanta virtú m’invola il fato!
Zenobia. Deh! s’è pur ver che nasca
da somiglianza amor, perché combatti
col tuo dolor questa virtú? L’imita,
la supera, signor: tu il puoi; conosco
dell’alma tua tutto il valor. Lasciamo
le vie de’ vili amanti. Emula accenda
fiamma di gloria i nostri petti. Un vero
contento avrem nel rammentar di quanto

fummo capaci. Apprenderá la terra

che, nato in nobil core,
frutti sol di virtú produce amore.
Tiridate. Corri, vola, Mitrane: a noi conduci
libero Radamisto. (Mitrane parte)
  Oh, come volgi,
gran donna, a tuo piacer gli altrui desiri!
Un’altra ecco m’inspiri
spezie d’ardor, che il primo estingue. Invidio
giá il tuo gran cor; bramo emularlo; ho sdegno
di seguirti sí tardo: altro mi trovo
da quel che fui. Non t’amo piú: t’ammiro,
ti rispetto, t’adoro; e, se pur t’amo,
della tua gloria amante,
dell’onor tuo geloso,
imitator de’ puri tuoi costumi,
t’amo come i mortali amano i numi.
Zenobia. Grazie, o dèi protettori! Or piú nemici
non ha la mia virtú: vinsi il piú forte,
ch’era il pensier del tuo dolor. Va’, regna,
prence, per me: ne sei ben degno.
Tiridate.   Ah! taci:
non m’offender cosí. Prezzo io non chiedo,
cedendo la cagion del mio bel foco;
e, se prezzo chiedessi, un regno è poco.

SCENA ULTIMA

Egle, poi Radamisto con Mitrane, e detti.

Egle. Lascia, amata germana,

lascia che a questo seno...
Zenobia.   Egle, che dici?
quai sogni?
Egle.   Egle non piú: la tua perduta
Arsinoe io son. Questa vermiglia osserva

nota, che porta al manco braccio impressa

ciascun di nostra stirpe.
Zenobia.   È vero!
Tiridate.   Oh stelle!
Zenobia. Quante gioie in un punto! E donde il sai?
Egle. Da quel pastor, che padre
credei finora. Ei da’ ribelli armeni,
giá corre il quarto lustro,
m’ebbe bambina, e per soverchio amore
piú non mi rese. Or di Zenobia i casi
sente narrar: sa che tu sei; né il seppe
da me; ti serbai fede. O l’abbian mosso
le tue sventure, o che, al suo fin vicino,
voglia rendermi il tolto
onor de’ miei natali, a sé mi chiama,
tutta la sorte mia
lagrimando mi svela, e a te in’invia.
Zenobia. Ben ti conobbi in volto
l’alma real.
Radamisto.   Deh! Tiridate...
Tiridate.   Ah! vieni,
vieni, o signore. Ecco, Zenobia, il tanto
tuo cercato consorte: io te lo rendo.
Radamisto. Perdono, o sposa.
Zenobia.   E di qual fallo?
Radamisto.   Oh Dio!
il mio furor geloso...
Zenobia.   Il tuo furore
per eccesso d’amor ti nacque in petto:
la cagion mi ricordo e non l’effetto.
Tiridate. Oh virtú sovrumana!
Zenobia. Principe, una germana il ciel mi rende, (a Tiridate)
a cui deggio la vita: esserle grata
vorrei. So che t’adora: ah! quella mano,
che doveva esser mia,
diasi a mia voglia almen; d’Arsinoe or sia.

Tiridate. Prendila, principessa. Ogni tuo cenno,

Zenobia, adoro.
Egle.   Oh fortunato istante!
Radamisto. Oh fida sposa!
Zenobia.   Oh generoso amante!
Coro.   È menzogna il dir che Amore
          tutto vinca, e sia tiranno
          della nostra libertá.
               Degli amanti è folle inganno,
          che, scusando il proprio errore,
          lo chiamâr necessitá.

LICENZA

Se del maggior pianeta

l’aspetto luminoso
altri mirar desia, lo sguardo audace
non fissa in lui, ma la riflessa immago
ne cerca in fonte o in lago, ove per l’onda,
che i rai mal fida rende,
o in sé parte di lor solo introduce,
scema il vigor della soverchia luce.
Giovi l’arte anche a noi. Giacché non osa
mirarti, eccelsa Elisa,
rispettoso il pensier, le tue sembianze
va cercando in Zenobia; e, se non giunge
a vederti qual sei,
parte almen di tua luce ammira in lei.
               Qual de’ tuoi pregi, Elisa,
          saría la luce intera,
          se giunge ancor divisa
          ad abbagliar cosí?
               se que’ sublimi vanti,
          che sparse avaro in tanti,
          in te, felice Augusta,
          prodigo il cielo uní.

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