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GUIDO MAZZONI




A PROPOSITO

DEI

SONETTI DI CESARE PASCARELLA




ROMA

società editrice dante alighieri

Via del Caravita, 6


1901




Estratto dalla RIVISTA D’ITALIA, fasc. 1° - 1901







(1722) Roma, Tip. Enrico Voghera


A PROPOSITO DEI SONETTI DI CESARE PASCARELLA




Se non posso vantarmi di aver sempre voluto bene al Pascarella, perchè conoscerlo e volergli bene è un punto solo: e se è naturale che, avendolo io conosciuto una ventina d’anni fa, da una ventina d’anni mi compiaccia dirlo amico mio, perchè, oltre tutto il resto, egli è un fior di galantuomo; una qualche lode mi spetta, e me l’attribuisco anche da me stesso, per essere stato un de’ primi a dire pubblicamente di lui, e per aver così, in qualche modo, giovato a diffondere la conoscenza e l’ammirazione de’ sonetti suoi, quando ancora non erano, come ora sono, noti e ammirati universalmente.

Doppio piacere ho avuto, per ciò, nel vedermi tornare innanzi, in un elegante volume, i suoi Sonetti, che il tempo non ha avvizziti; anzi sembrano, così raccolti, più vivaci e più freschi che mai; vedermi tornare innanzi quelle figurine pascarelliane, disegnate con spirito e bravura da rammentare spesso il Callot, ma che hanno non di rado un’anima e un’intenzione che il Callot non diede a’ minuscoli eroi delle sue fiere e de’ suoi balli. Dopo averle riudite, a mio gran diletto, ne’ monologhi e ne’ dialoghi del loro efficace romanesco, vorrei oggi spiegare a me stesso perchè l’arte del Pascarella ci vinca a questo modo, e ci tenga suoi sempre più; vorrei tentare di persuadere qualche altro lettore ad ammirare quell’arte, di un vivente, come si ammirano, per esempio, la Prineide del Grossi, e le Desgrazi de Giovannin Bongee del Porta, ormai consacrate dalla fama; senza ricorrere al perpetuo raffronto col Belli, sebbene questi sia, senza dubbio, il diretto progenitore del Pascarella, e, ne’ primordii, il maestro suo.


I.


Comincio da questa derivazione. Il Bovet, che sul Belli ci ha dato un buon libro, e che è quindi di speciale autorità in proposito, l’ha espressamente affermata: «se non ci fosse stato il Belli (egli ha detto) il Pascarella non sarebbe stato possibile.» E la dimostrazione ne è stata fatta da lui stesso col rammentare i primi sonetti dell’amico nostro e col riferirne alcuni. Da principio anche il Pascarella si tenne infatti pago a cogliere e a fermare nelle rapide linee d’un quadretto, quasi per fotografia istantanea, certi aspetti della vita del popolano di Roma, o di registrarne le voci quasi nel cilindro d’un ingegnoso fonografo: e certo gli atteggiamenti e gli accenti furono allora da lui sorpresi e resi, come dalla plebe stessa che il Belli studiava, così co’ modi stessi che il Belli adoprò. Ma non conviene esagerare. Certe raffigurazioni della realtà non mancarono in altri secoli e in altri dialetti della nostra letteratura per uno svolgimento normale e necessario della poesia giocosa, con singolari somiglianze a quella che oggi pare ai più la propria e speciale maniera del Belli; e può riuscire gradito trovarne qui subito un qualche curioso documento, onde si vedrà che, anche senza il Belli, si poteva avere un genere di poesia su quello stampo che divenne l’onore suo.

Siamo a Venezia, sulla fine del Quattrocento. Una ragazza fa all’amore di nascosto alla mamma; la serva le tiene di mano; la mamma brontola e minaccia inutilmente. In otto sonetti, che il mio bravo Vittorio Rossi ristampò da un opuscoletto edito allora in caratteri gotici, un qualche Belli veneziano del secolo xv (e non fu il solo) ci dà le tre figure e le dispute loro, vivacemente: per esempio, entra Madonna e sgrida la serva Agnesina, perchè non ha ancora dato il becchime alle galline:

Mad. Agnese, le galine muor da fame. —
Agn. Ghe ho pur dà da manzar a la fe’ bona...
Mad. Ma non ghe so sta a véder mi in persona
          Perzò le non fa vuovo [uovo] quele grame.

Va’, portaghe piena la conca de rame
          De semole; non creder tel perdona;
          Tu non dezuni miga fina a nona;
          Fara’ puo’ [farai poi] neto tutto quel leame [letame].

Si volge quindi alla sua Lucrezia, e grida anche lei: già, si sa, le ragazze non pensano che a lisciarsi e a fare all’amore; ma quella figliuola è impertinente parecchio, e risponde male. Siamo così dinanzi a una scenetta del Goldoni, anche pel dialetto:


E ti, Lucrezia, non te dar pensier
      De niente; pur che staghi a vaghizar,
      Quest’è ’l to ben e ogni to lavorier.

Lug. Al lavorier non se puoi sempre star.
Mad. Un dì te meterò intun [in un] monestier,
Se Dio m’aia [m’aiuta].
Lug.                     Sì, se ghe vorò andar.


Ma ha tutt’altra voglia, la Lugrezia, che d’andare a seppellirsi in un convento, e lì in seno si nasconde una letterina dell’innamorato: se non che, nel trarla su per sbirciarla di traverso, dà nell’occhio alla mamma; e assistiamo da capo a un battibecco, tra Madonna, Lugrezia e Agnese.


Mad. Che lettera xe quela che ti ha’ in sen?
Lug. L’è una forma de cafi. [Un libretto di prognostici]
Mad.                                         Mostra mo.
Lug. Non ve la vo’ mostrar.
Mad.                                          Lugrezia, el so
          Che colie [colei] te l’ha dada che qua vien.

Lug. Ma dime, Agnese, se ti me vuol ben,
          M’hastu dà niente?
Agn.                                     Mi, madona, no.
Lug. Mo su; so ben un di quel che farò,
Non ha in sta casa un’ora mai de ben.

Agn. E in malora e in mal ponto, che vergogna
          Rosegar tutto ’l dì sta povereta.
          Vu dovresse, cristiana, aver coscienza.

Mad. Deh, tasi, Agnese: anca ti cerchi rogna.
Agn. E’ digo el ver; sta fia è un’anzoleta;
          Non so come la possa aver pazienza.


Non si tratta, già l’ho accennato, d’un esempio singolare. Altri Belli ci furono, allora e poi, in Venezia e altrove; certo senza la copia e l’agilità continue, e l’arguzia quasi continua, del Belli vero. Tra quanti di costoro io conosco, mi par notevole un umanista, Alessandro Braccesi, che dalle elegie latine passava, pur nella seconda metà del Quattrocento, a sonetti in volgare, in cui la vita del popolo fiorentino è talvolta raffigurata, con schiettezza rude, efficacemente, come presto si vedrà in un lavoro su lui, della signorina Bice Agnoletti che ne ha studiato molto bene la vita e le opere. Dal quale studio tolgo due sonetti, che, ridotti a forme romanesche, non disdirebbero tra quelli del Belli. Si trovano per via due comari, e chiacchierano tra loro così:

— Oh, buon di e buon anno! come state?
     — Bene; e voi?
                         — Bene.
                                        — Ch’è della brigata?
— Ho la figliuola mia che s’è ammalata.
— Da quando in qua?
                                        — Da poi ch’entrò la state.
— La sarà forse grossa...
                                        — Voi errate,
Ch’ ell’ ha il su’ tempo: a me pare oppilata.
— Io, la mia, quasi l’ho maritata.
— Chi, la Fiammetta? vo’ mi consolate!

— Io prego Dio, che m’aiuti di questa:
Ch’ i’ affogai la Sandra. Mah, pazienza!...
— Andrem noi dunque domani alla festa?

— Gnaffe! non io, ch’i’ho assai penitenza,
Tanti pensier mi scompiglian la testa!
— Tutte siam nate sotto una ’nfluenza!

                    Come sta la Clemenza?
— E fresca e grassa che pare una ladra,
E va, più ch’ell’ andassi mai, leggiadra.

               — No’ saremo una squadra
Ch’andrem, domani, a un prete novello;
Verrete voi?
                    — I’ are’ poco cervello!

                    — Orsù, facciam fardello.
Addio, vi lascio; addio, monna Simona:
Abbiam tanto gracchiato ch’ ell’ è nova!


Del pari si trovano pervia due monellacci: giocano e fan baruffa; altri s’interpongono, e si azzuffano anche loro:


— Dammi ’l mi’ ferro!
                         — Egli è mio!
                                             — Dallo qua!
— Io te l’ho vinto!
                                   — Anzi, me l’hai rubato!

— Via bugiardaccio, non te l’ho squillato:
La mia pilorcia, no, non l’hai, ma.....
— Rendimi la berretta!
                                             — Va ’n costà!
— E’ mi tira i capegli!
                                        — Chi t’ha dato?
— Questo bastardo.
                                   — Che ti caschi il fiato!
Lasciami stare!
                         — Io vo’ ’l mio ferro! or va'!
— I’ lo dirò al mio padre, mascherone!
— Pon giù quel sasso!
                            — Io nol vo’ por, beccaccio!
— Birboncello! e' m’ha dato in un tallone.
— Da ben ti sta: tu ti da’ troppo impaccio!
— E tu devi essere qualche moccicone.
— Eh, tu vorrai ch’io ti pesti il mostaccio!
                             — Andiam qua, nel Campaccio.
— Beccati questa!
                              — To’ quest’altra tu!
— Orsù, e’ basta: non vi date più!


Non intendo, con tali documenti arcaici, che il Belli certo non conobbe, diminuire per nulla il merito di lui; intendo soltanto rammentare che il genere suo esisteva anche innanzi a lui, sin dal secolo xv (per non risalire, che pur si potrebbe, più su), già bell’e formato. E le Pasquinate, su cui troppo si è insistito, spiegando imperfettamente quasi con esse sole l’origine dell’arte di lui, han dritto soltanto a essere considerate come un impulso di confluente, non come la forza della corrente principale; mentre questa è invece nella riproduzione dei costumi popolani che si ebbe in ogni tempo e, più o meno, meglio o peggio, in ogni dialetto nostro.

Onde il Pascarella, se è vero che mosse dal Belli, non per ciò «sarebbe stato impossibile» se il Belli non ci fosse stato: e me ne fa riprova l’essersi egli così presto e così bene liberato dall’imitazione di lui, e aver saputo, cosciente o no ch’egli ne fosse e ne sia, mettersi piuttosto sulla strada che additarono i milanesi del secolo scorso (tra i quali persino il Parini), e nel secolo nostro il Grossi e il Porta, là dove riuscirono meglio.


II.


Due dame, nel 1793, s’incontrano in un salotto di Milano, dove l’una d’esse si è affrettata a recarsi in visita, perchè le è arrivato fresco fresco da Parigi un bel cappellino nuovo, e non regge al desiderio di ostentarlo alle lodi a denti stretti delle amiche. Il discorso cade, com’è naturale, su’ massacri di Parigi e di Lione, su quel Péthion, che, come presidente della Convenzione, ha tanta parte in quegli orrori; ed ecco il dialogo su i baronad de Franza.

Madamm, g’hala quaj noeuva de Lion?
     Massacren anch’adess i pret e i fraa
     Quij soeu birboni de Franzes, che han traa
     La lesg, la fed, e tutt coss a monton?

Cossa n’è de colù, de quel Petton,
     Che ’l pretend con sta bella libertaa
     De mett insemma de nun nobiltaa
     E de nun Damm tutt quant i mascalzon?

A proposit: che la lassa vedè
     Quel cappel là, che g’ha d’intornaa on vell.
     Eel staa inventaa dopo che han mazza el Rè?

Eel el primm, ch’è rivàa? Oh bell! oh bell!
     Oh i gran Franzes! Besogna dill, non ghè
     Popol, che sappia fà i mej coss de quell!


A prima vista, la scenetta può sembrare raffigurata soltanto per gustosa riproduzione della realtà; e quel chiacchiericcio può, a chi vi porga orecchio distratto, sembrare solo un innocente esercizio di lingue femminili; là nel Braccesi, lingue plebee, qui nel Parini (perchè il sonetto è nientemeno che di Giuseppe Parini) lingue aristocratiche. Ma figgete l’occhio in quel salotto, porgete migliore attenzione alle voci, e subito vi si aprirà il senso vero dell’invenzione del poeta: la satira dei francesizzanti dell’aristocrazia, quando più s’imprecava alla Francia; la frivolezza delle menti che esaltavano per un qualche ritrovato d’ornamento muliebre l’ingegno francese, più che non lo vituperassero pel rivolgimento sanguinoso. E ogni parola, allora, s’illumina d’una luce sinistra: l’uccisione di Luigi XVI, che al Parini sembrava un misfatto, è rammentata a proposito del cappellino; l’affermata eguaglianza sociale, in che anche al Parini sembrava la gloria della Rivoluzione, quella invece divien l’accusa che la dama muove a’ Francesi, inorridita che tutti quanti i mascalzoni sieno ormai, lassù a Parigi, messi alla pari «de nun nobiltaa.»

Prendasi la Prineide, dove il povero Prina così pietosamente appare e discorre al signor Rocco sul paterno regime austriaco che, dopo il tanto imprecare alla tirannia napoleonica, la fa quasi rimpiangere; prendasi il Porta, dove, ed è in mille luoghi, infonde la satira politica e sociale nella maschera di un comico personaggio; e si avvertirà la differenza profonda che è tra la maniera del Belli, anche là dove egli satireggia i costumi e le istituzioni, ridendo e facendo ridere, e tra la maniera de’ Lombardi e del Pascarella.

Perchè infatti a me sembra che il Pascarella, subito che uscì da’ tentativi, tendesse (e ripeto che non so e poco importa sapere se ne fu, o no, consapevole) ben più verso la stessa idealità estetica ed etica cui mirarono il Grossi e il Porta, che non verso gli esempi del Belli. Restando romanesco nelle forme esterne, e profondamente e sinceramente romanesco anche nel fedele ritratto dei costumi e degli animi, la sua poesia superò presto il cerchio segnato dal predecessore diretto, e si avviò, quasi per ondate largamente concentriche, a confondersi nei cerchi tracciati da quella che fu la grande poesia meneghina. Nè alcuno m’incolpi di poco amore al Belli, che ammiro ed amo quasi quanto il Goldoni, cui per tante parti ei somiglia; ma al Goldoni, in confronto col Molière, fu a buon dritto negata la intuizione filosofica de’ caratteri umani, così che il più delle volte non valse a plasmare che caratteri comici solo esternamente, e al Belli mancò la virtù del pensiero che riconduce ai concetti fondamentali della vita le singole manifestazioni ed espressioni del vivere giornaliero. Pel Goldoni e per lui riprenderei volentieri la similitudine della lastra fotografica, così rapidamente impressionata nella superficie, sotto la quale non è che un qualche millimetro di vetro. Il che non fa ch’essi non siano grandi, perchè anche nel sentire bene la vita esterna e nel riprodurla forte è molto pregio, e l’uno e l’altro riuscirono in ciò maestri solenni: nè oserei affermare che il Pascarella, pure avendo in sè del Porta e del Molière, sorpasserà il Belli e il Goldoni; nè certo li ha, per ora, eguagliati nella fecondità e nella larghezza dell’opera. Ma stimo che non mi faccia velo al giudizio l’amore che gli ho, quando affermo che la ragione ultima e intima dell’arte di lui è più alta che non quella dell’arte del Belli; come più sottile è, senza dubbio, l’esecuzione dello stile e del metro.

Diego Angeli scrisse, qualche anno fa, che il Pascarella nelle sue tavole eseguite a penna con inchiostro della China, è un sottile ed acuto psicologo; e accennò, com’egli sa, ai tre o quattromila disegni, tracciati rapidamente con la matita rossa, co’ quali egli fermò profili e figure d’uomini, di animali, di cose; fisonomie tristi e dolorose che l’artista ha reso «con grande compassionevole pessimismo.» Se avremo la stupenda raccolta, sarà quello il naturale e pieno commento ai sonetti? o non saranno piuttosto i sonetti quasi le iscrizioni titolari della serie dei disegni? Certo si è che chiunque, intanto, ha letto le prose di lui, come le Memorie d’uno smemorato e la Gita sentimentale, chiunque l’ha ascoltato conferenziere nel Manichino e nel Caffè Greco, ha potuto senza gran fatica accorgersi di quel «grande compassionevole pessimismo» che l’Angeli felicemente additava ne’ disegni.

Sotto le facili apparenze, sotto le graziose bizzarrie, c’è un Pascarella, serio osservatore dell’uomo, e che l’uomo ama perchè lo compiange. Quivi è la dignità del suo intelletto, quivi la bontà morale dell’arte sua, e, come accade, anche il valore estetico, oltre la scioltezza armoniosa del verso, e oltre la lepidezza degli scherzi ingegnosi.

Er fattaccio, La serenata, Villa Gloria, La scoperta dell’America (e mi fermo qui perchè non voglio riferire altri titoli, e questi bastano, e come!, a chi rammenta o sta ora leggendo), sono l’opera bella d’un pensatore buono. E ciò che scrivevo nel 1887 posso e devo ripeterlo qui, mentre la fama dell’amico mio non è più ristretta nella lode ch’egli sia un felice imitatore, e vola anche di là dalle Alpi meritamente come di spirito originale. Dicono che in Italia manca o è raro l’umorismo; a tale parola, come accade di tutte quelle di cui si fa abuso, è difficile dare un senso preciso; ma se umorista è lo scrittore che dei fatti umani coglie nel tempo stesso la parte comica e la tragica, e quasi l’atteggia nell’arte come un’erma bifronte, che dal volto di Eraclito pianga e da quello di Democrito sorrida, non credo che oggi in Italia vi sia un umorista più vero e più acuto del Pascarella. E quell’umorista è, come sono sempre gli umoristi, un filantropo, scontento che non sia quale egli vorrebbe che fosse, e che atteggia le labbra al sorriso avendo negli occhi una lacrima.

Per questo a lui si torna sempre con amore ravvivato; per questo anche la nuova edizione dei Sonetti è accolta dagli amici vecchi e da’ nuovi con un saluto che è d’ammirazione e di riconoscenza.







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