Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Questo testo fa parte della raccolta La danza della collana - A sinistra

A SINISTRA

BOZZETTO DRAMMATICO

Personaggi:

La MADRE, la FIGLIA, uno STRANIERO.

Piccolo salotto da pranzo, che serve anche per ricevere. È verso sera. La Madre e lo Straniero, seduti presso la tavola sulla quale pende il lume già acceso.


Straniero.

Parla con lievissima difficoltà di pronunzia l’italiano.


Lei mi deve scusare, signora, se la disturbo a quest'ora: ma ho girato parecchio per ritrovare questa strada abbastanza eccentrica: nessuno la conosceva, neppure il vetturino che dopo un lungo viaggio mi ci ha condotto.

Madre.

Sí, è fuori di mano: è tutto un quartiere nuovo, questo, e le strade non sono neppure indicate sulla pianta della città.

Straniero.

È da molto tempo che abita qui?

Madre.

Da un anno, dopo la morte del mio povero marito. Finchè è vissuto lui, che occupava un’ottima posizione, ci ha accolto il centro della città: morto lui, questa ci ha cacciato via, me e mia figlia, e noi siamo qui, ancora attaccate ai suoi lembi come i bambini alle vesti della madre: poichè mia figlia studia e quindi non possiamo lasciare la città.

Straniero.

Che studî fa sua figlia?

Madre.

Studiare studia di tutto: deve laurearsi in chimica.

Straniero.

Benissimo! Saremo allora quasi colleghi: poichè anch’io, come ho avuto l’onore di dirle presentandomi, sono, o meglio sono stato, ingegnere minerario. Adesso sono in riposo e viaggio per diporto: torno a rivedere, dopo lunghi anni d’assenza, questa terra meravigliosa che per noi del Nord è veramente il paradiso terrestre. E lei, signora, indovina certo lo scopo della mia visita: quando ha aperto la porta, nel vedermi e sentire il mio nome, ha impallidito come davanti a un ladro o ad una persona che si crede morta: eppure non mi conosce nè sa donde vengo.

Madre.

Non so. Da molto tempo tutti gli stranieri che si sono avvicinati a me hanno turbato il mio spirito.

Straniero.

Capisco il perchè. E infatti io sono l’amico posso dire il più intimo del suo cugino. E vengo a salutarla a nome suo. Egli è gravemente malato, anzi è condannato a morire: è questione di mesi. E una ossessione lo perseguita: egli crede di scontare un suo antico peccato: quello di aver fatto male a lei.

Madre.

A me non ha fatto del male, poichè tutto per me si è risolto in bene.

Straniero.

Non si sa nulla di quello che poteva essere una vita non vissuta: e tutto quello che può torcere la linea della nostra vita è male. Ho conosciuto suo cugino trent’anni fa, appena arrivò su da noi. Aveva per me una lettera di presentazione di un comune amico. D’età io ero un poco più giovane di lui, ma molto più vecchio di pensiero e di razza. Non so se mi piaceva o mi dispiaceva il suo carattere spregiudicato, dirò anche leggero, il suo modo di giudicare le cose, fra il cinico e il superstizioso: aveva poi dei cambiamenti strani, contradittori, cosa assolutamente ignota fra noi: era come una di queste vostre feline giornate d’aprile. E mi accorsi, con vera indignazione, ch’era anche bugiardo. Ora, tutto si perdona all’uomo, anche il delitto; non la bugia. Per molto tempo, per esempio, mi fece credere che era scapolo, poi che era bigamo, ragione per la quale aveva dovuto lasciare il suo paese; infine mi raccontò di aver moglie dalla quale si era separato in seguito all’avventura con lei, sua cugina, cioè dopo la loro relazione e il tentativo di fuga. Io stentai a credere anche a quest’ultima versione, finché egli, ottenuta la nostra cittadinanza, non si divorziò, consenziente la moglie. Il nostro clima parve lentamente cambiare il suo carattere: o meglio è che sotto una maschera multiforme si nascondeva in lui un uomo fermo, duro, ambizioso. Egli era venuto in semplice missione governativa per lo studio delle nostre miniere: in breve divenne azionista e industriale lui stesso: possiede adesso parecchi milioni e non sa a chi lasciarli.

Madre.

Egli ha parenti ancora, nel paese: e la moglie, davanti a Dio, è sempre sua moglie.

Straniero.

La moglie, lei forse lo sa, ha preso un altro marito. Dei parenti egli non ricorda che lei. Egli è perfettamente libero: libero, intendiamoci, davanti alla morte. E nei deliri lucidi del suo male divoratore chiede sempre di rivedere la fanciulla che ha sedotto quasi ancora bambina, e morire perdonato da lei. E poichè anche lei è ormai libera, e se vorrà accettare, egli desidera lasciarle il suo nome e la sua fortuna.

Madre.

Si nasconde il viso fra le mani, scossa da violenta agitazione: poi fa forza a se stessa e si solleva quasi con fierezza.


Anzitutto egli non mi ha sedotta, nel senso volgare della parola. È riuscito a farsi amare da me, o meglio ci siamo amati, così, per forza naturale, come tutte le coppie si amano: e l’occasione stessa ci ha favoriti. Si abitava una casa col giardino in comune, con l’ingresso in comune: io d’altronde lo conoscevo poco; egli aveva studiato nelle grandi città, e per me egli non era un cugino come tutti gli altri, ma un uomo del mondo ignoto che io sognavo come un paese fantastico e irraggiungibile. Egli sposò e portò nel piccolo paese nostro una donna della città: e questo io lo trovai giusto, naturale: innaturale mi sembrò che in breve essi non andassero più d’accordo: la donna si annoiava, e pare anche non gli restasse fedele. Egli allora si volse a me, smarrito, come un malato che si guarda nello specchio. Ero la donna della sua razza, io, quella che poteva rispondergli anche in silenzio che c’era speranza ancora di vita. Creda, signore, noi si combinò la fuga come due ragazzi che scappano di casa senza sapere bene il perchè: solo, forse, per illusione di cambiar vita. L’occasione, ripeto, ci favoriva. Egli doveva andare in missione all’estero, in un paese freddo e grigio: la moglie non volle accompagnarlo: preferiva tornarsene, per il momento, presso la sua famiglia. Ed egli mi convinse a partire con lui. Le racconto tutto questo non per scusarmi ma per dire come a volte la vita si diverte con noi. E la nostra fuga parve davvero un gioco, una burla, perchè si riuscì a prenderci subito, alla stazione, come due ladri. Egli proseguì il viaggio, e mai più mi scrisse nè si fece vivo: e dopo un compenso di schiaffi lavati da molte lagrime io mi rassegnai; e lei capirà, signore, che la mia natura era troppo sentimentale e ardente per fermarsi al primo amore: ne trovò presto un secondo che annegò completamente l’altro, amore tanto più forte perchè nutrito dalla riconoscenza verso l’uomo che mi amava e riponeva tutta la sua fede in me nonostante le calunnie che m’incoronavano. E sono stata felice, e ho dimenticato. Come vede, dunque, egli non deve crearsi inutili rimorsi: e deviata è la sua, non la mia vita: la colpevole maggiore sono io.

Straniero.

Ragione di più, allora, per aver pietà di quest’uomo fallito. La solitudine e il male gli creano una vita interiore che è certamente immaginaria e morbosa, ma è ancora vita. Come nei sogni. Egli tenta, nel lento inesorabile scivolare verso la morte, di aggrapparsi a qualche cosa, di riallacciarsi, se non altro, al passato, di tornare, in qualche modo, al punto di partenza di quello che è stato certo il più grande sogno della sua vita. La morte gli appare come quel suo viaggio verso i paesi freddi e neri dove il carbone poteva mutarsi in oro ma solo a patto che la vita vi soffiasse il suo alito vero: ed egli vuol tentare il gran viaggio come allora, portando con sè questo alito d’amore. E chi è l’uomo che non fa altrettanto? Se si crede di ritrovare Dio, di là dalla vita, e in molti a questa speranza la morte stessa diventa gioia, non è perchè Dio è la vita eterna? E se il mio amico si forma rimorsi vani, e finge a sè stesso di aver fatto a lei un male oramai inesistente, è per tentare di attirarla meglio: è anche questa forse una forma di seduzione, per convincer lei ad accompagnarlo almeno fino alla stazione ultima. Io dunque le consiglierei, signora, per spirito di umanità, se lei non può veramente dare altro, di esaudire il desiderio del mio amico. Finchè si può, gli uni dobbiamo aiutare gli altri.

Madre.

Io lo farei, certo. Ma non sono libera.

Straniero.

Ha un nuovo legame?

Madre.

con un lieve riso, lisciandosi i capelli grigi.


Ho mia figlia.

Straniero.

Dal lato pratico, ella deve accettare appunto per sua figlia.

Madre.

si ripiega, con tristezza: breve silenzio.


Io non so cosa ne penserà mia figlia: anche perchè non potrebbe seguirmi, nè le sarebbe facile star qui sola.

Straniero.

Perchè non potrebbe seguirla? Si può studiare anche da noi: anzi, dato il genere dei suoi studi, potrebbe anche lei formarsi una fortuna personale.

Madre.

Non so. Mia figlia ha un carattere fermo e quasi duro, eppure, o forse per questo, vive un po’ fuori della realtà. Nella vita pratica vede le cose diverse del come la maggioranza le vede, e va quindi a urtarsi contro molti ostacoli. È infine come uno che in una strada affollata cammina a sinistra invece che a destra, non per proposito ma per ignoranza degli usi comuni. La sola vita interiore è quella che conta per lei.

Straniero.

Il suo spirito dunque si avvicina più al nostro che al vostro: ella starà bene fra noi, specialmente nella nostra regione, dove anche il popolo, abituato al lavoro nelle miniere, ha un carattere dirò così sotterraneo, taciturno e duro, e la classe colta pare partecipi, col pensiero, a un lavoro di scavo.

Madre.

Anche mia figlia dice che più si va al nord più si sta meglio: dove l’uomo è costretto a stare dentro casa e dentro sè stesso.

Straniero.

Non si sta tutto l’anno dentro casa, intendiamoci. È questione che da noi si va d’accordo col tempo. Le stagioni sono leali; la primavera è primavera, l’inverno e inverno. Sappiamo quindi premunirci contro le tentazioni dell’una e le violenze dell’altro. Qui invece v’è troppa confidenza fra voi e il tempo: e questo si prende quindi tutte le libertà che vuole, vi strapazza, vi fa cattivi scherzi è lui il vostro padrone.

Madre.

Mia figlia, anche, dice così.

Straniero.

Speriamo dunque vorrà venire anche lei: e poi, ripeto, è questione di mesi. E in tutti i casi, non potrebbe davvero sua figlia stare qui sola? O è lei che ha paura a lasciarla?

Madre.

Oh, no! Mia figlia è seria: non ha pratica della vita materiale, e per questo riguardo vive ancora come da bambina, sotto la mia tutela e le mie cure. Ma per il resto pensa solo ai suoi studi.

Straniero.

Mi permetta, signora, qualche altra domanda, e perdoni se le sembro indiscreto: sua figlia è bella?

Madre.

A me sembra bella.

Straniero.

Se è bella è anche buona, e noi potremo prenderla anche da questo lato. Un’altra cosa: quali sono i loro mezzi di fortuna?

Madre.

con un sorriso triste.


Scarsi davvero. Abbiamo questa casetta e la pensione lasciata da mio marito. Ci basta appena per vivere: io faccio tutto in casa, e mia figlia ancora nulla guadagna, ma non ha pretese: dopo la morte del padre porta sempre lo stesso vestito, e dice che ogni giorno più le piace, perchè più imbevuto della sua vita.

Straniero.

È brava davvero. Un’ultima domanda: sua figlia sa del passato?

Madre.

Sa. Non c’era ragione per nasconderglielo: anche perchè da bambina, quando frequentava le prime scuole, una sua compagna glielo accennò. È strano come le voci, specialmente malvage, si spandano anche in luoghi lontani: e il marchio della calunnia rimane indelebile. Certo, io ho errato, amando un uomo che non era libero, e a volte trovo quasi giusto che la calunnia sia stata subito il castigo dell’errore: ma è iniquo che questo veleno si sia riversato anche sulla mia creatura. Ella sa come sono andate le cose, e mi ama e mi stima ancora di più per l’angustia che ne patisco; eppure un’ombra c’è, fra me e lei: il buio momentaneo che la sua piccola compagna le ha quel giorno versato nell’anima come un acido negli occhi.

Straniero.

a sua volta pensieroso.


Da molto tempo non hanno più parlato di questo?

Madre.

Quando era vivo mio marito qualche volta ci si scherzava sopra. Era buono e gioviale, mio marito, e trattava me e la nostra figlia alla stessa maniera; come due bambine. Si sapeva, per esempio, che mio cugino aveva fatto fortuna, e lui scherzava anche su questo, dicendo che un giorno o l’altro tornava per rapirmi ancora; oppure che, morto lui, potevo sposarmi con l’altro e diventare ricca. In fondo io credo che un po’ di gelosia la conservasse; e tuttavia, nella sua infinita bontà, nel suo grande amore per me e la bambina, si confortasse davvero al pensiero di questa possibile fortuna: dopo la sua morte, io e mia figlia non abbiamo più parlato di questo: mai più.

Straniero.

Adesso però bisogna riparlarne: e avrei bisogno di una decisione pronta, poichè il mio amico aspetta una mia lettera come la ricetta di un medico dalla quale si spera un miracolo. Parli subito a sua figlia.

Madre.

Ho paura.

Straniero.

Crede che possa parlarle io?

Madre.

Forse è meglio. Tanto più che sento mia figlia tornare: ecco, apre la porta, sale le scale, è qui.

Parla sempre più sottovoce; poi si alza di scatto e va ad aprire l’uscio. Entra la figlia, completamente vestita di nero, con semplice eleganza.


Anna, c’è qui un signore che desidera parlarti.

Straniero.

in piedi, rigido e come sull’attenti.


Ingegnere Rodenberg.

Figlia.

senza tendergli la mano.


S’accomodi, prego.

Straniero.

dopo un lieve inchino si rimette a sedere.


Dalla sua mamma ho avuto il piacere di sentire che lei studia chimica. Posso quindi considerarmi quasi un suo vecchio collega. Mi permetta di parlarle con confidenza e spiegarle subito lo scopo della mia visita. Da molti anni conosco e amo l’Italia, tanto che, come sente, bene o male ne parlo la lingua: ho qua e là carissimi amici, e a uno di questi devo la conoscenza di una degnissima persona che parecchi anni or sono venne a stabilirsi fra noi. Nel sentire che ritornavo ancora una volta a rivedere l’Italia, questo mio amico carissimo m’incaricò di salutare a nome suo certi suoi parenti: e questi sono lei e la sua mamma.

Figlia.

con sorpresa tra finta e sincera.

Ah, lo zio: come sta?

Straniero.

Non troppo bene. È un uomo che ha molto lavorato, logorandosi l’organismo come altri logorano un vestito che indossano appunto nelle ore di lavoro. Egli ha poco da vivere.

Figlia.

Il clima anche non gli avrà giovato.

Straniero.

Il clima, l’esilio, la solitudine.

Figlia.

Dicono che è molto ricco: un uomo ricco non è mai solo.

Straniero.

L’uomo più ricco e più solo che io conosco è suo zio: tanto che io sono qui, signorina, per pregare i suoi parenti di aiutarlo.

Figlia.

Chiede aiuto da noi? Noi, sì, che siamo i più poveri e soli del mondo.

Straniero.

L’ultimo dei mendicanti può aiutare un re meglio che un re possa aiutare lui.

Figlia.

Sì, intendo, con l’affezione e la devozione: ma questi sentimenti non si richiedono ai parenti poveri, tanto più se non esistono già spontanei: i parenti poveri non possono nutrire per i parenti ricchi altro che un amore interessato.

Straniero.

In generale, da parenti o no, l’uomo ricco, solo, vecchio e malato come suo zio, non può ottenere che un amore interessato. Ed egli appunto domanda il contrario, e sa a chi si rivolge.

Figlia.

E la sua richiesta, per caso, in queste condizioni, non sarebbe a sua volta interessata?

Straniero.

Lei sa che non lo è, signorina: ed egli avrebbe fatto la sua domanda anche nei giorni buoni, se le circostanze l’avessero permesso: ma nella strada dei suoi desideri l’uomo arriva sempre tardi.

Figlia.

Non sempre, quando i desiderii sono onesti. D’altronde io non conosco quest’uomo qual è al presente e non posso giudicarlo. In che consiste l’aiuto ch’egli chiede da noi?

Straniero.

Egli chiede di non morire solo, in paese straniero: ma non è la paura di morire così che lo spinge a chiedere soccorso: forse anzi la morte gli sorride: piuttosto è il terrore che la sua lunga vita di lavoro, di onestà, di dolore e di amore vada dispersa invano. Egli ha una ricchezza da lasciare; non quella materiale con la quale può fare anche del bene postumo, ma la sua ricchezza interiore; e vuol lasciarla ai suoi legittimi eredi, che sono le persone più vicine al suo sangue non tanto per grado di parentela come per grado di affetto. Insomma, desidera che sua madre, signorina, e possibilmente anche lei vadano a raccogliere questa eredità. In parole più chiare, vuole infine che sua madre vada a rivederlo, ad assisterlo in questo suo transito verso l’eternità. Il resto lei lo sa, signorina, ed è inutile quindi continuare a parlarsi come personaggi da commedia.

Figlia.

Si rivolge alla madre che durante questo tempo è rimasta immobile, rigida, quasi estranea ai dibattito fra i due.


Mamma, hai sentito.

Madre.

Ho sentito.

Figlia.

Tu, che ne dici?

Madre.

Dico che è una fortuna da non rifiutarsi.

Figlia.

Tu chiami fortuna andare in paese straniero, fra sconosciuti, a far l’infermiera ad un uomo già morto?

Madre.

Ci sono certe suore che vanno nelle più lontane isole ad assistere i lebbrosi, e si credono solo per questo fortunate.

Straniero.

Eppoi, mi permetta d’interrompere, signorina, e perdoni se io non mi sono bene spiegato; non si tratta di assistenza materiale: suo zio, lei può capire, ha tutti gl’infermieri e medici che vuole. È la sola presenza di sua madre che invoca: è il soffio della vita che vuole a lui intorno per credere ancora di sopravvivere.

Figlia.

È questo il più terribile: ancor più di assistere i lebbrosi. Del resto egli non deve essere molto malato se ancora ha di queste illusioni: quelli che sanno di morire non amano, e non credono più in nulla.

Straniero.

Lei è dura, signorina, e parla come chi è stato sempre sano e lontano dalla presenza reale della morte.

Figlia.

Ho veduto morire mio padre. Ma, non parliamo di me, prego; io sono fuori di causa.

Straniero.

È lei anzi il centro della questione, e tutto dipende dal suo cuore.

Figlia.

Lei lo ha detto: il mio cuore è duro. Io studio scienze.

Straniero.

Io ho studiato scienze prima di lei e il mio cuore è il cuore dell’uomo secondo le leggi della natura.

Figlia.

Ma come lei non può amare concretamente uno che non conosce, così io non posso amare né aver pietà sincera del suo amico.

Straniero.

Lasci però che ne abbiano pietà gli altri.

Figlia.

Io credo di fare il mio dovere difendendo mia Madre da un sentimento che potrebbe farla soffrire: per evitare il dolore bisogna esser duri con noi stessi e con gli altri.

Straniero.

In tutti i modi non sarebbe che una pena breve, compensata poi da una grande fortuna.

Figlia.

Cosa intende lei per fortuna? Lei diceva poco fa che un mendicante può aiutare un re meglio che il re possa aiutare lui. La fortuna non è la ricchezza, è la forza di essere di sopra degli altri, fedeli a sè stessi e alle leggi eterne della coscienza umana.

Straniero.

Lei mi dà lezione, signorina; ed io ho piacere di sottomettermi: però, mi permetta una domanda: se questa fortuna le venisse in eredità da un parente scevro dei torti ch’ella in cuor suo attribuisce al mio amico, la rifiuterebbe egualmente?

Figlia.

Se io me ne riconoscessi erede legittima, o l’attribuissi a meriti esclusivamente miei, mi dichiarerei io stessa idiota a non accettarla; ma senza curarmene come mi curo della mia vera fortuna, che è tutta in me.

Straniero.

Lei è giovane e intelligente, e la vita è davvero in mani sue, come un frutto nelle mani di un bambino; ma lei pensa troppo a sè stessa, e la coscienza di cui lei parla è vivida, sì, ma come un sole in un mondo morto: non illumina e non riscalda nulla e si aggira inutilmente intorno a sè stessa.

Figlia.

Quello che io dicevo poco fa, che voglio salvare mia madre dal dolore, dimostra il contrario. Io amo mia madre.

Straniero.

E allora ponga la sua coscienza di fronte a quella di sua madre, ed esamini anche il problema se per sua madre sia maggior dolore e maggior dovere seguire o no il suo istinto.

Figlia.

La madre non ha che un istinto: quello del bene per i figli; sta ai figli dimostrarle che a volte sbaglia, e che il suo bene forma il bene dei figli.

Rivolgendosi alla Madre.


Ad ogni modo, mamma, io non mi oppongo alla tua volontà: credo bene però che tu a tua volta esamini la tua coscienza e non ti abbandoni al primo istinto che certamente è stato quello di sacrificare qualche mese della tua e della mia esistenza per raccogliere un’eredità utile più a me che a te.

Madre.

sottomessa ma non umile.


Tutto quello che doveva dirsi si è detto. Forse è Dio stesso che ci manda questa fortuna, e la mia volontà è appunto di accettarla. Tuo padre....

Figlia.

Lascia Dio, e lascia mio padre. Non parlare di lui in questo momento. O meglio, sì, mamma, se vogliamo abbandonarci al sentimento, ricordati: questa è ancora la tavola dove ci si sedeva intorno, io, tu e lui, nelle ore in cui ci si riunisce per rinnovare tacitamente i patti d’amore e di fedeltà. Egli è ancora qui per rinnovarli. Egli ha vissuto solo per noi, ha faticato tutta la vita per noi, e noi viviamo ancora della sua carne scioltasi nel suo lavoro. Egli ti ha sollevato dal dolore, dall’umiliazione, ti ha amato per la tua stessa sciagura: ti ha guarita e dato una vita nuova. E tu, che non lo hai tradito mai in vita, vuoi tradirlo adesso che è morto?

Madre.

Egli non si crederebbe tradito: ci amava troppo per non intendere e non volere che il nostro bene.

Figlia.

Siamo sempre lì: tradire sè stessi e gli altri per un istinto che in fondo è sempre di egoismo.

Madre.

E allora ha ragione il signore qui presente: può darsi che anche il tuo caso di adesso sia di egoismo. E anche un istinto involontario di vendetta: tu hai sempre odiato quell’uomo come avesse fatto male solamente a te.

Figlia.

E non è così? Lo puoi negare?

Madre.

E allora anche tu non parlare della memoria di tuo padre: sei tu che ne prendi le spoglie, ma non il cuore.

Figlia.

L’onore è al di sopra di tutte le cose: è il fuoco che bisogna nutrire con tutte le scorie della vita: e io difendo l’onore di mio padre anche contro il suo amore: tu non devi prendere un nome che starebbe come un’ombra su quello di lui.

Madre.

Questo secondo la gente: secondo la verità no: anzi, secondo la gente sarebbe una riabilitazione.

Figlia.

Che vuol dire il riconoscimento d’una colpa non fatta. Ma lasciamo la gente, della quale abbiamo fatto sempre a meno: e quando io parlo dell’onore è di quello che vale per noi, non per gli altri. E per dimostrarti che non il risentimento, come tu credi, e la paura del prossimo mi tocchino, io ti dico, mamma, se tu credi fare opera di carità, o anche di amore, andando ad assistere quell’uomo, va pure: quello che ti impedisco è di vendere, in qualunque modo, i tuoi sentimenti, e tanto meno di farlo per me.

Madre.

E se io avessi piacere di farlo? Se io pensassi che la vita è dura, che tu sei giovane e sostenuta solo dal tuo orgoglio; che un giorno, vinta, potresti rimproverarmi di averti dato ascolto? Io sono avanti di te, bambina mia, e vedo più lontano. Arriva un giorno in cui si è stanchi e si vede tutta l’inutilità di quelli che ci son parsi sacrifizi ed eroismi ed erano solo atti di orgoglio, o fatti di pura poesia.

Figlia.

La poesia è lo spirito della vita: e sì, io che voi dite così dura e senza cuore, forse non parlo che per la paura di perdere i miei sogni. Che cosa più bella nella nostra povertà? E la povertà stessa? E la libertà che abbiamo? Che cosa faresti tu, mamma, tolta a questa tua umile ma piena vita, a queste stanzette che tu lisci e ripulisci come il tuo stesso vestito; quando tu non avresti da preparare il cibo a me, per sostenere più che il mio corpo l’anima mia, quando non avresti più la speranza del mio avvenire, e la gioia, la trepidazione e anche la paura di aspettarmi? Che sarebbe la tua vita senza quest’attesa e la certezza del mio ritorno?

Madre.

Una madre aspetta sempre il ritorno dei figli.

Figlia.

Ma tu non saresti più la stessa per me, e ben diversa sarà la tua attesa da quella che adesso è l’aria stessa dei tuoi giorni. Non senti che già qualche cosa ci separa, e questa discussione medesima è angoscia, è ombra che non se ne andrà via presto? Non senti che questo Straniero starà lì per molto tempo, in mezzo a noi, e finirà col portarti via? E la verità sola, in tutto questo, è che io ho bisogno di te, mamma, ma quale sei stata fino adesso, perchè il fiore della mia vita si apra tutto, in quest’atmosfera vergine. Non senti ch’io ho paura, se tu accetti, di diminuirmi, di piegarmi nelle fila dell’innumerevole gregge umano?

Straniero.

che ha seguito la discussione con solo una lieve mimica nel viso, a volta a volta ironica, triste, sdegnosa ed infine commossa, si alza quasi involontariamente, come per togliersi di mezzo dalle due donne e lasciarle libere d’intendersi: e cerca di mettersi nell’ombra: ma le due donne lo seguono con gli occhi e anche la figlia si alza, appoggia le mani alla tavola e china la testa, pensierosa e turbata.


Figlia.

Però c’è una cosa, la più importante di tutte, che è pure una legge divina. Onora il padre e la madre. Ed io ti rispetto, mamma, io ho piena fede in te. Sei tu dunque che devi dire l’ultima parola: decidi come se io non ci fossi, taglia via il pensiero di voler fare, anche contro mia volontà, bene a me, solamente a me. Infine, fa come che io sia già accanto a mio padre, di là, e pensami solo come spirito. E se la tua coscienza ti dice di andare, o per l’antico amore, o per speranza di bene, o sia pure per semplice pietà, infine per un bisogno tuo spirituale, mettiamo pure per il bene che potresti fare con la tua fortuna, o per l’elevazione tua medesima che questa potrebbe favorire, va pure.

Madre.

Si nasconde il viso fra le mani e piega la testa: poi si alza, pallida ma decisa e quasi dura, si avvicina allo Straniero e gli tende la mano.


Dirà al suo amico che da lungo tempo ho perdonato e dimenticato; ma che il mio posto è qui.

Straniero.

S’inchina e le bacia la mano; anche la Figlia gli tende la mano, poi lo accompagna all’uscio.


Cala la tela.

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