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XVII. Il veto del Gran Proposto
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CAPITOLO XVII.

Il veto del Gran Proposto.

Velocissima è la corsa del tempo, anche per gli addolorati e per gli amanti, cui le ore sembrano secoli.

E l’Albani, compiuto il mese di dilazione, superata la terribile prova della lontananza e dell’isolamento, tornava a Milano più innamorato che mai, coll’anima piena di entusiasmi e di terrori.

In quel mese egli aveva percorse le principali città dell’Unione, soffermandosi di preferenza a Berlino, a Pietroburgo, a Parigi, a Pest, dove era stato chiamato per dirigervi i suoi sorprendenti meccanismi.

Negli ultimi giorni di dilazione, egli aveva provate quella febbre tormentosa della impazienza che, all’avvicinarsi di una catastrofe desiderata, sviluppa nei temperamenti irritabili i sintomi della follia.

Per illudere sè stesso, per placare quelle ansie affannose, egli aveva anticipata di ventiquattro ore la sua partenza da Pest, servendosi di quei mezzi di trasporto che erano i meno veloci, e come tali, accordati gratuitamente dagli statuti della Unione alla classe dei nullabbienti. Era venuto da Pest a Parigi colla ferrovia a pressione atmosferica; da Parigi a Saint Jean de Maurienne colla Messaggeria pneumatica dei Bonafous; e da ultimo aveva sorpassato il Cenisio colla locomotiva ertoascendente della Società Goudar e Blondeau, — una locomotiva che aveva fatto obliare il meraviglioso traforo praticato fino dal secolo precedente nelle viscere del monte1.

L’Albani giunse in Milano verso le nove della sera. Prima di oltrepassare la cinta balsamica2, egli si fermò un istante per consultare il suo orologio calamitato — poi, come uomo che tema di essere veduto o riconosciuto, sbottonò dalle spalline il berretto succursale per riporselo in capo, rialzando al tempo stesso i due paraventi acustici3 fino al disopra dell’orecchio.

Se un agnete della pubblica sorveglianza lo avesse sorpreso in quell’atto, avrebbe creduto di mancare al proprio debito omettendo di segnalare i di lui connotati sul tessero dei forestieri sospetti.

Quella esitanza, quelle precauzioni, non erano per parte dell’Albani che uno scrupolo eccessivo di legalità. Egli aveva notato che mancavano ancora dieci minuti al termine assegnato dalle leggi per la prova di dilazione.

— Conviene ch’io sia rigoroso fino all’eccesso! — pensava egli. — Il bene cui vado incontro è così grande, e d’altra parte sono così grandi i pericoli che mi circondano, che io mi riterrei uno scellerato quando dovessi imputare alla mia trascuratezza od alla mia imprudenza un disastro qualunque.

Come ognun vede, quell’anima ardente ed onesta era sempre agitata dal dubbio e dai presentimenti sinistri.

Per comprendere il cuore dell’Albani e le lotte tremende del suo spirito, è mestieri che noi ricordiamo sempre ciò che egli non poteva mai dimenticare, il suo terribile passato. — Quest’uomo si era macchiato di un orrendo delitto — aveva subito una pubblica condanna, per cinque anni morto alla società, egli non era mai riuscito a persuadersi che questa avesse realmente obbliato e perdonato. Nella rettitudine della sua coscienza, egli si giudicava inferiore a tutti gli incolpevoli. E quando la voce della coscienza parea placarsi, un’altra voce più lugubre gli rintronava nell’anima, quella del pubblico banditore, che dall’alto suo pergamo, in mezzo ad una piazza gremita di popolo e muta non di meno come una tomba, veniva ad intimargli la morte civile. Gli accadeva sovente di fermarsi col pensiero in questa meditazione angosciosa... Lo spirito della legge gli appariva eccellente. La condanna della morte civile, dopo i cinque anni di espiazione, prometteva l’oblìo del delitto, e la Riabilitazione completa. Tutto ciò era scritto nei codici, tutto ciò era articolo di legge. Ma i codici, gli statuti, le leggi sono un contratto sociale, che non può mutare la essenza, la natura dell’uomo, quand’anche quest’uomo apparisca grandemente modificato dalla così detta civilizzazione. — I sofismi sono vani. — No! io non posso arrendermi a codesto assurdo del convenzionalismo contemporaneo — gridava l’Albani con accento disperato ogni qualvolta gli avveniva di soffermarsi in questo doloroso argomento. — Io non cesserò mai di essere un morto; la società tutta intera non cesserà mai di considerarmi come tale, sebbene ella debba, in forza di una legge, accogliermi come un essere vivente. Mentiranno. Taluni vorranno anche prodigarmi delle speciali amorevolezze... Ma questo sentimento, questo atto di carità, o peggio di compassione, accuserà il non senso della legge. Mentre io non ho mai potuto, né potrò mai cancellare dalla mia mente le terribili impressioni di quella condanna; potranno essi obbliarle? essi!... Gli uomini!... gli spettatori del lugubre palco, che hanno inorridito del mio misfatto e del mio nome?

Ma in questa procella di pensieri che turbava incessantemente lo spirito dell’Albani, un astro solitario brillava di luce perenne — la fanciulla dell’amore e del perdono — Fidelia! La fede dell’Albani era tutta in quel punto luminoso, che egli vedeva brillare attraverso alle nuvole opache; in quella vergine bianca e diafana, che in una notte di supreme angosce posando una mano di neve sulla sua fronte inaridita, aveva dato dell’amore quella sola definizione in cui egli poteva aver fede.

L’avvenire dell’Albani era Fidelia. Il cuore di Fidelia era un mondo, che gli offriva un rifugio, un paradiso dov’egli sperava di obliare sé stesso e di farsi obliare.

Ed ora, ritornando dopo l’assenza di un mese, dopo la prova di una legge, per la quale era vietata qualunque comunicazione fra due amanti fidanzati, l’Albani riportava a Milano tutto il suo amore e tutta la sua fede nella donna che già gli era sposa nel vincolo religioso; ma i suoi dubbi, le sue diffidenze, i suoi terrori non potevano dissiparsi completamente fino a quando, sul libro di petizione pubblica, non avesse letto l’adesione formale di Fidelia, e ciò che egli tremava di vedersi negato, lo assenso del Gran Proposto.

Ma l’ora, che doveva risolvere i suoi dubbi, che doveva metter fine a quelle ansie febbrili, era giunta. I dieci minuti trascorsero. Il termine legale di dilazione era spirato, e l’Albani poteva entrare liberamente nella città.

Salito in una gondola volante, ordinò al conduttore di prendere la via del Palazzo di Famiglia, laddove un mese prima, quasi alla medesima ora, egli era entrato coll’anima inebbriata di amore, per iscrivere la sua domanda di legittimazione civile al matrimonio religioso da lui precedentemente contratto colla figlia del Gran Proposto.

La volata fu breve. Disceso dalla gondola, l’Albani precipitò nel palazzo, corse alla sala di amore, si fece portare il gran libro, e dopo averlo sfogliato, arrestò gli occhi sulla pagina che portava la sua petizione.

Sotto i caratteri, una mano di donna, la mano gentile di Fidelia, avea tracciato queste poche linee, che l’Albani lesse avidamente.

«Io Fidelia, adulta, figlia di Terzo Berretta Gran Proposto di Milano, attestandosi unita dall’indissolubile vincolo religioso all’adulto Redento Albani qui sopra iscritto, aderisco di cuore, per quanto a me spetta, alla petizione di civile matrimonio formolata da lui salvo sempre il rispetto del veto paterno, come di legge, e l’adempimento delle cerimonie obbligatorie».

L’adesione di Fidelia era esplicita, senza condizioni, quale l’Albani l’aspettava, quale egli aveva il diritto di attenderla.

Ma al piè di quelle cifre così gentilmente tracciate dall’amore, spiccavano due linee di carattere diverso, due linee improntate da altra mano, difformi, contorte, quasi illegibili. All’occhio, al cuore dell’Albani, quelle due linee produssero l’impressione di un rettile nero, raggruppato sotto un cespo di rose.

Gli occhi dell’Albani si iniettarono di sangue. A lui non era mestieri di leggere quello scritto per accertarsi della propria sciagura, per riconoscere avverati i suoi presentimenti sinistri, E nondimeno portò la mano alla fronte e fece un gesto come a rimuovere un velo che gli offuscasse la vista. Le sue pupille avide e truci sibilavano le parole, — e ciascuna di quelle sillabe gli sgocciolava sul cuore come una stilla di piombo infuocato.

Il veto del Gran Proposto portava una data recente, ad era formulato nei termini più assoluti.

«Io sottoscritto, appoggiandomi ai miei diritti di paternità, e rassicurato in questi diritti da gravi ragioni che io farò valere, dietro reclamo delle parti interessate, dinanzi al Consiglio inappellabile degli Anziani di famiglia; credo di opporre il mio veto alla petizione di matrimonio civile inoltrata dall’inscritto Redento Albani in favore dell’accettante Fidelia Berretta, mia figlia adulta.

Terzo Berretta

Gran Proposto della famiglia Olona».


Sotto il peso di un’accusa inaspettata e terribile, avviene che l’uomo più incolpevole provi il bisogno di scandagliare la propria coscienza, non foss’altro per attingervi il coraggio e la forza di respingere gli attacchi. Ma l’Albani era troppo sicuro di sè stesso per discendere a questo esame. Il veto del Gran Proposto, per tutt’altri che per lui, poteva essere considerato un atto di accusa; ma egli, per quella logica di sospetti e di diffidenze che era stata il supplizio de’ suoi giorni di esilio, per quella divinazione del presentimento che rare volte fallisce, per gl’impeti sdegnosi del suo nobile cuore, non rimase perplesso un istante. Quelle linee fatali scritte dal Gran Proposto erano la dissimulazione del codardo, la calunnia, il tradimento, il principio di un assassinio legale.

I pugni serrati alla sbarra del leggio, le labbra livide e spumanti, l’Albani rimase alcun tempo nella immobilità contratta del forte che vuoi resistere agli impeti della passione.

Orribili disegni gli attraversavano la mente. I truci lampi del suo sguardo rivelavano l’anelito della vendetta. Quell’uomo era il nembo che si condensa per esplodere terribilmente.

E forse, nell’impeto, della disperazione, l’Albani avrebbe tutto dimenticato, il suo amore, la sua donna, i suoi doveri verso la società, i mezzi più pronti e più validi che la legge istessa gli offriva per ottenere giustizia; se a scuoterlo dal cupo letargo non fosse intervenuta una voce piena di dolcezza, una voce santa come le aspirazioni di Dio, cui quel carattere indomito e procelloso non aveva mai resistito.

Era la voce del suo compagno di espiazione, di lui che lo aveva sorretto per cinque anni sul cammino del dolore; del giovine levita che portava il nome di Fratello Consolatore.

La parola, l’aspetto di quell’amico produssero nell’anima dell’Albani una reazione benefica.

— Tu qui, fratello! — esclamò l’Albani volgendosi al Levita, e gettandogli al collo le braccia.

— Io!... E poteva essere altrove in questo momento?... L’ora del tuo ritorno era scritta nel mio cuore, ed io sapeva che i tuoi primi passi sarebbero diretti a questo luogo, e che qui... avresti avuto bisogno di conforti e di consigli.

— Io ti ringrazio, fratello! — rispose l’Albani, dopo aver sfogato sul petto del levita la piena delle lagrime — io ti ringrazio!... Ebbene!... Vediamo; quali conforti, quali consigli puoi tu offrirmi? Vedi!... Io mi era affidato alle tue promesse... Io aveva contato sulla giustizia di Dio... ed anche un poco sulla giustizia de gli uomini!...

— E troppo presto hai cominciato a disperare soggiunse amorevolmente il levita. — I conforti che io ti posso offrire derivano sempre della medesima sorgente, dalla fede nello spirito del bene; i consigli saranno ora come sempre quelli della ragione e della legalità. Non hai tu nulla da rimproverare a te stesso? Sei tu disceso nella tua coscienza per investigarne le pieghe più occulte? Hai chiamato a rassegna le tue azioni dal giorno in cui la umanità ti aperse le braccia rendendoti il bacio del perdono e dell’oblio? Or bene: poiché nessuna ricordanza di colpe viene ora ad affliggere il tuo spirito; poiché a nessun dovere hai mancato verso la patria, verso la società e verso le leggi, non è mestieri che io ti insegni ciò che ti resta a fare. Quel libro sul quale è registrata l’accusa, ti aprirà le vie della giustizia, ti accorderà tutti i mezzi della discolpa. Se ti preme l’amore della tua donna, se ti è cara la tua onoratezza, se non hai ripudiata quella fede religiosa che grida alla coscienza: esser dovere dell’uomo cooperare incessantemente sulla terra al trionfo del bene, tu guarderai in faccia alla verità, e la sfiderai al cospetto dell’universo!

L’Albani stette alcun tempo senza proferir parola. Poi, coll’accento dell’incredulo che sì piega ad una convinzione autorevole:

— Amico... fratello — disse al levita — fino dal primo momento che mi occorse agli occhi quel veto, ho riconosciuto che esso racchiudeva una calunnia, una trama inqualificabile, contro la quale io sarò impotente a lottare. Essi... gli infami... avranno calcolato tutte le evenienze possibili... Egli che occupa un posto tanto eminente nella società, non potrebbe lanciare un tal colpo, se prima non fosse ben sicuro che non avesse a ricadergli sul capo. Io ti giuro, fratello, che il mio cuore non ha più fede nella giustizia degli uomini. Nondimeno voglio cedere ancora una volta a’ tuoi amichevoli consigli che mi furono legge negli anni più desolati della mia esistenza. Ma, bada! questa è la mia ultima prova! Se dessa non riesce quale tu me la prometti, quale dovrebbe riuscire perché io riconosca il tuo Dio, allora tu stesso dovrai assolvermi dall’obbedire alle leggi del male, ed io diverrò quello che fui nei primi tempi della mia giovinezza: un vindice della umanità conculcata, un fulmine dei soperchiatori e dei despoti.

Ciò detto, l’Albani si accostò di nuovo al leggio, prese una penna, e sotto il veto del Gran Proposto scrisse le due linee seguenti:

«Io domando che, a termine di legge, entro le ventiquattro ore prescritte, il Gran Proposto Terzo Berretta mi renda ragione del suo veto dinanzi al Consiglio degli Anziani.

«Redento Albani».


Compiuta quella formalità, i due amici si separarono. L’Albani salì nella sua gondola e ordinò al conduttore di calarlo alla Villa Paradiso.

Giunto alla Villa, il fidanzato di Fidelia diede il segnale perché si aprissero i cancelli. Entrò senza volger parola al Custode che era mosso ad incontrarlo. Attraversò i viali a passo concitato; congedò bruscamente le volonterose che lo attendevano negli atrî, ordinando che fosse tolta la luce al palazzo.

Rimasto solo in quel vasto salone reso tetro dall’oscurità come una grotta popolata di immobili spettri, l’Albani si sdraiò sul tappeto ruggendo:

— Guai a loro! guai a tutti... se domani io dovessi portare le fiamme dell’inferno in questo paradiso creato dall’amore!

  1. La locomotiva erto— ascendente si costituisce di una catena di vagoni ordinarii messi in moto da un gigantesco pallone della forza di ottocento aquile. Immaginate l’immenso aereostata che parte dal vertice della montagna, trascinando, nell’impeto dell’ascensione, una grossa fune, la quale si prolunga fino alla base del monte per congiungersi ai vagoni. La fune, girando sovra una serie di carrucole mobilissime aderenti al pendìo, mette in moto il convoglio e lo obbliga a salire. È superfluo avvertire che queste corse ascendenti sono esattamente commisurate alla lunghezza della fune, riuscendo altresì molto facile arrestare il convoglio, alle diverse stazioni, coi freni nodosi già prima intercalati alla fune medesima. Le corse discendenti si effettuano sullo stesso binario senz’altro motore che quello della gravitazione naturale del convoglio, opportunamente frenato dalle corde coibenti.
  2. La cinta balsamica è una doppia fila di alberi ed arbusti aromatici, sostituita agli opprimenti bastioni del secolo precedente. Il profumo di questi alberi è un efficace disinfettante dell’aria, sopratutto nella calda stagione. La cinta balsamica serve anche nell’autunno e nell’inverno per riparare la città dalla invasione delle nebbie.
  3. Paravento acustico. Non farà meraviglia che un secolo tanto affaticato dalla operosità dello spirito, e per conseguenza tanto nervoso, abbia dovuto ricorrere a mille congegni meccanici per proteggere i sensi e rinvigorirli. Non c’era bisogno di occhiali, prima che l’umanità imparasse a leggere ed a vegliare sulle carte al lume incerto e tremolante della candela — e così pure non venne sentita la necessità del paravento acustico e d’altri riparatori e rinforzatori dell’udito, prima che il trambusto delle locomotive terrene ed aeree, prima che il frastuono dei grandi apparati meccanici non minacciasse di ottundere anche i nervi più sani.
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