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CAPITOLO XX.
Il chiodo fantastico.
In una delle più intime stanze della Villa Paradiso, disteso sovra un candido letto, il pallido volto abbandonato ai guanciali, giace l’amante di Fidelia assopito da un letargo affannoso.
Al lato dell’infermo, in atteggiamento di profonda mestizia, sta assiso il Levita che porta il nome di fratello Consolatore.
Il suo sguardo e il suo pensiero sembrano assorti in un fascicolo di carte manoscritte.
Un lieve rumore di passi ha riscosso il Levita.
La porta si apre, e il vecchio custode della villa introduce nella stanza l’illustre primate di medicina Secondo Virey, seguito da due praticanti specialisti, incaricati di esercitare l’azione magnetica sull’infermo.
Fratello Consolatore ha ceduto il posto al Primate. I due praticanti distendono le braccia, e il Virey non tarda un istante ad iniziare l’esplorazione.
— Sei tu in grado di osservare?
— Lo sono — risponde il malato agitando lievemente la testa.
— Hai tu compiuto il tuo corso di scienza medica?...
— Io dovetti interromperlo per forza di legge, ma non vi è arcano della scienza che a me sia sconosciuto,
— Vedi tu nulla di anormale nel colore del tuo sangue arterioso?
— Nulla,
— Al cuore?...
— Una leggiera enfiagione al lato destro.
— Al cervello?
— Delle parziali alterazioni negli organi inferiori; disparizione quasi completa della stearina, e prevalenza di fosforo.
— Sei tu ben sicuro di quanto asserisci circa la prevalenza del fosforo?
Il malato chiude gli occhi, e dopo breve silenzio risponde affermativamente.
Ad un cenno del Virey, i due praticanti magnetisti abbassarono le braccia, e la testa del malato, abbandonata dal fluido possente, ricadde assopita sui guanciali.
Il Virey rivolse la parola al fratello Consolatore.
— Credo esser nel vero affermando che l’illustre infermo rappresenta una delle tante vittime dello spiritualismo esagerato dell’epoca nostro. Porgetemi la biografia di questo sventurato...
Fratello Consolatore si fece innanzi e consegnò il manoscritto al Primate.
— Le alterazioni del sistema arterioso — riprese quest’ultimo con calma solenne — derivano da grandi sofferenze morali accoppiate ad una violenta attività del cervello. Questa attività ha potuto assorbire, distraendola dal cuore, una delle grandi cause efficienti della malattia. Senza questa circostanza, l’aneurisma avrebbe già prodotto le sue conseguenze mortali. Ma la biografia del malato chiarirà meglio la mia diagnosi. Potete voi giurare, o fratello Levita, che in queste pagine non vi abbia parola la quale non sia ispirata dalla verità?.
Fratello Consolatore portò la mano al petto e rispose:
— Pel corso di cinque anni ho diviso tutte le angosce dell’uomo che ci sta dinanzi: la sua anima si è completamente rivelata alla mia e voi la vedrete riflessa in quelle carte...
— Voi fortunati! — esclamò il Virey con un sorriso di sdegnosa ironia — voi che avete il privilegio di scorgere l’anima attraverso le molecole organiche dalle quali risulta la vitalità... La scienza di noi profani non giunge a tanto. Vedete voi la vostra anima, fratello Levita?
— Non la vedo, ma la sento — rispose fratello Consolatore con umile voce.
— E siete proprio persuaso che il battito delle arterie, il respiro dei polmoni, la facoltà di pensare e di agire dipendano da una potenza misteriosa che non ha da fare colla materia?
— Il giorno in cui in me cessasse una tale convinzione, arrossirei di esser uomo e invocherei di morire.
— Mentre io mi occuperò a leggere queste note biografiche — disse il Virey allontanandosi — voi potrete, o fratello, esercitare le vostre pratiche salutari sull’anima dell’infermo. Più tardi, se i vostri rimedi non avranno giovato, io mi permetterò di tentare qualche prova sulla massa corporea. Vi prometto che il vostro metodo di cura non ne rimarrà pregiudicato.
Così parlando, il Virey si ritirò nel vicino gabinetto. Fratello Consolatore cadde in ginocchio presso il letto dell’infermo mormorando una preghiera.
Trascorsa un’ora, il Primate di medicina rientrò nella stanza.
Ai due praticanti magnetisti che lo accompagnavano si era aggiunto un numeroso drappello di giovani studenti, intervenuti spontaneamente al consulto per erudirsi nella dotta e faconda parola dell’illustre scienziato. Il Virey da più mesi non era venuto a Milano; tutti si attendevano che al letto degli infermi egli avrebbe solennemente proclamate e spiegate le sue grandi teorie innovatrici.
L’aspettativa non fu delusa.
I giovani si schierarono silenziosi intorno al letto, e il Primate con accento solenne prese a parlare:
«L’esplorazione magnetica non mi aveva ingannato; la biografia dell’infermo, e più che altro la storia delle sue ultime peripezie ha confermato i miei criterii sulla natura del male che reclama i nostri soccorsi.
«La scienza medica ha fatto, nella prima metà del corrente secolo, dei progressi meravigliosi. Oggimai non vi è legge dell’organismo umano che a noi sia ignota, non vi è forza della natura che abbia potuto sottrarsi alle nostre investigazioni ed al dominio delle nostre esperienze. Ogni mistero si è rivelato; l’organismo umano non ha più segreti per noi; la chimica ha messo a nostra disposizione tutte le sostanze vitali disperse negli elementi, tutti i reagenti salutari che rispondono alle umane fralezze.
«Possiamo noi inorgoglirci degli stupendi risultati?
«Possiamo noi esultare dei nostri trionfi, mentre gettando uno sguardo sulla umanità ci è forza di constatare il suo incessante deperimento?
«I nostri legislatori si mostrano sgomentati della frequenza, per verità spaventevole, dei suicidii individuali; eppure — strano a pensarsi — assistono spettatori indifferenti ed improvvidi al suicidio di tutta la specie umana!
«Se fosse lecito dubitare della perfezione matematica dell’universo, che implica necessariamente la perfezione dei singoli elementi cosmici, in verità noi dovremmo chiamare assurda ed improvvida questa grande sproporzione che si manifesta tra la facoltà immaginativa e la forza puramente meccanica dell’uomo. Tutte le malattie, tutte le passioni e le ansie che ci contristano la vita ripetono la loro origine e la loro causa efficiente da questo fenomeno implacabile. Il progressivo sviluppo e la conseguente attività delle forze morali segna nell’organismo dell’uomo le fasi del deperimento che conduce alla morte. Questo attrito incessante fra l’uomo intelligente e l’uomo bruto risponderebbe per avventura ad una misteriosa esigenza dell’ordine universale? Questa legge, così assurda nelle apparenze, costituirebbe forse il principio demolitore, o meglio, la potenza trasformatrice della umanità? La razza umana sarebbe mai destinata a scomparire dopo un lasso di secoli, per vivere e riprendere sotto nuovi aspetti la sua attività cooperativa in un mondo ringiovanito? Ammessa una tale ipotesi, per la quale verrebbero ad eliminarsi molti assurdi concetti, volgendo uno sguardo alle condizioni attuali della umanità, ed ai gravissimi indizi di prostrazione che in ogni parte si manifestano, non possiamo astenerci dall’emettere un grido di allarme — l’agonia della nostra specie è cominciata. Il fuoco della nostra intelligenza ha raggiunto il massimo grado della incandescenza; questo fuoco sta per estinguersi.
«Noi siamo all’ultimo atto della grande tragedia umana. Il Titano intelligente si elevò ad una altezza non mai raggiunta, ma la sua caduta sarà irreparabile.
«Abbiamo spogliate le foreste, abbiamo traforate e abbattute le montagne, abbiamo aperte delle voragini per rapire alla terra le materie combustibili e gazose; abbiamo deviate le correnti elettriche; dapertutto la mano dell’uomo ha portato lo scompiglio e lo sfacelo.
«Che più ci resta a tentare? Dopo aver dominato la terra e le acque, ecco le nostre locomotive ci sollevano ai cieli... Non basta? Fourrier, coll’innesto delle ali, ci comunica una nuova facoltà, ci promette una trasformazione...
«Affrettiamoci, signori! Ciò che abbiamo fatto per suicidarci è poca cosa... Voliamo alle regioni dove spaziano le aquile!... Voliamo colà dove per l’uomo si respira la morte...
«E i sintomi mortali si scorgono dapertutto. L’attività febbrile che nello scorso decennio ha operato dei prodigi, oggi accenna ad estenuarsi; la luce della intelligenza umana è quella del lucignolo prossimo a spegnersi.
«E frattanto, qual forza ci soccorre? La terra, nostra madre, e nudrice, è ormai stanca delle nostre violenze. Essa comincia a ribellarsi. I cereali intisichiscono, la vite non dà più grappoli; gli animali che più abbondante e vigoroso ci fornivano l’alimento, si ammorbano e periscono sui pascoli insteriliti.
«E già i governi mandano un grido di allarme; e il diritto alla esistenza sancito dalle nuove leggi diverrà fra poco una derisione... Ma a ciò provveda chi deve.
«Il nostro compito, o signori, è quello di affermare, per quanto è da noi, la vita individuale, mentre le masse precipitano nella morte.
«L’umanità è colpita là dove ha molto peccato. La prevalenza del succo nerveo ha paralizzato le forze del sangue; l’equilibrio degli elementi vitali è cessato; l’uomo vegetale, l’uomo bruto fu invaso dell’uomo pensante.
«Dalle cattedre, dai libri, dai giornali noi abbiamo reagito costantemente contro l’invadenza di uno spiritualismo micidiale. Ma la superbia umana ha sordo l’orecchio alle verità che la umiliano.
«La religione riformata, accarezzando l’orgoglio dell’uomo e l’idealismo irrazionale della donna, ha messo il colino alla esaltazione. In ogni paese, in ogni tempo, l’ascetismo fu nemico della nostra scienza; ma a nessuna epoca mai come alla nostra, il prete ed il poeta, questi eterni falsarii della legge naturale, questi allucinati o coscienti mistificatori delle plebi umane, esercitarono più micidiale il loro predominio. I fanatici del nuovo culto impazziscono a migliaia. Parigi, la superba città che era nello scorso secolo denominata il cervello del mondo, Parigi non rappresenta oggigiorno che un vasto manicomio.
«Ma questi signori vi diranno: ciò che a noi importa è la salute delle anime! Orbene! (e così parlando il Virey si volse a fratello Consolatore) non vi par tempo che noi interveniamo?
«Vorrete poi permetterci di tentare qualche esperienza profana sugli atomi vitali che per avventura serpeggiano tuttavia in questo corpo estenuato?...»
Fratello Consolatore non rispose e chinò la testa mestamente.
Il Virey, per un istante disarmato dall’umile atteggiamento del Levita, riprese la parola con intonazione più dimessa:
«La malattia che ha colpito quest’uomo è una delle più comuni oggidì: la lassitudine nervosa complicata e aggravata da un chiodo fantastico.
«Lo sfinimento dell’apparato nervoso ripete la sua origine da troppo intense e prolungate esercitazioni della macchina cerebrale; il chiodo fantastico è frutto di una troppo costante e inesaudita surreccitazione dei globuli simpatici. Il bagno fosforico e le fasciature elettro—magnetiche applicate con prudente moderazione potrebbero in breve tempo rinvigorire il sistema pregiudicato; ma un tal metodo di cura aggraverebbe la crisi dell’organo più compromesso.
«Signori!... occhio al cervello!... occhio al padrone, al governatore, al tiranno della casa vitale! Abbiate per fermo che nessuna malattia è mortale quando l’organo tiranno che siede là dentro conservi piena ed intatta la sua forza di volere.
«Affrettiamoci dunque! Il nostro primo compito sia quello di ristabilire l’equilibrio fra i globi cerebrali. Ottenuto l’equilibrio, quando il malato sarà in grado di pensare e di volere, in pochi giorni la resurrezione delle fibre sarà completa.
«Riassumiamoci. La biografia del paziente ci ha rivelato che un intenso desiderio di possessione riportato sovra una donna fu causa della anomalia. L’idealismo! sempre l’idealismo! fomite di ogni follia, di ogni disordine, per non dire di ogni umana scelleratezza. Questo uomo, credendo di amare, ha fatto violenza alle leggi della natura e si è reso impotente. Io vorrei bene, o signori (e qui la parola del medico riprese una intonazione più vibrata), io vorrei bene, se la situazione del malato non esigesse tutte le nostre sollecitudini, sbizzarrirmi alcun poco nella diagnosi di questa vacuità a cui le moltitudini danno il nome di amore!... Oh! chi scriverà la storia dell’amore? Chi vorrà riprodurre nella sua spaventevole ampiezza la cronaca delle follie e dei delitti derivati da questo equivoco, da questa fatale illusione della superbia umana? E fino a quando proseguiremo noi ad insultare la natura, a pervertirci, a suicidarci, per la mania di idealizzare a mezzo di una insensata parola l’attrazione simpatica dei sessi, comune a tutti gli enti, a tutte le molecole della creazione?
«Ma torniamo al malato. La prevalenza del fosforo, rivelata dalla esplorazione, mi è di buon augurio; l’assenza della febbre mi allarma. Provochiamo la febbre! provochiamo questa benefica agitazione del sangue che tende ad espellere dall’organismo gli atomi eterogenei.
«Soffiamo in questa bonaccia! suscitiamo la tempesta riparatrice!...
«E non perdiamo un istante (proseguì il medico, ritraendo la mano dalla fronte del malato); si chiami tosto... Ma, no!... io stesso sceglierò l’individuo da applicarsi...
«Vi è qui alcuno che possegga un ritratto della donna che questo infelice ha creduto di amare?...»
Fratello Consolatore si levò in piedi, levò dal portafoglio una fotografia e la porse al primato.
— Sta bene!... Conducetemi tosto ad una casa di Immolate... Là troveremo l’individuo simpatico che ci abbisogna.
E volgendosi ai giovani studenti che in silenzio lo avevano ascoltato:
— Spero — disse — che mi avete compreso. L’estirpazione del chiodo fantastico allora si effettuerà spontaneamente, quando si ottenga che quest’uomo abbia a credere in un’altra forma di donna... Se a tanto può giungere il talento e la volontà di una Immolata, è indubitabile che lo sviluppo istantaneo della febbre ricondurrà l’equilibrio nelle forze mentali, e allora il cervello potrà gridare a’ suoi satelliti: sorgete e obbeditemi!»
Ciò detto, il Virey riconsegnò a fratello Consolatore la fotografia dell’Albani, dopo averne spiccato uno dei tanti ritratti fotografici che vi erano intercalati.
— Levita! — riprese il Primate nell’atto di congedarsi — voi perdonerete alla vivacità di alcune mie espressioni che per avventura possono aver irritate le vostre suscettibilità — la scienza medica non fu mai troppo scrupolosa nella pratica del galateo. — Dopo tutto, se i nostri principii e le nostre credenze si avversano, ciò non impedisce che noi ci chiamiamo fratelli.
— Fratelli! — ripetè il Levita stringendo al cuore la mano che aveva cercato la sua — è pur consolante l’udir profferire questa parola da un uomo che nega l’amore e non crede all’esistenza dell’anima...
Il Virey, irritabile come tutti gli scienziati, stava per riprendere la sua polemica, ma un sospiro affannoso del malato gli ricordò che i minuti erano contati.
Egli volse al Levita un’ultima occhiata piena di ironia e uscì dalla stanza seguito dagli alunni.
Giunto nella via, il Virey fece salire nella sua volante il custode della Villa, e scambiate sommessamente alcune parole con lui, ordinò al conduttore di dirigersi alla piazza dell’antica cattedrale.