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XXII. Cardano
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CAPITOLO XXII.

Cardano.

Chi era quel personaggio... terribile? Lo sapremo più tardi; vediamo ora qual fosse nell’aspetto.

La sua testa era enorme. Figuratevi la materia organica di quattro teste, impiegata a formarne una sola. Al vederlo, il Virey provò un fremito di ribrezzo e si arrestò come impietrito.

— Non è dunque una favola la testa di Medusa? Se alla capacità di questo cranio — pensò lo scienziato — corrisponde il volume del midollo cerebrale, qual genio portentoso... qual grande scellerato dev’essere costui!...

Indubbiamente quell’uomo era un mostro; pure, alla immane testa non poteva rimproverarsi altro difetto fuor quello di essere sproporzionata al restante della persona. Spiccate il capo al Mosé di Michelangelo e ponetelo sulle spalle di un nano, voi avrete una immagine approssimativa dello strano personaggio.

I suoi grandi occhi bovini, coronati da grandi sopracciglia e iniettati di sangue, rivelavano una straordinaria potenza di percezione.

L’espressione del suo sguardo era tetra, non sinistra. Le grosse labbra, perfettamente delineate, dinotavano la energia e il sensualismo di un carattere ardente.

Era una testa che a primo tratto eccitava lo sgomento e il ribrezzo, ma l’occhio che sovr’essa osava arrestarsi un istante, ne rimaneva abbagliato.

La corporatura, comparativamente tozza e deforme, si faceva ammirare per lo spiccato rilievo dei contorni. Sotto la elegante sopraveste del nano si indovinavano un torace di granito, due braccia di acciaio e una muscolatura da atleta.

Il Virey, dopo aver contemplato in silenzio i singoli tratti di quel fenomeno vivente, prese animo a parlargli:

— Potete voi affermare dei diritti legali sulla suora che io intendo esportare per opera di carità umana?... In tal caso soltanto...

— Dessa mi appartiene! — interruppe il nano vivamente. — Interrogatela!... Non posso supporre che ella abbia obliati gli impegni con me presi or fanno pochi minuti.

— Noi apparteniamo alla umanità tutta intera — rispose l’Immolata sospirando; — ma quelli che soffrono, quelli che partono dalla terra hanno su noi dei diritti più urgenti.

Così parlando, la donna guardava il nano fissamente, colla espressione supplichevole e mesta del delinquente che chiede grazia all’arbitro de’ suoi giorni.

E vedendo che quegli non accennava ad arrendersi, la trepida donna rivolse la parola all’uomo che le dava di braccio, invitandolo a mostrare il mandato di estradizione di cui era munito.

Il Virey non esitò un istante a porgere il foglio.

Il nano lo percorse rapidamente coll’occhio, e parve disarmato.

— Intorno a questa mensa — riprese lo strano personaggio volgendo la parola al Virey con intonazione più mite — vi hanno ottocento suore disposte a prestarvi i loro servizi; non sareste voi abbastanza cortese per riferire la vostra scelta sovra una di quelle?

— Ragioni di scienza me lo vietano — rispose il Virey gravemente. — L’illustre malato reclama l’applicazione di un assorbente eminentemente simpatico, e in questa donna soltanto ho potuto scorgere le facoltà che al mio caso si confanno.

Il nano aggrottò le ciglia, le sue labbra impallidirono e parvero minacciare una violenta esplosione di collera. Girò una occhiata d’intorno, un’occhiata bieca, sospettosa, tremenda; ma scorgendo due ufficiali di sorveglianza che si avanzavano alla sua volta, coll’accento cupo di chi si reprime, disse:

— Sia fatta la volontà della legge! Noi ci vedremo più tardi...

Il Virey fece un saluto del capo, e la donna, cui erano state dirette le ultime parole del nano, rispose con una intraducibile occhiata piena di angoscia e di sommissione.

Poco dopo, la volante che stazionava sulla piazza della cattedrale, accoglieva nel suo grembo il Primate e la suora, e dirigevasi con moto rapidissimo verso la villa Paradiso.

Durante il tragitto, l’Immolata appariva turbata.

— Quest’uomo — le disse il Virey — ha prodotto sui vostri nervi una impressione dolorosa. Procurate di ricomporvi e di obliare. Per la missione che ora andate a compiere si esige molta calma e molta energia di volere.

— Se voi conosceste quel mostro! — esclamò l’Immolata rabbrividendo.

— Egli è dunque di una specie ben trista, se voi tremate e vi coprite di pallore al ricordarlo?...

— Egli è un mistero più buio della notte e più profondo del mare.

— Voi dunque ignorate affatto chi egli sia?

— Se ogni sua parola non è una menzogna, debbo credere che egli si chiami Cardano, e ch’egli sia ricco e potente come un re.

— E viene spesso in cerca di voi?

— Mi ama! — sospirò la donna con un gesto di orrore. — Se sapeste quale tremenda cosa sia per noi il dover subire di tali amori!...

Uno scoppio di lacrime troncò le parole della donna. Il medico accerchiò la bellissima testa col braccio e premendola al petto esclamò mestamente:

— La società moderna, designandovi col titolo di Immolate, ha reso giustizia al vostro eroismo.

— No! no! — riprendeva la desolata singhiozzando. — La mente dell’uomo non riuscirà mai a concepire le atrocità del nostro martirio. Uno dei più orrendi supplizii ideati dalla scelleraggine antica fu quello di legare ad un vivo il corpo di un estinto per seppellirli abbracciati nella medesima tomba. Orbene: nelle prepotenze a cui la Immolata si assoggetta vi è qualche cosa che assomiglia all’accoppiamento di un morto e di un vivo... Essere amata da quel mostro, dover subire i suoi amplessi, dover fingere al segno, ch’egli talvolta possa illudersi di essere amato!... È orribile... è spaventoso!...

— Da quanto tempo conoscete quell’uomo? — domandò il Virey.

— Da sei o sette mesi. Dal giorno in cui a Milano ebbe luogo l’esperimento della pioggia artifiziale ideata dal celebre Albani. Non potrò mai obliare le tremende parole ch’io lo intesi profferire in quella occasione. Al cadere delle prime stille, mentre dalla città si alzava un grido di sorpresa e di plauso, l’esplosione di un ghigno satanico mi trasse a rivolgere il capo. I miei occhi si incontrarono per la prima volta in quelli del basilisco. Ed egli, senza smettere il suo ghigno beffardo, e guardandomi fissamente: «applaudite! applaudite! — ringhiava colla sua voce cavernosa; — questo meccanismo, migliorato, corretto e opportunamente applicato, al meno danno potrà fra pochi mesi riprodurre il diluvio!»

Il Virey prestava la massima attenzione alle parole della Immolata e a sua volta diveniva tetro.

Il moto discendente della gondola avvertì lo scienziato che era tempo di avviare la conversazione sovra altro tema.

— Adunate le vostre forze — diss’egli; — cacciate dalla mente ogni avversa preoccupazione; il nuovo sacrificio a cui andate incontro darà la vita ad un fratello che ha resi i più segnalati servigi alla umanità. Poco dianzi avete nominato l’Albani, l’inventore della pioggia artifiziale. Orbene, sappiatelo: gli è appunto quell’insigne cittadino che reclama le vostre cure. Poco fa, nel gettar gli occhi sulla di lui effigie, le vostre guance si animarono di un vivo rossore, e se io non mi sono ingannato, i vostri nervi furono scossi da un elettrismo simpatico.

— Primate! — esclamò la donna rianimandosi improvvisamente — gli è che quella effigie... quelle sembianze...

— Ebbene! — esclamò il medico colla impaziente curiosità di chi sta per afferrare l’ultima parola di un enigma.

— Ebbene! — sospirò l’Immolata — quella effigie e quelle sembianze mi hanno ricordato ciò che una donna della mia condizione ha l’obbligo di obliare, che anch’io sulla terra ho amato una volta, e molto, e intensamente amato pel solo diletto di amare.

Su queste parole della Immolata la gondola toccò terra. Il Virey offerse il braccio alla donna, e si inoltrò con essa nella galleria che metteva alla stanza del malato.

— Nessun sintomo allarmante? — chiese il medico entrando.

— Nessuno — rispose fratello Consolatore.

— Lasciamo con lui questa suora e ritiriamoci. Ciò che importa — soggiunse il medico volgendosi alla Immolata — è che quest’uomo creda in voi prima che siano trascorse due ore.

Tutti uscirono dalla stanza ad eccezione della donna.

Questa si appressò tremando al letto dell’infermo.

La luce melanconica della lampada azzurra, rischiarando il pallido volto, lo abbelliva di una tristezza funerea.

L’Immolata, al vedere quelle sembianze, potè a stento reprimere un grido.

Si gettò su quel corpo assiderato coll’impeto di una madre selvaggia che trova il proprio figlio ucciso da una serpe.

Le sue braccia, incrociandosi tra le chiome dell’infermo, sollevarono dai guanciali il capo estenuato; le sue labbra tumide di sangue, esuberanti di ardore, corsero avidamente a baciare una bocca, dove la morte già delineava il suo glaciale sorriso.

Quel bacio poteva essere eterno. L’Immolata, affiggendo le sue labbra a quelle dell’Albani, dovea trasmettere la vita o assorbire la dissoluzione.

Ma i presagi del Virey non tardarono ad avverarsi. L’infermo dopo alcuni istanti aprì gli occhi.

— Che è stato? — domandò con fioca voce.

L’Immolata trasalì, e cadendo in ginocchio presso il letto del malato, gli mormorò all’orecchio una parola che parve rianimarlo.

— Il vostro nome! il vostro nome! — ripeteva l’Albani, guardandola fissamente.

E allora, con un accento pieno di soavità e di tristezza, la genuflessa prese a parlare di tal guisa:

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