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Atto quarto Atto quarto - Scena II

SCENA PRIMA.


Giardino nel monastero di San Salvatore in Brescia.


ERMENGARDA, sostenuta da due DONZELLE, ANSBERGA.


                      ermengarda.
         Qui sotto il tiglio, qui.
                 (s’adagia sur un sedile)
                                 Come è soave
Questo raggio d’april! come si posa
Sulle frondi nascenti! Intendo or come
Tanto ricerchi il sol colui, che, d’anni
Carco, fuggir sente la vita!
                      (alle DONZELLE)
                                    A voi
Grazie, a voi, che, reggendo il fianco infermo,
Pago feste l’amor ch’oggi mi prese
Di circondarmi ancor di queste aperte
Aure, ch’io prime respirai, del Mella;
Sotto il mio cielo di sedermi, e tutto
Vederlo ancor, fin dove il guardo arriva.
- Dolce sorella, a Dio sacrata madre,
Pietosa Ansberga!
(le porge la mano: le DONZELLE si ritirano: ANSBERGA siede.)
                         - Di tue cure il fine
S’appressa, e di mie pene. Oh! con misura
Le dispensa il Signor. Sento una pace
Stanca, foriera della tomba: incontro
L’ora di Dio più non combatte questa
Mia giovinezza doma; e dolcemente,
Più che sperato non avrei, dal laccio
L’anima, antica nel dolor, si solve.
L’ultima grazia ora ti chiedo: accogli
Le solenni parole, i voti ascolta
Della morente, in cor li serba, e puri
Rendili un giorno a quei ch’io lascio in terra.
- Non turbarti, o diletta: oh! non guardarmi

Accorata così. Di Dio, nol vedi?,
Questa è pietà. Vuoi che mi lasci in terra
Pel dì che Brescia assaliran? per quando
Un tal nemico appresserà? che a questo
Ineffabile strazio Ei qui mi tenga?

                       ansberga.
Cara infelice, non temer: lontane
Da noi son l’armi ancor: contra Verona,
Contra Pavia, de’ re, dei fidi asilo,
Tutte le forze sue quell’empio adopra;
E, spero in Dio, non basteranno. Il nostro
Nobil cugin, l’ardito Baudo, il santo
Vescovo Ansvaldo, a queste mura intorno
Del Benaco i guerrieri e delle valli
Han radunati; e immoti stanno, accinti
A difesa mortal. Quando Verona
Cada e Pavia (Dio, nol consenti!) un novo
Lungo conflitto...

                       ermengarda.
                           Io nol vedrò: disciolta
Già d’ogni tema e d’ogni amor terreno,
Dal rio sperar, lunge io sarò; pel padre
Io pregherò, per quell’amato Adelchi,
Per te, per quei che soffrono, per quelli
Che fan soffrir, per tutti. - Or tu raccogli
La mia mente suprema. Al padre, Ansberga,
Ed al fratel, quando li veda - oh questa
Gioia negata non vi sia! - dirai
Che, all’orlo estremo della vita, al punto
In cui tutto s’obblia, grata e soave
Serbai memoria di quel dì, dell’atto
Cortese, allor che a me tremante, incerta
Steser le braccia risolute e pie,
Nè una reietta vergognar; dirai
Che al trono del Signor, caldo, incessante,
Per la vittoria lor stette il mio prego;
E s’Ei non l’ode, alto consiglio è certo
Di pietà più profonda; e ch’io morendo
Gli ho benedetti. - Indi, sorella.... oh! questo
Non mi negar.... trova un Fedel che possa,
Quando che sia, dovunque, a quel feroce
Di mia gente nemico approssimarsi....

                       ansberga.
Carlo!

                       ermengarda.
               Tu l’hai nomato: e sì gli dica:
Senza rancor passa Ermengarda: oggetto

D’odio in terra non lascia, e di quel tanto
Ch’ella sofferse, Iddio scongiura, e spera
Ch’Egli a nessun conto ne chieda, poi
Che dalle mani sue tutto ella prese.
Questo gli dica, e.... se all’orecchio altero
Troppo acerba non giunge esta parola....
Ch’io gli perdono. - Lo farai?

                       ansberga.
                                         L’estreme
Parole mie riceva il ciel, siccome
Queste tue mi son sacre.

                       ermengarda.
                                 Amata! e d’una
Cosa ti prego ancor: della mia spoglia,
Cui mentre un soffio l’animò, sì larga
Fosti di cure, non ti sia ribrezzo
Prender l’estrema; e la componi in pace.
Questo anel che tu vedi alla mia manca,
Scenda seco nell’urna: ei mi fu dato
Presso all’altar, dinanzi a Dio. Modesta
Sia l’urna mia: - tutti siam polve: ed io
Di che mi posso gloriar? - ma porti
Di regina le insegne: un sacro nodo
Mi fe’ regina: il don di Dio, nessuno
Rapir lo puote, il sai: come la vita,
Dee la morte attestarlo.

                       ansberga.
                               Oh! da te lunge
Queste memorie dolorose! - Adempi
Il sagrifizio; odi: di questo asilo,
Ove ti addusse pellegrina Iddio,
Cittadina divieni; e sia la casa
Del tuo riposo tua. La sacra spoglia
Vesti, e lo spirto seco, e d’ogni umana
Cosa l’obblio.

                       ermengarda.
                       Che mi proponi, Ansberga?
Ch’io mentisca al Signor! Pensa ch’io vado
Sposa dinanzi a Lui; sposa illibata,
Ma d’un mortal. - Felici voi! felice
Qualunque, sgombro di memorie il core
Al Re de’ regi offerse, e il santo velo
Sovra gli occhi posò, pria di fissarli
In fronte all’uom! Ma - d’altri io sono.

                       ansberga.
                                               Oh mai
Stata nol fossi!

                       ermengarda.
                       Oh mai! ma quella via,
Su cui ci pose il ciel, correrla intera
Convien, qual ch’ella sia, fino all’estremo.
- E, se all’annunzio di mia morte, un novo
Pensier di pentimento e di pietade
Assalisse quel cor? Se, per ammenda
Tarda, ma dolce ancor, la fredda spoglia
Ei richiedesse come sua, dovuta
Alla tomba real? - Gli estinti, Ansberga,
Talor de’ vivi son più forti assai.

                       ansberga.
Oh! nol farà.

                       ermengarda.
                      Tu pia, tu poni un freno
Ingiurioso alla bontà di Lui,
Che tocca i cor, che gode, in sua mercede,
Far che ripari, chi lo fece, il torto?

                       ansberga.
No, sventurata, ei nol farà. - Nol puote.

                       ermengarda.
Come? perchè nol puote?

                       ansberga.
                                  O mia diletta,
Non chieder oltre; obblia.

                       ermengarda.
                                 Parla! alla tomba
Con questo dubbio non mandarmi.

                       ansberga.
                                         Oh! l’empio
il suo delitto consumò.

                       ermengarda.
                                Prosegui!

                       ansberga.
Scaccialo al tutto dal tuo cor. Di nuove
Inique nozze ei si fe’ reo: sugli occhi
Degli uomini e di Dio, l’inverecondo,
Come in trionfo, nel suo campo ei tragge
Quella Ildegarde sua...
                   (ERMANGARDA sviene)
                               Tu impallidisci!
Ermengarda! non m’odi? Oh ciel! sorelle,
Accorrete! oh che feci!
     (entrano le due DONZELLE e varie SUORE)

                               Oh! chi soccorso
Le dà? Vedete: il suo dolor l’uccide.

                       prima suora.
Fa core; ella respira.

                      seconda suora.
                            O sventurata!
A questa età, nata in tal loco, e tanto
Soffrir!

                      una donzella.
              Dolce mia donna!

                      prima suora.
                                Ecco le luci
Apre.

                       ansberga.
             Oh che sguardo! Ciel! che fia?

                       ermengarda.
                        (in delirio)
                                              Scacciate
Quella donna, o scudieri! Oh! non vedete
Come s’avanza ardimentosa, e tenta
Prender la mano al re?

                       ansberga.
                               Svegliati: oh Dio!
Non dir così; ritorna in te; respingi
Questi fantasmi; il nome santo invoca.

                       ermengarda.
                        (in delirio)
Carlo! non lo soffrir: lancia a costei
Quel tuo sguardo severo. Oh! tosto in fuga
Andranne: io stessa, io sposa tua, non rea
Pur d’un pensiero, intraveder nol posso
Senza tutta turbarmi. - Oh ciel! che vedo?
Tu le sorridi? Ah no! cessa il crudele
Scherzo; ei mi strazia, io nol sostengo. - O Carlo,
Farmi morire di dolor, tu il puoi;
Ma che gloria ti fia? Tu stesso un giorno
Dolor ne avresti. - Amor tremendo è il mio.
Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora
Non tel mostrai; tu eri mio: secura
Nel mio gaudio io tacea; nè tutta mai
Questo labbro pudico osato avria
Dirti l’ebbrezza del mio cor segreto.
- Scacciala, per pietà! Vedi; io la temo,
Come una serpe: il guardo suo m’uccide.
- Sola e debol son io: non sei tu il mio

Unico amico? Se fui tua, se alcuna
Di me dolcezza avesti... oh! non forzarmi
A supplicar così dinanzi a questa
Turba che mi deride.... Oh cielo! ei fugge!
Nelle sue braccia!.... io muoio!....

                       ansberga.
                                         Oh! mi farai
Teco morir!

                       ermengarda.
                        (in delirio)
                    Dov’è Bertrada? io voglio
Quella soave, quella pia Bertrada!
Dimmi, il sai tu? tu, che la prima io vidi,
Che prima amai di questa casa, il sai?
Parla a questa infelice: odio la voce
D’ogni mortal; ma al tuo pietoso aspetto,
Ma nelle braccia tue sento una vita,
Un gaudio amaro che all’amor somiglia.
- Lascia ch’io ti rimiri, e ch’io mi segga
Qui presso a te; son così stanca! Io voglio
Star presso a te; voglio occultar nel tuo
Grembo la faccia, e piangere: con teco
Piangere io posso! Ah non partir! prometti
Di non fuggir da me, fin ch’io mi levi
Inebbriata dal mio pianto. Oh! molto
Da tollerarmi non ti resta: e tanto
Mi amasti! Oh quanti abbiam trascorsi insieme
Giorni ridenti! Ti sovvien? varcammo
Monti, fiumi e foreste; e ad ogni aurora
Crescea la gioia del destarsi. Oh giorni!
No, non parlarne per pietà! Sa il cielo
S’io mi credea che in cor mortal giammai
Tanta gioia capisse e tanto affanno!
Tu piangi meco! Oh consolar mi vuoi?
Chiamami figlia: a questo nome io sento
Una pienezza di martir, che il core
M’inonda, e il getta nell’obblio.
                         (ricade)

                       ansberga.
                                           Tranquilla
Ella moria!

                       ermengarda.
                        (in delirio)
                    Se fosse un sogno! e l’alba
Lo risolvesse in nebbia! e mi destassi
Molle di pianto ed affannosa; e Carlo
La cagion ne chiedesse, e, sorridendo,
Di poca fè mi rampognasse!
                       (ricade nel letargo)

                       ansberga.
                                         O Donna
Del ciel, soccorri a questa afflitta!

                     prima suora.
                                             Oh! vedi:
Torna la pace su quel volto; il core
Sotto la man più non trabalza.

                       ansberga.
                                           O suora!
Ermengarda! Ermengarda!

                       ermengarda.
                        (riavendosi)
                                   Oh! Chi mi chiama?

                       ansberga.
Guardami; io sono Ansberga: a te d’intorno
Stan le donzelle tue, le suore pie,
Che per la pace tua pregano.

                       ermengarda.
                                   Il cielo
Vi benedica. - Ah! sì: questi son volti
Di pace e d’amistà. - Da un tristo sogno
Io mi risveglio.

                       ansberga.
                      Misera! travaglio
Più che ristoro ti recò sì torba
Quiete.

                       ermengarda.
                È ver: tutta la lena è spenta.
Reggimi, o cara; e voi, cortesi, al fido
Mio letticciol traetemi: l’estrema
Fatica è questa che vi do; ma tutte
Son contate lassù. - Moriamo in pace.
Parlatemi di Dio: sento ch’Ei giunge.



                      CORO.

   Sparsa le trecce morbide
Sull’affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.

   Cessa il compianto: unanime
S’innalza una preghiera:
Calata in su la gelida
Fronte, una man leggiera
Sulla pupilla cerula
Stende l’estremo vel.

   Sgombra, o gentil, dall’ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all’Eterno un candido
Pensier d’offerta, e muori:
Fuor della vita è il termine
Del lungo tuo martir.

   Tal della mesta, immobile
Era quaggiuso il fato:
Sempre un obblio di chiedere
Che le saria negato;
E al Dio de’ santi ascendere
Santa del suo patir.

   Ahi! nelle insonni tenebre,
Pei claustri solitari,
Tra il canto delle vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre al pensier tornavano
Gl’irrevocati dì;

   Quando ancor cara, improvida
D’un avvenir mal fido,
Ebbra spirò le vivide
Aure del Franco lido,
E tra le nuore Saliche
Invidiata uscì:

   Quando da un poggio aereo,
Il biondo crin gemmata,
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata,
E sulle sciolte redini
Chino il chiomato sir;

   E dietro a lui la furia
De’ corridor fumanti;
E lo sbandarsi, e il rapido
Redir de’ veltri ansanti;
E dai tentati triboli
L’irto cinghiale uscir;

   E la battuta polvere
Riga di sangue, colto
Dal regio stral: la tenera
Alle donzelle il volto
Volgea repente, pallida
D’amabile terror.

   Oh Mosa errante! oh tepidi
Lavacri d’Aquisgrano!
Ove, deposta l’orrida
Maglia, il guerrier sovrano
Scendea del campo a tergere
Il nobile sudor!

   Come rugiada al cespite
Dell’erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;

   Tale al pensier, cui l’empia
Virtù d’amor fatica,
Discende il refrigerio
D’una parola amica,
E il cor diverte ai placidi
Gaudii d’un altro amor.

   Ma come il sol che reduce
L’erta infocata ascende,
E con la vampa assidua
L’immobil aura incende,
Risorti appena i gracili
Steli riarde al suol;

   Ratto così dal tenue
Obblio torna immortale
L’amor sopito, e l’anima
Impaurita assale,
E le sviate immagini
Richiama al noto duol.

   Sgombra, o gentil, dall’ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all’Eterno un candido
Pensier d’offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,

   Altre infelici dormono,
Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.

   Te, dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l’offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,

   Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.

   Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com’era allor che improvida
D’un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così

   Dalle squarciate nuvole
Si svolge il sol cadente,
E, dietro il monte, imporpora
Il trepido occidente;
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.

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