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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. XII


AGAMENNONE


POEMETTO


DI


GIOANNI ROSINI



     E non è questo il talamo? e la reggia
Non è questa splendor del regno Acheo?
Non son queste le mura ove rosseggia
Vivo anco il sangue del Figliuol d’Atrèo?
Vè come torvo e tacito grandeggia
In sulle soglie il tradimento reo,
E tutto intorno di pallor colora,
E mostra il ferro sanguinoso ancora.

     Misero Re! dalle superbe antenne
Vinta alfin l’onda, ed i nemici oppressi,
Ebro di speme palpitando venne
A’ desiati maritali amplessi;
Vide la sposa e il pianto non trattenne
Negli estremi d’amor teneri eccessi;
Tu v’eri Elettra, ed ahi! tu sol fallaci
Di tua madre scorgesti il pianto ed i baci.


     Chi mai d’Atride alla già fida sposa
Ti trasse iniquo ed aborrito Egisto?
Niun più di lui vantò guancia vezzosa,
O più dolce sorridere fu visto;
Brillava ne’ suoi sguardi aura amorosa
Non foriera del cor torbido e tristo;
Sol con quest’armi, e lo permise Amore!
Involar seppe a Clitennestra il core.

     Dell’adultero fuoco, e del sospetto
Di perderlo, bollente ella e sdegnata,
Con qual fronte potè stringere al petto
Lo sposo, orribilmente innamorata?
Pur lo potè, che il timoroso affetto
Prestava a’ suoi sospiri aura infiammata,
E larga agli occhi di mentito pianto
A più gran colpa s’avvezzava intanto.

     Il Re stupì, che di Tieste il figlio
Vide alla reggia del figliuol d’Atreo,
Nè in cor la guancia o il bel girar del ciglio
L’ira paterna trattener potèo;
Ma in quel volto mirar bianco e vermiglio
Di Tieste le furie ei si credèo,
Quando alla mensa dell’incesto in pena
Vide imbandirsi la nefanda cena.


     Mal t’avvisasti di cercar, gli disse,
Asilo o sconsigliato in queste mura,
Di Tieste e d’Atreo note le risse,
Noto è lo sdegno e la comun sventura:
Partiti, e gli occhi torbidi gli fisse
In sulla faccia adultera ed impura;
Partì, ma fu pel Re cenno di morte,
E corse in grembo della sua consorte.

     L’attendea palpitando; agli atti, al viso
Conobbe il tristo lacrimevol fato,
Già sparito da’ labbri era il sorriso,
Era pallido e mesto il volto amato;
Per man la prese e sospirò, diviso
Da te già son donna le disse, irato
Minaccia il Re, partir m’impone, ed ahi!
Soffrissi io sol, che tu soffristi assai.

     Qual chi da sonno destasi, smarrita
Restò la donna, e disse sospirando,
Mezzo non v’è fuor che la tua partita?.....
Mezzo non evvi, o se pur v’è nefando,
L’adultero rispose; a me l’addita
Qual sia, gridò la donna palpitando....
Ma oh ciel! qual lampo?... ah ben v’è tempo ancora
Atride è mio tiranno, Atride mora.


     Atride no, morrò sol io, profondo
Oblìo cuopra, ei rispose, il nostro ardore....
La donna allor, che val che taccia il mondo
Quando è viva la colpa, e parla al core?
O tu, tu sempre a’ voti miei secondo
„ Che debbo far che mi consigli Amore?
E qui tacque gran pezza, e combattuta
Stette, e poi gridò torva e risoluta.

     Paghi or sarete, inferni Dei, lo veggo,
Necessario è il delitto. Amor lo vuole;
A te mio ben sol d’aspettare io chieggio
In Argo sol, fin che rinasca il Sole;
L’ira d’Atride, il suo furor preveggo,
Tu morrai, se diverso esser non suole,
Uccise ancor la figlia mia, più spene
Non v’è... ma tu tu resterai mio bene?

     Il vuoi? si resti Egisto disse, addio....
Ma un ferro?.... il ferro io tel darò, con questo
Versar tu dei d’Atride il sangue, o il mio,
Pensaci io vado. Amor ti spiri il resto.
Indi surse la notte, e ricuoprìo
Il ciel di tenebroso orror funesto,
Tacque la reggia, Amor lungi si volse,
E inaugurato talamo li accolse.


     Non le faci d’Imen, ma di Megera
Arsero ai baci orrendi ed agli amplessi,
Onde la cruda ed infedel mogliera
Lusingò del consorte i sensi oppressi,
Nè si pentì, ma ferma già com’era
Fur delitto per lei que’ baci istessi,
Baci ch’ella credè per nuove brame
Involati all’amor del drudo infame.

     Ristette pria, poi strinse il ferro, e gli occhi
Volse ad Atride, è men veloce il lampo,
E sospesa su’ tremoli ginocchi
Senza difesa il vide e senza scampo:
E quel sangue per me fia che trabocchi,
Sangue ahi sì spesso rispettato in campo,
Disse, e di pianto qualche stilla sparse,
Quando volta al suo fianco Egisto apparse.

     Nè fu, nè quivi penetrar potea
Anco immemore Egisto del periglio;
Tieste fu che invendicato ardea
Sfogar l’odio del padre in sen del figlio,
E vestito d’Egisto intanto avea
E la fronte e lo sguardo e il labbro e il ciglio,
E giunse allor che mesta era e confusa
A’ delitti sì grandi ancor non usa.


     E a che stai, le gridò, vuoi la mia morte?
E per te moro o donna, eccoti il petto,
Risolvi e tra noi due scegli il consorte,
Se in te parla il dover, taccia l’affetto;
Uccidimi, e per te possa la forte
Novella madre fecondarne il letto,
Quivi Atride t’accolga, arda a’ tuoi rai,
Nè lo divida con Cassandra mai.

     Cassandra?... sì regale schiava in Argo
L’addusse, ma con te pari non sia;....
Sognava Atride, e già del Xanto al margo
Esser gli sembra, e già gli araldi invia
La Bella a tor dal bianco petto e largo
Che men sangue agli Achei costato avrìa,
Già con Achille gli parea sdegnarsi,
E Briseide chiamò senza destarsi.

     Briseide ancor? gridò la moglie infida,
O ciel quante rivali or diemmi il fato!
E coll’acciar nella destra omicida
Addoppiò i colpi al petto disarmato,
Aprì quei gli occhi e rimbombar le strida
Traboccando sul letto insanguinato,
E viver tanto per mirar potèo
Da che man gli venia colpo sì reo.


     Corse Elettra a quei gridi, e orrenda scena
Vide aprirsi d’innante all’improviso:
Morto nel sangue il Re, di sangue piena
Clitennestra e di sangue un ferro intriso:
Fuggì credendo a’ propri sguardi appena,
Cuoprendo colla destra il pianto e il viso,
E tremebonda e stretta al cor d’un gelo
Gridò vendetta, e non fu sordo il cielo.

     Ma fu sorda la madre, a cui bollia
Vampa funesta nelle atroci vene:
Dell’adultero ardor tutta in balia
La man porse del Drudo alle catene;
Qual Nume oh ciel! qual fero Nume ardia
Auspice farsi di sì crudo Imene?
Aletto forse e del marito esangue
L’orrendo nodo sigillò col sangue.

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