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Traduzione dal latino di Giulio Cesare Parolari (1839)
1373


FRANCESCO PETRARCA


Al POSTERI SALUTE1.


Avrai forse inteso dire alcana cosa di me; avvegnachè è da dubitare che un nome, quale è il mio piccolo ed oscuro, sia mai per giungere a lontani luoghi ed a tempi avvenire. E chi sa, se allora non ti prendesse vaghezza di conoscere qual uomo io mi sia stato, o come fossero accolte le opere mie; quelle principalmente di cui t'avrà parlato la fama, ovvero delle altre che di minor conto, appena ti saranno conosciute dal titolo. E rispetto la prima cosa; in guisa affatto diversa la penseranno gli uomini de’ fatti miei; perchè ciascuno parla, non secondo ragione, ma secondo il proprio talento; e la lode ed il biasimo trasvanno ogni giusto confine. Certo anch’io mi fui uno del vostro gregge; mortale omicciatolo, non d’alta nè di bassa prosapia, ma, come Augusto disse di sè, d’antico casato. Natura mi diede indole non malvagia o invereconda; se le contagiose abitudini non l'avessero guasta. L'adolescenza ingannommi, la gioventù seco mi trascinò, mi fece più savio la vecchiaia, quando, maestra la esperienza, conobbi la verità di quel detto, che già altre volte avea letto; «non altro che vanità essere gli anni fioriti e il piacere». Che anzi, piucchè altri, il facitore dell’età e de’ tempi mi rese scorto di tanto; egli il quale permette talora che i tapini mortali, gonfii non più che di vento, qui e colà vadano errando, acciocchè tardi almeno si riconoscano de' commessi falli. Assai destra, avvegnachè non robusta ebbi da giovane la persona, nè di singolar bellezza il sembiante; tale però che negli anni più verdi apparisse piacente; fresco il colorito tra il bianco e il bruno; vivaci gli occhi e la vista lungo tempo acutissima, se non che sul sessantesimo anno mi venne mancando; onde bisognommi non senza repugnanza ricorrere alle lenti. In ben disposte membra, che furono sempre sanissime, mi trovò la vecchiaia, dalla quale con la solita schiera di malattie fui tolto in mezzo. Di buon lignaggio i genitori, e d’origine fiorentina; mediocri le fortune, e a dir vero volgenti al basso, allorchè furono scacciati dalla patria. Ond'io nacqui in Arezzo nell’esiglio, all’aurora del lunedì primo agosto 1304. Spregiai altamente le ricchezze, non perchè non le curassi, ma perchè mi veniano a fastidio le fatiche e le brighe che ne sono inseparabili compagne; nè meno mi diedi cura di tesoreggiare, onde aver modo ad imbandire splendide mense, dappoichè contento ad un sobrio vitto ed a cibi comuni, vissi assai meglio che non i successori d’Apicio, con tutta la squisitezza di loro vivande. Quelli che si chiamano conviti, e non altro sono che stravizzi, contrarii alla temperanza e al buon costume, ognora mi spiacquero; e stimai cosa non meno increscevole che vana, sia l’invitare altri, sia l'esserne invitato; frattantochè il sedere a mensa cogli amici mi cagionava tanta dolcezza, che nulla mi avessi di più caro; ma solo, di mia volontà non avrei preso mai cibo. Al lusso poi non tanto fui avverso perchè sia mala cosa e nemica dell’umiltà, ma sì ancora per le malagevolezze che incontrano nel seguitarlo, e l'interrompimento della quiete che apporta. Potentissimo fu l'amore ond’ebbi travaglio nella giovinezza, però unico ed onesto; più lunga guerra mi avrebbe dato, ove una morte dolorosa sì ma utile non avesse estinto il fuoco che già rattiepidiva. Ed oh, foss'io stato libero d’ogni cupidigia di sensi! ma mentirei, se il dicessi; affermerò solamente che, quantunque quantunque il fervore dell’età e della complessione mi trascinasse al piacere, sempre il mio pensiero ebbe a schifo cosiffatte bassezze. E non appena toccato il quarantesimo anno, mentre ancor mi sentiva vigoroso e robusto, di tal guisa m’uscì dall'animo ogni turpe appetito, che ne perdetti sin la memoria, come se non avessi mai guardato a donna. Locchè annovero tra le mie più singolari venture, e ne ringrazio Iddio; il quale, in età ancor tanto fresca, volle liberarmi da un servaggio così vile ed odioso. Ma passo ad altre cose. Per esempio altrui, non in me, provai che voglia dire superbia, e benchè uomo dappoco, pur mi stimai da meno che il vero: così soventi volte a me nocqui, agli altri mai. Bramoso oltre ogni credere delle oneste amicizie, con tutta fede le coltivai; epperchè so di parlar vero, ad alta fronte mi glorio, che sebbene d’indole molto sdegnosa, dimenticai ben presto le ingiurie, ed i benefizii tenni sempre fissi nella memoria. E in ciò m’arrise la sorte, che non senza invidia, domesticamente usassi con principi e re, e nobili personaggi avessi ad amici; se non che toccommi la sciagura comune all'uomo che invecchia, di piangere assai spesso chi si ama. I più ragguardevoli monarchi del mio tempo, mi furono cortesi sì di onori che di affetto; ed essi, non io ne sapranno il perchè. Ed alcuno di loro conversava meco così famigliarmente, che la sua altezza non mi cagionasse noja ma sì piacere. Da parecchi per altro de’ miei più cari mi dilungai; tanto in me poteva l’amore di libertà! onde avvenne che fuggissi a tutta mia possa da quanto non ne avesse il nome, o le sembrasse contrario. Sortii ingegno piuttosto giudizioso che acuto, acconcio ad ogni onesta e salutar disciplina; ma inchinevole più che mai alla filosofia morale ed alla poesia. Alla quale appresso volsi le spalle, tutto preso delle lettere sacre, in cui gustai una segreta dolcezza che un tempo avea posto in non cale; e d'allora non coltivai le poetiche discipline che a puro ristoro. Ma ciò a cui mi diedi principalmente si fu lo studio delle antiche cose, perchè la presente età sempre m'increbbe; e se non fosse l'amore dei miei, io vorrei esser nato in qualsiasi altro tempo da questo infuori; ond’è che adoperandomi a dimenticare i viventi, a nulla più intesi che a vivere co' passati. Pertanto mi piacqui negli scrittori di storia, non senza però che il loro discordare non mi gravasse; e nel seguitarne le dubbiezze, a quelli m'attenni che più aveano sembianza di vero, o forniti erano di maggiore autorità. Chiara e potente, secondo alcuni, fu la mia eloquenza, ma, secondo me, fiacca ed oscura; e nell’intrattenermi cogl’intimi amici non mi curai punto di farne mostra; che anzi mi maraviglio come Cesare Augusto se ne desse tal pena. Quando però l’argomento, il luogo e gli uditori dimandarono altro, non tralasciai di porre alquanto di studio ad esser facondo; e del come, giudichino gli altri che m’ascoltarono. Nè di questo avrei fatto gran conto, purchè buoni fossero stati i miei fatti; chè ventosa gloria è il cercar fama dalla splendidezza delle parole. Di questa guisa, siccome volle la fortuna o la mia volontà, mi corse diviso il tempo. Il primo anno di vita, nè tutto intero, lo passai in Arezzo ove era nato; i sei appresso, quando mia madre fu richiamata dal bando, nella villetta paterna di Ancisa, non più che quattordici miglia discosta da Firenze; l’ottavo a Pisa; il nono e i seguenti nella città d’Avignone, posta nella Gallia transalpina, alla sinistra sponda del Rodano, dove la chiesa di Cristo se ne rimane da lungo tempo in esiglio; ed avvegnachè pochi anni sono Urbano V. facesse mostra di riporla nell’antica sede, il suo pensiero tornò, come è noto, affatto vano; e, ciò che più m'attrista, mentre ancora viveva, quasi che si fosse pentito dell’opera buona. E se egli non avesse così presto lasciato il mondo, avrebbe certamente saputo come io la pensassi del suo ritorno. Ma quando io stava per istringer la penna, finì infelicemente i suoi giorni, cui avrebbe potuto chiudere gloriosi dinanza l'ara di Pietro, e in propria casa. Perchè, o quei che gli successero se ne rimanevano a Roma, ed a lui durava la gloria dell’opera pia; o se ne dipartivano, e di lume tanto più vivo si sarebbe adornata la sua virtù, quanto maggiore sarebbe apparsa la colpa degli altri. Ma troppo lunghi e fuor di proposito sarebbero adesso i miei lamenti. Ivi adunque, sulle sponde di quel fiume, ove può moltissimo il vento, passai sotto i miei genitori la infanzia, e appresso col giogo al collo delle mie vanità, tutta la giovinezza; non però così che non cercassi sovente altri paesi. Poichè in Carpentrasso, piccola città all'oriente d’Avignone e non molto da lei lontana, dimorai quattro anni interi, due de’ quali spesi in apprendere alcun poco di grammatica, di dialettica e di rettorica, per quanto l’età e quelle scuole lo comportavano; e qual capitale di scienza io v’acquistassi, potrai di per te farne stima, o lettore carissimo. E per altri quattro anni posi stanza in Monpellieri, a studiarvi la legge; quindi in Bologna, nella quale, fermatomi un triennio, udii tutto il corpo del gius civile, dando di me, come dissero, giovane ancora, grande speranza, se avessi durato nell’intrapreso cammino. Ma io, tosto che fui signor di me stesso, volsi le spalle alle leggi; nè tanto perchè mi spiacesse la loro autorità, che fuor di dubbio è grande e piena di romana antichità che tanto ammiro; quanto perchè gli uomini iniquamente ne abusano. Quindi m'increbbe addottrinarmi in ciò, di cui mal voleva inonestamente valermi; e secondo coscienza mi pareva impossibile il farlo, perchè allora si sarebbe ascritto a dabbenaggine la mia purezza. Contava l’anno ventiduesimo, quando me ne tornai in patria; tal chiamo Avignone, ove io avea dai primi anni menata mia vita; essendo vero che la consuetudine acquista forza di natura; e fu appunto colà che cominciai a salire in fama, ed a gettare le fondamenta d’illustri amicizie. Epperchè ciò avvenisse, mal saprei dirlo al presente, e non posso anzi non restarne ammirato; ma allora non punto me ne maravigliava, siccome colui che per giovanil leggerezza me ne credeva degnissimo. E soprattutto fui ricercato dalla illustre e generosa famiglia dei Colonnesi, che di quei tempi frequentavano, anzi crescevan decoro alla curia romana. I quali oltre ogni mio merito, mi onorarono, e principalmente il chiarissimo ed incomparabile uomo Jacopo Colonna, vescovo di Lombez, a cui somigliante non vidi e non vedrò forse nessuno. Egli conducendomi seco nella Guascogna di presso colli Pirenei, mi fu cagione, sì per la sua che per l'altrui gentilezza, che passassi una state quasi celeste; cosicchè io non rammenti quella stagione senza sospiri. Di là tornato, me ne stetti molti anni col fratel suo Giovanni Colonna cardinale, che trattandomi non qual signore, ma padre e amorosissimo fratello, più nella mia casa che nella sua mi parve abitare. Fu a quel tempo che il giovanil desiderio mi trasse a visitar le Gallie e la Germania; e benchè a lasciarmi consentire l’andata, fingessi gravi cagioni, altre in verità non ne avea che l’amor dello studio, e la smania di veder molte cose. Mossi dapprima a Parigi, che mi porse modo ad investigare quel che di vero o di falso di lei diceva la fama. M’avviai appresso alla volta di Roma, cui sin dall’ infanzia mi struggea di vedere; e trovatovi Stefano, magnanimo ceppo della colonnese casa, ed uguale a qualsivoglia altro degli antichi, così me gli affezionai, e per tal modo ne fui ricambiato d’amore, che egli tra me ed i suoi figli non ponesse alcuna differenza. E quell’uomo eccellente, durò senza mutamento ad amarmi sino alla fine; nè in me venne meno o cesseranne se non colla vita la ricordanza. Rivedute l’antiche mie sedi, cercando un luogo a che ripararmi come a porto, mi scontrai in una valle assai angusta, ma solitaria ed amena, che chiamano Chiusa, quindici miglia da Avignone, donde scaturisce il Sorga re di totte le fonti. Innamorato della dolcezza del sito, mi vi recai in compagnia de’ miei libri. Lungo sarebbe il raccontare di tuttociò che vi feci nel corso di molti anni; ricorderò solamente che ivi o scrissi, o posi mano, o immaginai quante opere mi uscirono della penna; le quali tante furono, che io ne sono insino al giorno d’oggi stanco, anzi rifinito. Perchè avendomi la natura dotato di tempere più operative che robuste, mi convenne lasciar da parte assai cose; cui se m’ era difficile a concepire, a condurle poi non mi bastavano le forze. E qui l'aspetto medesimo de' luoghi, mi suggerì di comporre la Bucolica e i due libri della vita solitaria, che intitolai a quel Filippo, che sempre grande, era allora vescovo della piccola Cavaglione, e adesso, fatto cardinale, occupa l'illustre seggio Sabinense; unico che mi sopravviva di tanti amici; ed egli, non episcopalmente come Ambrogio Agostino, ma fraternamente, amommi e mi ama. Frattantochè traeva libera vita tra quei monti, un venerdì santo mi cadde in pensiero di scrivere un eroico poema che celebrasse quel primo Scipione africano, il cui nome fin da giovinetto, m’era stato carissimo. Il quale, quantunque mi vi mettessi con tutto l’ingegno, dovetti di corto abbandonare, a cagione di molte cure che mi sopravvennero appresso; però dal soggetto, lo intitolai dell'Africa, poema che, non so se per sua o mia fortuna, fu lodato da molti, anche prima d'essere pubblicato. Io me ne stava tuttora nella mia solitudine, quand’ecco, e sembra incredibil cosa, nel giorno stesso, giungermi lettere dal senato romano e dal cancelliere dell’università di Parigi, che mi invitavano a ricevere la corona del poetico alloro. Ed io, inorgoglito di cotanto onore, e avendo riguardo più alle altrui testimonianze che al valor mio, me ne reputai degno, perchè uomini di tanta autorità mel conferivano. Siccome poi non sapeva a cui accordare la preferenza, mi volsi per consiglio al sovrannominato Giovanni Colonna, e gliene feci inchiesta per lettera. Ed egli mi abitava così vicino, che scrivendo la sera, io poteva riceverne la risposta innanzi la terza dell'indomani. Pertanto, attenendomi a quanto egli mi disse, prescelsi l’autorità del romano senato; e le due epistole che allora indirizzai all’amico, sussistono qual documento dell’aderire che feci al suo parere. Andai adunque, ma sebbene, siccome giovane, assai benevolo giudice delle mie cose, pure nell’atto di suggellare co’ fatti la testimonianza ch'io rendeva a me stesso, o quella di chi m’invitava, non potei non arrossire; se non che m’occorse al pensiero, che ove non ne fossi stimato meritevole, essi non m’avrebbero chiamato. Perciò fermato di recarmi prima a Napoli presso quel sommo re e filosofo Roberto, non tanto pel regno che per la dottrina illustre, lui unico re dell’età nostra che fosse amico alle scienze ed alla virtù, domandai di ciò che meglio mi convenisse. Quali accoglienze ne ricevessi, e di quanto affetto mi amasse è tal cosa che adesso altresì mi cagiona maraviglia; e tu pure o lettore ne proveresti altrettanta, se vi fossi stato presente. Non ebbe egli appena intesa la cagione della mia venuta, che ne menò grandissima festa; pensando la mia giovanil confidenza, e forse l'onore che gliene ridondava, nell'aver eletto lui, quale il solo giudice, tra tutti i mortali. Che più? dopo un infinito conversare intorno a diversi argomenti, gli mostrai quell’Africa mia; della quale tanto si piacque, che mi pregò come di sommo favore di volergliela intitolare; ned io seppi, o poteva negarglielo. Fissatomi poi un giorno all’effetto, per cui io era venuto, dal mezzodì non mi lasciò sino a sera. E perchè al crescere delle materie corto era il tempo, protrasse l'esame a due giorni seguenti: così dopo che ebbe posto a prova il saper mio, nel terzo dì mi credette degno della laurea. Ed egli me la offeriva a Napoli, e non rifinì dal pregarmi, perchè dalle sue mani l'accettassi; se non che l'amore di Roma, vinse la gentil violenza d'un tanto re. Ma tostochè mi vide immoto nel mio proposto, consegnommi sue lettere e spedì messi al romano senato, in cui molto cortesemente aprì il suo giudizio intorno al mio sapere; regal giudizio ch'ebbe allora l'approvazione di molti, e la mia principalmente; però adesso che scrivo, nè a lui nè a me, nè a quanti gli fecero plauso posso assentirlo: il bene che mi portava e la mia giovinezza, ebbero sovra l'animo suo maggior potenza che il vero. Quindi forte d'una tanto autorevole sentenza, tuttochè indegno, men venni a Roma; e con sommo piacere di quanti intervennero a quella solennità, ignorante com'era, fui fregiato del poetico alloro; di che, e in versi e in prosa, v'hanno alcune mie epistole. La laurea peraltro, in cambio di apportarmi scienza, mi partorì molta invidia: ma questa storia altresì troppo è più lunga che qui si convenga narrarla. Lasciata Roma, mi recai a Parma presso que' signori di Correggio, che, discordi tra loro, la governavano con reggimento siffatto, che quella città non n'ebbe mai a memoria d’uomini a sperimentare d'uguale, nè, siccome spero, alcun'altra sarà mai per averne di somigliante. Ed essi tanta amorevolezza e generosità mi usarono, che io, conoscente de' ricevuti onori, ed, a mostrare che non li aveano indegnamente indegnamente collocati, m'intrattenni alcun tempo con loro. Avvenne che un dì, nell'aggirarmi pei colli i quali son posti oltre l'Enza, sui confini di Reggio, m'innoltrassi nella selva che dicono Piana. Innamorato ad un tratto della bellezza di quella natura, mi posi nuovamente al lavoro dell'Africa, e ridestati gli spiriti che pareano assopiti, scrissi alcuni versi in quel dì e seguitamente parecchi altri ne' vegnenti; finché tornando a Parma, ed allogata una solinga e tranquilla casa, che dopo comperai, ed è di mia ragione anche adesso, con tanto di ardenza proseguii nell'impreso poema, che ne stupisco tuttora. Di già varcato il trentaquattresimo anno, feci ritorno al fonte di Sorga e alla mia solitudine oltre l'alpi. Poscia ed in Parma e in Verona feci lunghe dimore e dovunque, la divina mercè, fui caramente accolto, assai più che conoscessi di meritare. Come buon tempo trascorse, Jacopo di Carrara il giuniore, simile a cui non so se dell'età sua v'ebbe mai signore, anzi dico fermamente che no, risaputa per fama la mia celebrità, con lettere e messaggi sin al di là delle alpi, quando colà stanziava, e in qualsivoglia luogo d'Italia, cominciò a pregarmi, e per molti anni, affinchè quale amico me ne andassi a lui. Ond'io finalmente, sebbene non isperassi di crescere la misura della mia felicità, divisai di farlo contento, e vedere così che significasse questo tanto vivo pressarmi d’un uomo grande e che io non conosceva. Venni adunque, benchè tardi, a Padova, e da quel principe di chiarissima ricordanza, non che fossi ricevuto cortesemente, ma sì come i beati s’accolgono in cielo; e tanta fu la gioja, l’inestimabile amore, e la bontà sua, ch’io, perchè non posso agguagliarla a parole, stimo meglio passarmene sotto silenzio. E questo ricorderò fra i molti suoi benefizii, che sapendo siccome io da’ primi anni era addetto alla vita ecclesiastica, affine di legarmi con nodi più stretti, non solo a sè ma alla sua patria, volle ch’io venissi eletto a canonico di Padova. Conchiuderò dicendo che se a lui fosse bastata la vita, m’era questo il fine d’ogni viaggio e del mio tanto errare. Ma ahimè! che nulla v’ha quaggiù che sia durevole! perchè non appena alcun dolce si provi, che tosto a guastarlo sopraggiunge l’amaro! Non compiva ancora il secondo anno da che viveva con lui, quando Dio lo tolse al mondo e alla patria; dappoichè, se l’amore non m’inganna, nè io nè la patria, nè il mondo eravamo degni di possederlo. E quantunque gli sia successo il figlio, sì per senno che per altre doti pregevole, il quale dietro il paterno esempio sempre m’ebbe caro e lodato; io però, perduto lui, col quale anche per ragione d'età avea una maggior domestichezza, mal sapendo quietarmi, me ne ritornai nelle Gallie; non tanto per voglia di rivedere il veduto già mille volte, quanto, a sembianza de' malati, per alleviarmi la noia, col mutare di sito.

  1. Stimammo che in cambio delle usate biografie, tornasse meglio il dar tradotta questa lettera, in cui lo stesso Petrarca ne racconta la sua vita. A compimento della quale soggiungeremo soltanto, ch'egli chiuse i suoi giorni nell'amena villetta d'Arquà che aveva a proprie spese edificata il 18 luglio del 1374.

Note

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